31 ottobre 2010

Ecco come cambia il «modello» cubano

di Roberto Livi - L'AVANA
Da questo mese si è avviato il processo di «actualización» e «modernización», che entro l'aprile 2011 dovrà portare al taglio e ricollocazione di 500 mila lavoratori statali. Un'impresa titanica e rischiosa per rimettere in sesto la barca
Pedro si presenta subito come «uno dei fondatori del Minint», il Ministero degli interni. Ovvero, come un rivoluzionario della prima ora. Ha più di 60 anni, è in vista della pensione. Rivoluzionario e pensionando sono le caratteristiche che l'hanno inserito nella prima pattuglia dei 500.000 lavoratori che, entro l'aprile dell'anno prossimo, lasceranno il comodo - anche se poco remunerato - posto statale per mettersi in gioco come lavoratore por cuenta propria. Le sue credenziali lo hanno però favorito: si appresta ad essere uno dei parcheggiatori privati che gestiranno lo spiazzo antistante il mio residence, abitato da stranieri che pagano il parcheggio in moneta convertibile. Per Pedro, dunque, si prepara un atterraggio morbido nel mercato del lavoro che dovrà essere creato a Cuba a iniziare da questo mese, in condizioni di urgenza ed emergenza. Così vuole la actualización del «modello (economico-sociale) cubano», varata a settembre dal presidente Raúl Castro.
Dopo mesi di analisi e (duro) dibattito interno al partito-Stato, il Partito comunista, in sostanza il governo ha preso atto che i costi del welfare socialista (pieno impiego, mense operaie, tessera annonaria per 11 milioni di cubani, assistenza sanitaria e scuola - università compresa - gratuite, ecc.) non erano più sostenibili. Nemmeno pagando salari che - per ammissione dello stesso Raúl - non consentono di arrivare alla fine del mese (e che generano una serie di comportamenti ben poco socialisti). La decisione adottata è stata di iniziare un cambiamento di rotta - meno Stato e più privato - i cui esiti non sembrano essere ben chiari. O almeno non sono stati finora chiaramente definiti dai vertici politici. In sostanza, il governo ha deciso di tagliare mezzo milione di posti di lavoro nel settore statale, il 10% della manodopera impiegata nel settore pubblico (che controlla più dell'85% dell'economia del paese: i lavoratori del settore privato non superano i 600.000, la gran parte costituita da agricoltori che possiedono la terra lavorata).
Cooperative e licenze
Il piano adottato prevede di creare 200.000 posti di lavoro convertendo piccole imprese statali in cooperative gestite da ex-impiegati e altri 250.000 mediante la concessione di licenze per lavori por cuenta propria. Il quotidiano del Pc Granma ha pubblicato una lista di 178 «professioni» autorizzate per i privati, che vanno dal piccolo ristoratore - i gestori di paladar - all'idraulico, dal tassista al programmatore di matrimoni (e che comprende il «parqueador, cuidador de equipos automotores, ciclos y triciclos» in cui rientra Pedro). La quota rimanente di lavoratori «eccedenti» dovrebbe essere riorientata nel settore agricolo - definito «strategico», visto che Cuba importa quasi l'80% degli alimenti che consuma - e in quello delle costruzioni (dove sarà abolito l'egualitarismo salariale). Infine, nuovi posti di lavoro dovrebbero essere creati nei settori del turismo (con l'occhio rivolto soprattutto a futuri viaggiatori Usa), delle biotecnologie e farmaceutico. Se la prima parte del piano, prevista entro la fine di aprile dell'anno prossimo, avrà successo, si prevede che entro il 2013 circa 1.3 milioni di lavoratori oggi giudicati «in eccesso» - ovvero un lavoratore su cinque - saranno tagliati dal settore statale.
Se si tiene conto che attualmente i lavoratori privati registrati (esclusi gli agricoltori) sono 143.000 è possibile aver chiara la dimensione quasi titanica del cambiamento di rotta. Ma anche delle incognite che gravano sul processo messo in moto e che hanno suggerito di definirlo una «modernizzazione» e non una riforma del «modello socialista cubano».
La strada da percorrere infatti non è chiara: le future cooperative avranno problemi di finanziamento dalle banche (statali), di materie prime (lo Stato ha il monopolio dell'import e finora non sono stati aperti centri per grossisti) e di amministrazione (nessuno degli attuali impiegati ha idee chiare di come funzioni un mercato privato). Inoltre, parte dei lavoratori che chiederanno una licenza per un'attività in proprio, in sostanza, continueranno nello stesso lavoro che oggi fanno in nero, con l'obbligo però di pagare le tasse (dal 40 al 15% , secondo il reddito) e i contributi per il programma di sicurezza sociale, ma con la possibilità di assumere manodopera e di guadagnare secondo quanto producono. Infine, la fattibilità del progetto è collegata anche all'apertura ai finanziamenti esteri, americani inclusi e interessati soprattutto, almeno in una prima fase, al settore del turismo.
Quello che invece è assolutamente chiaro nei programmi del vertice cubano è che le «modernizzazioni» non dovranno mettere in pericolo la natura socialista della rivoluzione, dunque nemmeno il ruolo del Partito comunista. Su questo tema, fuori di Cuba si sprecano ipotesi e analisi sulla trasformazione - o, per alcuni, la prossima fine - del fidelismo, ovvero delle scelte economiche, sociali e politiche volute da Fidel Castro, come la nazionalizzazione della quasi totalità dell'economia cubana decisa alla fine degli anni '60 del '900 e dunque una gestione estremamente verticale del potere. Come pure le previsioni di una propensione di Raúl per modelli simili al cinese o al vietnamita (mercato e monopolio politico del partito unico). Nell'isola, il tema è affrontato dalla sparuta opposizione (che usa i canali come i blog, di limitatissimo accesso per il cittadino cubano); marginalmente in qualche articolo in un paio di riviste legate alla chiesa cattolica, che in questa fase ha acquistato un maggiore peso grazie alla mediazione del cardinale Jaime Ortega per la liberazione dei prigionieri di coscienza cubani; o in discussioni che si svolgono in circoli chiusi (i cui echi arrivano in internet). Nella sezione del venerdì del Granma, come nelle iniziative della rivista Temas e pure in alcuni interventi in trasmissioni radio e televisive, si esprimo soprattutto critiche alla gestione amministrativa (economica e sociale) del potere, con attacchi alla burocrazia statale, una sorta di nomenclatura alla cubana, che ha molte delle caratteristiche di quella degli ex-paesi socialisti dell'Est europeo.
Lo Stato da gestore a mediatore
Per questa ragione è molto difficile trovare chi è disposto a parlare con cognizione sull'argomento. E chi accetta, lo fa solo in modo informale, ovvero chiedendo l'anonimato. Quello che appare probabile, secondo quanto mi dice un economista impegnato nella discussione del nuovo piano, è che lo Stato debba progressivamente «passare dal ruolo di gestore a quello di mediatore». «Socialismo non vuol dire statalizzazione», afferma. Dunque, prosegue, lo Stato deve rinunciare al ruolo «paternalistico» fin qui svolto a scapito di un'autonomia della società civile. «E' la prima fase di un cambiamento del modo in cui la società cubana si relaziona con lo Stato e con la politica in generale».
Un linguaggio involuto, ma relativamente facile da tradurre. Nei 51 anni della rivoluzione, a Cuba la «proprietà sociale» si è realizzata come proprietà statale, il che ha dato vita a una centralizzazione burocratica e a una gestione politica monopolizzata dal vertice del Pc. Nei prossimi mesi, decine di migliaia di cubani dovranno invece iniziare a cercarsi un lavoro, a procurarsi (legalmente) gli strumenti per tale lavoro, pagarsi il pranzo (venendo a mancare i comedores obreros) e a tenere una piccola (dipende dal lavoro) contabilità perché dovranno iniziare a pagare le tasse. Insomma, la loro sopravvivenza e, nel migliore dei casi, mobilità sociale non sarà più affidata allo Stato o al partito, ma alla loro iniziativa. E dunque, probabilmente, si porranno il problema anche sul piano più squisitamente politico.
Con queste premesse è facile intuire che si apre un periodo di grande inquietudine: nei posti di lavoro sono iniziate riunioni per stabilire quale organico è il più adatto per operare con efficienza e risparmiando i costi. Efficienza e risparmio però significano qualcosa di radicalmente nuovo. Meno posti, più lavoro e responsabilità; e incertezza di come questo si tradurrà, per chi resta, in un salario maggiore.
Un'ambulanza e 30 lavoratori
Un esempio concreto lo si può trarre esaminando la situazione del settore salute pubblica (che insieme all' istruzione riceve più del 40% del budget statale). Il 10 ottobre, Granma ha pubblicato le dichiarazioni di Armando Marero, responsabile di tale settore nella provincia dell'Avana (a sud della capitale, che ha una propria amministrazione ) che comprende 38 policlinici, 25 Case della madre, 19 basi di ambulanze. Alcune delle Case della madre, afferma Marero, possono ospitare da 3 a 5 pazienti ma hanno un organico di 20 persone; alcune delle basi di ambulanze ospitano un solo veicolo, ma impiegano 30 lavoratori. Di qui la necessità di «tagli e ricompattamenti» per realizzare i risparmi e l'efficienza necessari. Se si allarga la visuale a tutta l'isola, si ha la dimensione del problema.
Se la fattibilità della «modernizzazione» che inizia in questi giorni solleva molte incertezze, grande è invece la novità politica che ne è alla base, sia per la situazione interna all'isola, sia per le relazioni (strategiche) con gli Stati uniti. A differenza del passato, le preoccupazioni, i dubbi, il malcontento o solo il mugugno non sono più confinati entro le pareti di casa o affidate a espressioni di malumori sussurrate a qualche turista (per poi, magari, chiedergli un aiutino). Parlando con amici e conoscenti, ma anche sulla guagua - l'autobus - , il tema ricorre con frequenza quotidiana. Il livello è diverso: nell'ultima riunione organizzata dalla rivista Temas (il più noto spazio di dibattito non ortodosso) hanno parlato economisti e intellettuali; in un recente incontro con Alfredo Guevara, il noto cineasta e scrittore, un gruppo di studenti ha affrontato apertamente la questione della riforma; mentre la cosiddetta gente comune esprime soprattutto preoccupazione verso un futuro che non le è chiaro. Sindacato e Cdr (Comitati di difesa rivoluzionaria di quartiere) organizzano riunioni in tutta l'isola su come applicare la «modernizzazione». Ne parlano perfino i babalao, una sorta di prete della santeria cubana di origine africana, assai influenti nei settori più popolari.
il manifesto 24/10/2010

30 ottobre 2010

Sabato 30 ottobre: tutt* a Napoli in difesa del diritto allo studio e per unire le lotte!


E pensare che da grande volevo insegnare… Quante volte questo pensiero ci è balenato per la testa!
Una frase costante ripetuta tra i corridoi delle facoltà, nelle aule, una prospettiva di vita, di lavoro, un sogno infranto dal sistema di privatizzazione e tagli dei governi degli ultimi 10 anni. Il colpo di grazia definitivo è previsto dalla nuova finanziaria in discussione in questo mese alle camere, che prevede:

• la riduzione del 17% (43.000 addetti) del personale tecnico e ausiliario delle scuole (significa che ci saranno meno ore di laboratorio e taglio delle sperimentazioni), nonché di 87.000 docenti nei prossimi tre anni.
• 4.000 istituti scolastici a rischio soppressione.
• aumenterà l'affollamento degli studenti per classe (classi più numerose) con le conseguenti difficoltà didattiche e formative.
• abolizione del tempo pieno e la reintroduzione del maestro unico per le elementari.
• aumento delle tariffe per le scuole dell’infanzia, le mense e il trasposto scolastico, diminuzione dei servizi scolastici fondamentali che causerà maggiore difficoltà di integrazione per i bambini migranti e rom.
• tagli ai centri di educazione per adulti e corsi serali. Non vengono dati fondi per il diritto allo studio e per l'edilizia scolastica.

Questo progetto di distruzione della scuola pubblica italiana si somma ai tagli all'università – 7 miliardi di euro in tre anni a scuola e università, 400 milioni tra il 2010 e il 2013 al Fondo di Finanziamento Ordinario delle università -, alla sanità – 5 miliardi in tre anni -, e agli enti locali – 20 miliardi. D'altra parte nello stesso documento di programmazione finanziaria si trovano lo di stanziamento di fondi per “le grandi opere” come il ponte sullo stretto e la Tav (14 miliardi nel biennio 2009-2011), l'aumento del 10% dei fondi destinati alle “missioni umanitarie all'estero” - 15 miliardi è la spesa prevista solo per l'acquisto di un caccia bombardiere.
Nelle nostre Facoltà gridiamo ogni giorno che i soldi per la scuola, per l'università e per la ricerca pubblica ci sono, basta cambiare rotta alle politiche nefaste di questo Governo. Lo abbiamo gridato in piazza il 16 ottobre, con i lavoratori e le lavoratrici della Fiom, chiedendo uno sciopero generale, che blocchi il Paese e che metta veramente paura a questo Governo.

E' per questo che scenderemo tutte e tutti a Napoli il 30 ottobre alla manifestazione convocata dai precari della scuola, per unire le lotte, per fermare questa finanziaria di lacrime e sangue, per dire che non abbiamo paura dei loro ricatti e che non ci fermeremo finché non ci sarà un'altra via di uscita dalla crisi.

Stiamo organizzando i pullman per la partenza da Roma!
Per informazioni: 3498414017

Atenei in Rivolta - Roma

27 ottobre 2010

Al fianco delle popolazioni di Terzigno e Boscoreale

Reportage di M.I.NA. (media indipendenti Napoletani) sulla rivolta di Terzigno e Boscoreale dopo la "proposta-pacco" fatta da Bertolaso per affrontare la perenne "emergenza rifiuti" che travolge anche il Parco del Vesuvio.
Il video ripercorre le fasi salienti della serata di sabato 23 ottobre con gli interventi del sindaco Langella, la contestazione e il disaccordo delle persone del Presidio che parlano di emergenza democratica e chiedono un piano rifiuti che guardi alla salute e non agli affari.
La serata è stata caratterizzata dagli scontri tra i manifestanti e i poliziotti in assetto antisommossa che hanno fatto un uso massiccio delle cariche coi blindati e dei lacrimogeni al CS sparando anche ad altezza uomo.

Musiche dei "Dead Prez" e dei campani "Op.Rot & mc ’OZì & dj Uncino" che ringraziamo per la disponibilità.


L'ecologismo popolare

di Maurizio Braucci*
«C'è una nuova corrente di ecologismo o ambientalismo globale che nasce dai conflitti sociali intorno al diritto e alla titolarità sull'ambiente, ai rischi di contaminazione, alla perdita di accesso alle risorse naturali e ai servizi ambientali». Così ha scritto Joan Martinez Alier, divulgatore dei temi dell'ecologismo popolare, la forma più attuale e drammatica di lotta al neoliberismo nelle aree di retrosviluppo del pianeta. Chiarisce Alier nel suo libro "Ecologia dei poveri" edito da Jaca book: «Nei conflitti ecologici distributivi i poveri si trovano spesso dalla parte della conservazione delle risorse e di un ambiente non inquinato, senza la pretesa di essere ecologisti». Se si vuole cercare di capire quanto sta accadendo in questi giorni a Terzigno e Boscoreale, bisogna partire, oltre che dalla premessa storica - cosa è accaduto negli ultimi 15 anni al ciclo dei rifiuti campano - da quella economica - le risorse ambientali sono risorse affaristiche.
Da quando nel 1999 la regione Campania appaltò il suo ciclo dei rifiuti alla Impregilo, la monetarizzazione del ciclo della monnezza l'ha fatta da padrona. A partire dal piano finanziario con cui la multinazionale richiedeva alle banche il capitale necessario al suo business, progettando così un ciclo inadatto alle caratteristiche del territorio (alta densità abitativa, grande presenza di terreni agricoli, una condizione ambientale già compromessa) ma invece capace di attrarre investimenti per la sua alta redditività. Un sistema obsoleto di discariche e inceneritori, incentivato dall'esistenza di fondi europei (Cip6) alle energie prodotte dalla combustione, prevalse perfino sulla legislazione europea che già prescriveva una gestione dei rifiuti più moderna ed ecologica. Ciò che rese possibili tali inefficienze e illeciti fu l'esistenza in Campania della gestione emergenziale dei rifiuti che permetteva, se necessario, l'inosservanza delle leggi e garantiva enormi finanziamenti pubblici speciali.
La fine degli anni '90 segnava inoltre in tutta Italia il passaggio di numerosi servizi pubblici locali nelle mani di privati, gli enti appaltavano alcune delle loro attività a società miste e consorzi creati all'uopo anche per assorbire un po' di disoccupazione e sistemare in ruoli dirigenziali esponenti di partito. Queste operazioni, ancora oggi contestate al nostro Paese dalla Corte Europea, si sono spesso risolte in nuove forme di finanziamento ai partiti (dopo la fine di tangentopoli) e in affarismi e clientele che in Campania, nel settore dei rifiuti, data la disponibilità degli ingenti finanziamenti all'emergenza, diede la stura alla creazione di società e consorzi meramente speculativi o addirittura legati alla camorra. Un elevato livello di business, non solo locale, è stato dal 1999 la matrice della gestione del ciclo dei rifiuti campano, attraverso appalti oscuri se non criminali. L'avidità dei soggetti preposti alla delicata gestione dell'emergenza e la natura politica e/o criminale dei loro amministratori, non poteva che partorire quell'immenso caos fatto di inefficienze, speculazioni e ricatti divenuto famoso in tutto il mondo come emergenza (o meglio truffa) dei rifiuti in Campania.
Le proteste delle popolazioni locali, partite ad Acerra nel 2001, insieme alle denunce di alcuni parlamentari hanno portato a continui interventi della magistratura capaci di disturbare l'esecuzione del piano previsto per i rifiuti. Il Tribunale di Napoli ha iniziato così a sequestrare alcuni impianti della Impregilo fino a confiscarle - nel 2007 - 750 milioni di euro (per profitto di reato) e interdirla a partecipare per un anno a contrattazioni con la pubblica amministrazione (mentre le si stava concedendo l'appalto del Ponte sullo Stretto). Ciò ha posto la Impregilo in grandi difficoltà verso le banche creditrici. Da quel momento, prima il governo Prodi e poi quello Berlusconi si sono adoperati per aiutare quella finanza italiana i cui investimenti erano bloccati in Campania dalla magistratura e dalle proteste. Il testo del decreto n° 90 del maggio 2008 promulgato da Berlusconi durante la sua marcia trionfale a Napoli va letto come un capolavoro di provvedimenti capaci di sbloccare il rientro del capitale investito dalle banche attraverso la Impregilo, salvando amici e sodali della politica italiana e disponendo tutto il possibile in deroga a numerose leggi in vigore.
È evidente che una soluzione del genere è stata in continuità con gli interessi della finanza a spese della gente e del territorio e che presto avrebbe riportato tutto allo stadio emergenziale di partenza. Non è un caso che a gestire il redditizio inceneritore di Acerra sia subentrata alla Impregilo la società A2A alleata della Lega (Bossi ha infatti richiesto un ulteriore utilizzo della forza per sbloccare le resistenze di Terzigno, difendendo anche lui gli investimenti del partito nel ciclo campano). Ad Acerra vengono bruciati composti di miscele che non dovrebbero andare in combustione per i devastanti effetti sull'ambiente ma che ci vanno grazie al decreto n° 90. Prima che dalla folle intenzione di aprire una seconda discarica tra le già flagellate Terzigno e Boscoreale in pieno Parco Nazionale del Vesuvio, l'attuale ripresa dell'emergenza rifiuti in Campania è nata dagli scioperi e dai boicottaggi dei lavoratori di alcuni consorzi che sono sotto minaccia di smantellamento da parte del nuovo governatore regionale Stefano Caldoro (il quale evidentemente non vuole tenersi le reti clientelari create dai suoi precedessori).
Quella di Terzigno e Boscoreale è davvero una lotta contro il neoliberismo, di quelle che se accadessero in America Latina verrebbero subito intese come forme di resistenza allo sfruttamento capitalistico ambientale, ed è una lotta che merita senza dubbio il sostegno di quanti si battono per la democrazia e per la giustizia. Come ogni forma di ecologismo popolare è una lotta di retroguardia, cioè non solo per ampliare i diritti ma per non perdere quelli fondamentali, e che viene vista spesso attraverso le lenti deformanti dello snobismo e del pregiudizio proprio a causa della sua concretezza. In Campania ci si sta battendo per mantenere una linea di confine tra esigenze umane e affari, con in campo una componente fortemente femminista, la più pronta finora a comprendere quanto questa sia una battaglia per la vita e per lo stato di diritto.
* Scrittore, sceneggiatore del film "Gomorra"
il manifesto 24/10/2010

L'intervista che Fazio non ha fatto

di Salvatore Cannavò
www.ilmegafonoquotidiano.it

Un conduttore che ha inaugurato un nuovo "tappetino Fiat", un amministratore delegato sicuro e arrogante, una lista lunghissima di domande, puntualizzazioni, verità che non hanno avuto alcuno spazio.

Ci è voluta Luciana Littizzetto con l'efficacia della battuta comica, per ascoltare una domanda vera diretta a Sergio Marchionne, ieri sera a "Che tempo che fa". L'umorista torinese ha infatti chiesto esplicitamente che fine fa Termini Imerese e se davvero la chiusura dello stabilimento siciliano è l'assaggio di una Fiat che ormai se ne va all'estero e si "libera" del "peso Italia". Peccato che Marchionne non fosse più presente e che quindi fosse libero, lui sì, di eludere la domanda. Molto soddisfatto, si suppone, delle domande che fino a qualche minuto prima gli aveva porto con garbo, in oltre venti minuti di intervista (un'enormità in televisione) il buon Fabio Fazio.

Eppure le domande giuste è lo stesso Marchionne a tirarsele dietro, grazie al suo stile diretto, franco, un po' arrogante ma esplicito. Ecco cosa si poteva chiedere e Fazio si è ben guardato dal fare.
L'Italia, dice Marchionne, è al 118 posto della classifica sulla "Efficienza lavoratoriva" e al 48° nella graduatoria sulla competitività, redatta dal World Economic Forum. Ma quanto è attendibile questa classifica? E, soprattutto, di chi è la colpa? L'Italia è la seconda industria manifatturiera del mondo per prodotto pro-capite e la quinta al mondo per produzione complessiva. Davvero è così scarsa in efficienza lavorativa? La Ferrari e la Maserati del gruppo Fiat dove si collocano, non sono forse in Italia? E come fa a essere produttivo un gruppo che tiene uno stabilimento con oltre 5000 operai, Pomigliano, in cassa integrazione da quasi due anni, che ha già chiuso Termini Imerese e che utilizza la Cassa integrazione a singhiozzo anche per Mirafiori e Melfi? Non è un problema dell'azienda? Ancora, i bilanci recentemente presentati da Fiat parlano di utili prodotti in particolare dalla macchine agricole (Cnh) e dai camion (Iveco). Non sono anche in Italia gli stabilimenti di queste due aziende?

Fazio ha voluto incentrare lo scontro su Pomigliano attorno alla questione delle pause che nell'accordo siglato a giugno vengono ridotte da 40 a 30 minuti. Lo stesso accadrà a Melfi dalla fine del 2011. Ma, come ha spiegato lo stesso Marchionne, «non è questo il punto». In realtà, gli operai non sono contenti di questa soluzione ma è altrettanto chiaro che la stessa Fiom non intende alzare barricate su pause, 18 turni e straordinari. Il punto è infatti un altro, solo che nell'intervista non è stato nemmeno toccato. Si è parlato di «diritti» difesi dal sindacato e «assolutamente non toccati» dall'azienda, come ha sottolineato l'ad Fiat. Ma si poteva tenere una copia dell'accordo di Pomigliano sotto gli occhi e leggere il punto 15 denominato "Clausole integrative del contratto nazionale di lavoro": «Le Parti convengono che le clausole del presente accordo integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno sono da considerarsi correlate ed inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare di cui agli elenchi, secondo gradualità, degli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti per mancanze e comporta il venir meno dell’efficacia nei suoi confronti delle altre clausole«. Alla clausola 14 inoltre si prevede «che il mancato rispetto degli impegni ivi assunti dalle organizzazioni sindacali e dalle Rsu (...) anche a livello di singoli componenti (...) libera l'azienda dagli obblighi derivanti dal presente accordo nonché da quelli derivanti dal Ccnl Metalmeccanici in materia di: contributi sindacali, permessi sindacali retribuiti, organi direttivi nazionali e provinciali». Insomma i diritti violati dall'accordo sono i diritti stabiliti dal contratto nazionale di lavoro, compreso il diritto ad ammalarsi violato al dispositivo n. 8. Ma di tutto questo Fazio non ha chiesto nulla.

Marchionne ha fatto una promessa in diretta tv: se mi date mano libera, cioè se rendete le fabbriche «governabili» porto i salari italiani allo stesso livello di quelli europei, di Francia e Germania, in particolare di quest'ultima presa come riferimento obbligato. Bene. In Germania i salari sono circa il doppio di quelli italiani - alla Volskswagen si oscilla tra i 2500 euro al mese e i 3000 e si lavora 32 ore la settimana; in Italia si oscilla, per 40 ore contrattuali tra i 1200 e i 1500 - come è possibile realizzare un simile obiettivo quando l'Accordo sul modello contrattuale siglato da Confindustria, Cisl e Uil, nel gennaio del 2009, riduce la possibilità di aumenti salariali al passo con l'inflazione? Solo con il secondo livello e gli aumenti di produttività? Ma se la Fiat quest'anno, unilateralmente, ha cancellato il premio di produttività. In quanti anni, decenni forse, è realizzabile quell'obiettivo?

Marchionne ha parlato di Melfi e dei tre operai licenziati perché, secondo l'azienda, bloccavano un carrello di trasporto dei pezzi di ricambio. «E' anarchia non si può governare una fabbrica di migliaia di persone con gente così». Eppure quei tre operai sono ricorsi al giudice, che ha sentenziato l'illeggittimità del loro licenziamento e il loro reintegro in fabbrica (che la Fiat contesta con il ricorso in appello). Al fianco di quei tre operai la scorsa estate si è pronunciato addirittura il Capo dello Stato che, evidentemente, non ha giudicato «anarchico» il loro comportamento. Eppure Fazio non se n'è ricordato.
Marchionne ha annunciato che l'Italia per i bilanci è un peso (e abbiamo visto però il contributo che dall'Italia ricevono i conti della Fiat) e ha affermato con nettezza, senza alcuna obiezione, che comunque il conto con lo Stato la Fiat l'ha ripagato e che non intende chiedere altri aiuti. Due bugie senza alcuna contestazione. Quando sarebbe stato ripagato il conto? In che modo? Qualcuno può esibire un versamento, un'elargizione allo Stato, qualcos'altro? Marchionne può forse vantare la creazione di migliaia di posti di lavoro? Nel 2000 gli addetti del gruppo erano circa 74 mila oggi superano di poco i 50 mila. Nel comparto Auto si è passati da 30 mila a 22 mila considerando ancora i dipendenti di Termini Imerese. Questo è il conto saldato? Quanto agli aiuti, non è un mistero che Fiat stia premendo per ottenere nuovi incentivi per l'auto a metano ovviamente con il pretesto dell'auto ecologica. La Fiat negli ultimi due anni può vantare aiuti pubblici per circa14 miliardii: 8 miliardi ricevuti da Obama per salvare la Chrysler, 2 dalla Russia, 2 dal Messico, 1 miliardo circa per lo stabilimento in Serbia, 1 miliardo per lo stabilimento polacco di Tychy e quello in Turchia. Più gli incentivi di cui ha beneficiato in Italia e soprattutto la cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga utilizzata a piene mani per far fronte alla crisi. Il debito con l'Italia è ancora del tutto aperto e con l'ipotesi di andare via, in realtà, la Fiat punta a non pagarlo mai.

Alla domanda se si prepara a scendere in politica, Marchionne ha risposto con non chalance che non ci pensa nemmeno, lui continuerà a fare «il metalmeccanico». Senza polemizzare, si sarebbe potuto chiedere serenamente quanto guadagna «il metalmeccanico Marchionne». I dati sono stati resi pubblici dalla Fiat: nel 2009 il compenso ricevuto dall'amministratore delegato è stato di 4,78 milioni di euro, di cui 1,35 milioni a titolo di bonus. Il presidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo ha percepito, anche in forza della carica rivestita nella Ferrari, 5,17 milioni di euro. Un metalmeccanico vero guadagna circa 30 mila euro lordi e per guadagnare quello che Marchionne guadagna in un anno dovrebbe lavorare 160 anni. Si poteva concludere così l'intervista, senza retorica.

23 ottobre 2010

Dimezzato il Piano triennale Il Comune «taglia» 45 milioni

VERONA — «Sono tagli pesantissimi! Ci siamo sacrificati un po’ tutti. Io? Io spero di riuscire a fare l’obbligatorio, lo stretto necessario… ». L’assessore ai Lavori Pubblici, Vittorio Di Dio, esce scuotendo la testa dalla riunione di giunta che ha appena approvato il Piano triennale per le opere pubbliche dal 2011 al 2013. L’indicazione data la settimana scorsa da Tosi («Via subito almeno il 40 per cento dei soldi richiesti da ciascun assessorato ») è stata rispettata più che alla lettera: E così, da 90 milioni di richieste presentate, si è scesi a quota 45. Sforbiciando a raffica, e spesso rinviando all’anno prossimo diverse voci. «Il rinvio - spiega lo stesso Di Dio - è legato ad una speranza che è però anche un’ipotesi molto sensata e realistica: quando entrerà in funzione il Piano degli Interventi (che dovrebbe essere approvato alla fine di quest’anno) ci saranno nuove e maggiori entrate legate al pagamento delle opere di urbanizzazione. E intanto anche dal settore Patrimonio potrebbe arrivare qualche soldo in più, con la vendita di immobili».

Aspettando la svolta, peraltro, i sacrifici imposti ai vari settori sono davvero notevoli. Il più «sforbiciato» di tutti sembra essere il settore dell’Istruzione, che si vede assegnare 7,9 milioni di euro a fronte di una richiesta iniziale di 26 milioni e 711 mila euro. Secondo l’assessore Alberto Benetti si farà comunque fronte ad alcuni impegni notevoli, a partire per esempio dall’adeguamento delle scuole Carducci e Betteloni (1 milione e 800 mila euro ciascuna). Per dare un’idea delle riduzioni varate ieri (ovviamente parzialissima, visto che si parla di oltre trecento interventi) ecco alcuni altri dati: il Parco Urbano di fronte alla Fiera, nell’area del Prusst, avrà a disposizione l’anno prossimo 650 mila euro, anziché i 2 milioni richiesti, e la spesa triennale complessiva scenderà da oltre 4 milioni a 3.679.000. Non si tocca invece la spesa per il Traforo delle Torricelle (436.101.000 euro nel 2011, sborsati però per 382.751.909 euro dai privati e per 53.349.091 dalla Serenissima), come pure resta ferma la spesa, l’anno prossimo, di 158.792.114 euro per il filobus, di cui 72.960.114 in arrivo da Roma.

Gli interventi per la sicurezza stradale passano da 492 mila a 200 mila euro l’anno prossimo, e nel triennio scendono da 1.492.000 a 1.200.000 euro. I lavori al Museo Archeologico al Teatro Romano scendono l’anno prossimo da mezzo milione di euro a zero, e nel triennio calano da un milione e mezzo ad un milione; anche i lavori a Castelvecchio (torre d’ingresso al Circolo Ufficiali) restano a zero l’anno prossimo, spostando tutto ai due anni successivi. Stessa sorte per il Castello di Montorio: da 250 mila euro a zero l’anno prossimo, anche se nel triennio la cifra totale prevista resta a quota mezzo milione. Riduzioni a catena per le spese previste nelle Circoscrizioni cittadine, che dovranno «dimagrire» dai 17 milioni richiesti inizialmente a poco più di otto.

Poi, una curiosità: Palazzo Barbieri dovrà fare a meno, il prossimo anno, della prevista sostituzione dei suoi serramenti esterni: se ne riparlerà (per una spesa di 250 mila euro) nel 2012. Tra le manutenzioni straordinarie in programma, si nota il calo, l’anno prossimo, dei finanziamenti per il controllo e l’ispezione ponti (da 180 mila a 70 mila) e quelli per il Ponte Nuovo (da 300 mila a zero il prossimo anno, concentrando tutta la spesa di 1 milione e mezzo sull’anno successivo). Sforbiciate drastiche un po’ dappertutto, insomma: ma quando vale il vecchio detto degli impresari squattrinati alle ballerine («bambole, non c’è una lira!») probabilmente è difficile percorrere strade diverse.


di Lillo Aldegheri
Corriere di Verona 19 ottobre 2010

Francia: la protesta non si ferma, un intero Paese bloccato

di Nina Ferrante
Parigi

www.ateneinrivolta.org

Il governo trema, inspira, espira, tuona soluzioni. Unità di crisi. I treni funzionano a singhiozzo in tutta la Francia, la rete metropolitana, ulteriore orgoglio dei parigini non assicura il servizio pieno da giorni, le pompe della benzina continuano a chiudere una dopo l'altra cedendo al blocco delle raffinerie che nenache la repressione più dura riesce a riattivare.
Intanto i camionisti, uno dei settori più coinvolti nel movimento, si coalizzano con gli operatori territoriali per quella che è stata nominata “opération escargot”, operazione lumaca: l'obiettivo rallentare le arterie del traffico francese. Mentre di notte il porto di Marsiglia brilla delle navi bloccate dal prolungato sciopero dei portuali. E gli aereoportuali non resteranno a guardare. Secondo le stime del ministero trecento licei sono bloccati, secondo i sindacati studenteschi, oltre il migliaio.
Dall'inizio di settembre tra scioperi e manifestazioni la mobilitazione ha continuato a crescere, ma il vero attacco è stato sferrato il 12 ottobre, quando più settori hanno convocato lo sciopero ad oltranza. Sciopero duro, ma soprattutto contagioso; i disagi aumentano insieme al consenso popolare per le proteste contro un governo che continua a rifiutarsi di trattare. Il governo resiste, il consenso cresce, la protesta dilaga. “Sarko t'es fotou la jeunesse est dans la rue”, Sarkozy, sei fottuto, i giovani sono per strada. Il governo trema, inspira, respira, ostenta sicurezza. Polizia. Sarko continua a dichiarare che tutto è sotto controllo, la realtà è che né la
polizia, né i gas, né i flash ball riescono a riportare l'ordine. Crescendo il consenso cresce la repressione, e quanto più cresce la repressione tanto più si risveglia la collera dei giovani (era mai andata a dormire?).
Nei giorni passati un ragazzino di sedici anni, di Montreuil, periferia est di Parigi, mentre costruiva una barricata fuori il suo liceo, è gravemente ferito da un flash ball, tanto che rischia di perdere un occhio. Dal 12 ottobre, secondo dati ufficiali del Ministero dell'Interno francese, sono circa 2000 i ragazzi interpellati dalla polizia perchè coinvolti nelle proteste. Sarkozy conosce bene il potenziale di questa gioventù e sa bene anche come affrontarla, come tagliarle le gambe prima che il movimento esploda realmente anche tra i giovani, che negli anni passati hanno rappresentato un catalizzatore di tutte le mobilitazioni. Opera così una divisione scientifica tra “buoni e cattivi”. E i più cattivi di tutti sono quei nani da giardino con il cappuccio tirato giù e la kephia. Sono giovani, giovanaissimi, ma secondo lo stato abbastanza grandi per la galera; quindi grandi abbastanza per poter decidere del loro futuro e da aver accumulato abbastanza odio contro la società franco-francese che li ha relegati a cittadini di seconda categoria, con un
passato coloniale, un presente di merda e un futuro senza prospettive. Ogni mattina blocage, bloccano la scuola, affrontano per questo la polizia e poi partono per il debrillage, il giro della banlieu, verso altri luoghi di lavoro, le facoltà. Portano in giro la loro rabbia e invitano tutti ad unirsi ai loro cortei spontanei. Tutti i giorni qui a Parigi c'è ameno un corteo, un presidio, un'azione. Almeno una volta alla settimana un grande corteo da tremilioni di persone.
Intanto girano le immagini dei casseur, ma è la Greve General, lo sciopero generale è il vero spettro che si aggira per l'Europa! Gli scioperi, i cortei immensi che aumentano di settimana in settimana, l'attacco al cuore economico del paese, l'ascesa del consenso popolare. Questo è ciò che fanno bene a temere i governi di molti paesi di un'Europa unita dalla crisi, dai piani d'austerità,
dalle privatizzazioni e dalle riforme impopolari. Da qui la necessità di continaure a puntare il dito sui casseur, mentre la reale radicalità di questa mobilitazione è nei luoghi di lavoro, lungo le strade dei cortei immensi e non a margine di essi.
Ma ancora di più ciò che spaventa è la parola gagner, vincere. È la parola che più sento sulla bocca della gente. Vincere non è un'illusione da pivelli, ma il fine, più che una possibilità, per chi ha memoria delle mobilitazioni passate. Le proteste non sono un rito, e fino alla vittoria non è uno slogan. Ogni francese sa, ne ha consapevolezza, che per arrivare al ritiro della riforma delle pensioni, serve il contributo di ognuno e ognuna, per mettere sotto pressione il sindacato e vedere il governo vacillare.

Liscia, gassata o «democratica»? A Bersani piace l'acqua industriale

di Andrea Palladino
Acquedotto pubblico, ma gestione affidata
alle società di capitale modello Acea. Ora il testo sarà discusso tra gli iscritti
La proposta del Partito democratico in materia di acqua mi sembra una buona base di discussione». Il plauso della Federutility a Pierluigi Bersani arriva subito dopo la presentazione della piattaforma del Pd sul servizio idrico integrato. Nulla di nuovo, in realtà, e non sorprende l'approvazione da parte dell'associazione che riunisce i colossi dell'acqua e dell'energia. Pubblico - secondo il Pd - deve rimanere solo l'acquedotto, ovvero le reti, mentre la gestione potrà, anzi, dovrà essere affidata a chi garantisce la gestione industriale. In altre parole alle società di capitale, soprattutto quelle miste pubblico private, sul modello Acea e Acqualatina.
Il Partito democratico ha formalizzato l'idea di gestione dell'acqua - sponsorizzata dagli ecodem - con una proposta di legge che verrà discussa tra gli iscritti. Un testo in sedici articoli che in sostanza riporta la situazione a prima del decreto Ronchi, con qualche piccolo aggiustamento.
L'articolo nove entra nel merito dell'affidamento del servizio. Tre le opzioni: società a capitale interamente pubblico, società mista publico privata e società interamente privata. Nulla di nuovo, in sostanza, rispetto al modello nato nel 1994 con la legge Galli.
Anche sul tema delicato della tariffa la proposta del Pd ricalca la legge che per prima privatizzò il servizio idrico, mantenendo la remunerazione del capitale investito, ovvero quel profitto garantito per legge che i referendum del Forum vogliono abrogare. All'articolo 10 si legge che la tariffa sarà composta dai costi d'investimento, dai costi operativi e da una percentuale da stabilire di utile. L'unica novità riguarda la tutela del territorio e delle risorse idriche, con costo sempre a carico dei cittadini, attraverso le bollette. L'articolo 11 del testo tende a risolvere il problema dei gestori che non sono riusciti a creare le fognature. La questione era stata affrontata lo scorso anno dalla Consulta, che aveva stabilito come non fosse dovuto il pagamento della depurazione in quei territori senza fognature a norma. In altre parole se nella mia città ci sono fogne a cielo aperto, non ha senso pagare per un servizio inesistente. Il Pd ci mette una toppa: «La quota di tariffa riferita ai servizi di pubblica fognatura e di depurazione è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».
Il Pd, dunque, sposa in pieno il modello industriale, basato sulla gestione dell'acqua da parte delle ricchissime società multinazionali multiutility. Il modello Bersani cerca di attuire i lati più duri e spigolosi dell'ultraliberismo della legge Ronchi - che impone come unico modello la gestione privata - ma si oppone decisamente alla riforma radicale voluta da un milione e quattrocento mila cittadini. E' bene ricordare come il movimento per l'acqua pubblica - dove per pubblica si intende anche la gestione - sia cresciuto negli ultimi anni soprattutto grazie alle battaglie sul territorio contro il modello misto pubblico-privato che finora ha governato le risorse idriche. Oltre al caso eclatante di Acqualatina - dove Veolia controlla il 49% e dove siede nel cda uno dei tecnici del Pd in tema di acqua, Luigi Besson - ci sono le gestioni toscane, divise tra Acea, Suez e la stessa Veolia. La stessa situazione è presente in Calabria, con la Sorical, in Sicilia con Sicilacque (sempre Veolia), in Campania con la Gori (la romana Acea) e nel Lazio con la gestione in provincia di Frosinone e di Roma (Acea, posseduta per il 51% dal comune di Roma e oggi partecipata in buona parte dal gruppo Caltagirone). Nel nord domina l'emiliana Hera, oltre all'A2A, presente in Lombardia. Tutte società figlie di quella «gestione industriale» che tanto piace al Pd.
il manifesto 22/10/2010

22 ottobre 2010

Ingiustizia è fatta

di Massimo Roccella
Il Parlamento ha approvato il «collegato lavoro» la legge che Napolitano aveva rimandato alle Camere
A fronte di una situazione sociale di gravità estrema (disoccupazione crescente, redditi reali calanti), governo e maggioranza sono tornati ad occuparsi delle questioni del lavoro nei termini a loro più consueti: con l'approvazione definitiva di una legge che porterà nuovi e gravi elementi di squilibrio fra imprese e lavoratori, a tutto svantaggio di quest'ultimi. Dopo essere stato rinviato alle camere dal Presidente della repubblica, il famigerato Collegato lavoro è ormai pronto a dispiegare i suoi effetti. Rispetto alla versione iniziale il testo presenta qualche miglioramento: il che, peraltro, non impedisce di coglierne l'obiettivo di fondo, riconoscibile nel tentativo di circoscrivere gli spazi della giurisdizione ordinaria, rendendo per i lavoratori più difficile e incerta la possibilità di far valere in sede giudiziaria la lesione dei propri diritti.
Resta vero, comunque, che tale obiettivo risulta perseguito con norme di diverso grado di pericolosità. La nuova disciplina della certificazione dei contratti di lavoro, che tanti allarmi ha suscitato, rappresenta, a ben vedere, null'altro che un ballon d'essai. Una volta che il giudice abbia accertato che nel contratto di lavoro certificato le parti hanno voluto inserire clausole contrastanti con norme inderogabili di legge e contratto collettivo, infatti, niente potrà impedirgli di dichiararne la conseguente nullità; né egli potrà sentirsi costretto a considerare legittimo un licenziamento per il mero fatto che nel contratto collettivo o, peggio ancora, nel contratto individuale certificato vengano considerati come giusta causa o giustificato motivo dello stesso comportamenti di rilievo irrisorio (un ritardo di pochi minuti nel presentarsi sul posto di lavoro, per fare un esempio, resta un comportamento di limitatissimo rilievo disciplinare, che nessun contratto certificato potrà legittimamente far rientrare nelle nozioni legali di giusta causa o giustificato motivo).
La nuova disciplina dell'arbitrato d'equità (che, stando alle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto consentire di destabilizzare radicalmente l'impianto del diritto del lavoro, legittimando gli arbitri a decidere secondo propri, soggettivi criteri di giustizia e, ciò che più conta, senza tener conto di norme inderogabili di legge e contratto collettivo) è stata significativamente ridimensionata. L'accordo fra le parti (ovvero la clausola compromissoria), che costituisce il presupposto della procedura arbitrale, non potrà riguardare le controversie in materia di licenziamento. In secondo luogo è stato precisato che il collegio arbitrale, per quanto d'equità, dovrà giudicare non più soltanto nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, ma anche dei principi regolatori della materia: fra i quali notoriamente rientra il carattere normalmente inderogabile della norma di legge lavoristica e delle clausole dei contratti collettivi. Lo spazio dell'arbitrato d'equità sembrerebbe ridotto all'osso. Ciò non toglie che, su una materia così delicata, sono state scritte norme confuse e pasticciate, foriere di un'infinità di controversie interpretative ed applicative, che nuoceranno ai lavoratori, ma, a ben vedere, alle stesse imprese. Né si può sottacere che non basta aver stabilito che la clausola compromissoria non possa essere stipulata prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, oppure almeno trenta giorni dopo la stipulazione del contratto in tutti gli altri casi, per far venir meno il carattere sostanzialmente obbligatorio dell'arbitrato, che continua a renderne la disciplina fortemente sospetta di illegittimità costituzionale. Soltanto ragionando in termini astratti e formalistici, infatti, si potrebbe sostenere che nella fase iniziale del rapporto i lavoratori (soprattutto quelli delle piccole imprese e gli assunti con contratti precari) potrebbero manifestare liberamente il proprio consenso alla rinuncia alla giustizia ordinaria in favore di quella arbitrale.
Le disposizioni più pericolose, anche per il loro carattere immediatamente operativo (quelle sull'arbitrato necessitano il previo raggiungimento di un'intesa fra le parti sociali), sono quelle che subordinano al rispetto di drastici termini di decadenza la possibilità di agire in giudizio. Non ha ottenuto alcun ascolto l'obiezione che la norma, che impone ai lavoratori precari (a termine, interinali, a progetto) di rispettare un breve termine di sessanta giorni per contestare la legittimità della cessazione del proprio contratto di lavoro, nella pratica si tradurrà in una sanatoria preventiva degli abusi: stante la notoria riluttanza di questi lavoratori ad attivarsi tempestivamente, nella speranza di non compromettere una nuova assunzione. L'aspetto più inaccettabile delle nuove regole va comunque visto nella forfettizzazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore che si sia visto riconoscere l'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro. Sino ad oggi il risarcimento andava ragguagliato in misura integrale alle retribuzioni perdute per effetto dell'illegittima cessazione del rapporto di lavoro; d'ora in poi andrà liquidato fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità di retribuzione, indipendentemente dall'entità del danno effettivo che, in ragione della durata del processo, potrebbe risultare ben superiore. Il principio costituzionale d'eguaglianza e quello del giusto processo sono stati messi all'angolo in un colpo solo.
Il Collegato lavoro rappresenterà adesso un doppio banco di prova. In prospettiva per l'opposizione, che, dopo averne ripetutamente contestato i contenuti, dovrà dimostrare la sua coerenza, assumendo inequivocabili impegni abrogativi nel contesto del programma con cui si presenterà alle prossime elezioni (anticipate o meno che siano). Nell'immediato per Confindustria, Cisl e Uil: se esse, nonostante la notoria contrarietà della Cgil, dovessero insistere sull'arbitrato d'equità, procedendo alla stipula dell'accordo prefigurato dalla legge, va da sé che si tratterebbe di un ulteriore colpo alle possibilità di ricucitura dei rapporti fra sindacati, che priverebbe di credibilità, al tempo stesso, la proclamata volontà di coinvolgere il sindacato più rappresentativo in un nuovo patto sociale.
LA LEGGE
È stata approvata martedì in via definitiva dalla Camera il «collegato lavoro», la legge che il presidente Napolitano aveva respinto alle Camere. Ora la legge, con alcune modifiche che però non modificano la sostanza del provvedimento, tornerà per la promulgazione dal presidente della Repubblica.
I PRECARI NEL MIRINO
Le misure più pesanti riguardano i precari. La legge introduce infatti un limite temporale di due mesi alla possibilità (per un lavoratore precario) di rivalersi in giudizio contro un ingiusto licenziamento. Non solo: il risarcimento del danno corrisponderà d'ora in avanti a una cifra compresa tra 2,5 e 12 mensilità (fino a oggi dovevano essere risarcite tutte le retribuzioni perdute).
AL LAVORO A 15 ANNI
La legge sancisce anche la fine dell'obbligo scolastico a 16 anni. Viene introdotta infatti la possibilità di assolvere l'ultimo anno di scuola con un contratto di apprendistato.

il manifesto 21/10/2010

19 ottobre 2010

Dopo il 16, fioriranno le rose?

di Salvatore Cannavò

www.ilmegafonoquotidiano.it

La manifestazione Fiom ha riproposto il paese legato al lavoro, la democrazia, il conflitto. Riuscirà dall'evento a passare al movimento?

Alla fine Epifani ha ceduto alla pressione della piazza, a quegli operai e studenti che a pochi metri da lui gli hanno urlato "sciopero generale" per tutta la durata del suo intervento. Ed è stato costretto a dire "lo faremo" senza specificare come né quando. In realtà è difficile che la Cgil cambi la linea tenuta finora, a meno di un cambio generale nel quadro politico. La bussola resterà quella del "patto sociale" con Confindustria, che si riunirà di nuovo il 21 ottobre, e di una possibile ricucitura con Cisl e Uil ipotesi a cui lavorerà soprattutto il Pd come dimostra l'intervista di Bersani a Repubblica.

La Cgil ovviamente dovrà risentire della manifestazione di sabato 16, troppo grande l'impatto complessivo e il prestigio accresciuto della Fiom per fare finta che tutto proceda come prima. Probabilmente ci saranno delle lusinghe al gruppo dirigente di Corso Trieste fino al giorno prima tenuto a debita distanza ma non sembrano intravedersi elementi portanti di un cambio di rotta. Soprattutto nel paese reale, nelle fabbriche e nel clima di rassegnazione che si respira. Se la manifestazione Fiom modificherà questo clima lo si vedrà nelle prossime settimane.

Il problema di fondo è che la Cgil è appesa all'ipotesi concertativa ed è ancora dipendente dai movimenti della politica. E la politica oggi ha detto che Casini non farà alcuna alleanza con un Pd che deve mediare tra la Fiom e tutto il resto. L'ipotesi di alleanza tra nuovo Ulivo e Udc passa anche per la ricucitura tra Cgil e Cisl e questa prospettiva resta ancora aperta anche se tutto la rende sempre più difficile.
Ovviamente la manifestazione di sabato è l'intralcio principale per le ragioni evidenti. In piazza si è rivisto ancora una volta quel paese legato alla storia e alle ragioni della sinistra di classe, che crede che i "padroni" esistano ancora, crede nella Costituzione, nel lavoro, in un'ipotesi di trasformazione sociale. Il discorso di Landini lo ha rappresentato plasticamente nelle sue varie sfumature. E' quel paese che si oppose nel 92 alla concertazione, che ha protestato contro le riforme delle pensioni, di destra e di sinistra, ha partecipato alle giornate di Genova, ha difeso l'articolo 18, ha dato forza alla Fiom e per quasi venti anni a Rifondazione comunista. E' un pezzo grande che sabato si è di nuovo fatto vedere. Certo, stavolta soprattutto "ristretto" alla Fiom con un po' di soggetti intorno, in particolare gli studenti. Qualche anno fa era un popolo più vasto, ma dimostra ancora di esserci. E questa "base" non è adatta a far ricompattare la Cgil.

Cosa potrà fare questo soggetto, come può passare dall'evento di un sabato pomeriggio a un movimento più di fondo? Le risposte sono scontate e difficili allo stesso tempo. E' chiaro che la dinamica dello sciopero generale è quella decisiva così come è importante la capacità di definire luoghi unitari per rendere stabile l'alleanza tra diversi e ricostruire relazioni che comunque sono consumate. Però non si possono evocare solo slogan e riferimenti astratti. Lo sciopero generale funziona se blocca il paese, la dinamica non la si improvvisa e attiene a una prospettiva di fondo, a un'organizzazione e convinzione delle lotte, insomma a una vera dinamica di movimento. Che, intanto, ha bisogno di ritrovarsi anche su parole d'ordine, obiettivi unificanti e mobilitanti: la riduzione d'orario di lavoro, il reddito sociale, il salario minimo, l'attacco a rendite e profitti, un discorso radicale sul debito.

Domenica, all'università di Roma il cartello "Uniti contro la crisi" ha svolto un'assemblea molto partecipata in cui ha posto questo nodo. L'assemblea è stata soprattutto un'iniziativa della composita area che fa riferimento ai centri sociali - dal nordest a Action di Roma, per intenderci - per rilanciare se stessa con un immaginario e una proposta di movimento adeguata alla fase ma con meccanismi e dinamiche già viste in azione più e più volte. Si è trattato in ogni caso di un'iniziativa positiva perché parla il linguaggio dell'unità tra soggetti diversi contro la crisi e si propone di ricostruire uno "spirito di movimento". Un'iniziativa utile, ma non può bastare. La differenza, infatti, la faranno le realtà locali. Davvero si possono ricostruire luoghi unitari tra realtà di fabbrica e territorio e tra queste e altri soggetti sociali, come gli studenti? Si impegnerà la Fiom in questa direzione, come ha annunciato più volte? Il cartello "uniti contro la crisi" sarà davvero unitario o è piuttosto un "logo" di area come abbiamo visto già altre volte?

Le risposte sulla fase che si apre stanno in queste domande. Il 16 ottobre ha aperto, ancora una volta, una finestra di opportunità che non ha nulla a che fare con la rappresentanza politica perché se si discute a quel livello ci si divide in dieci minuti - Vendola vuole allearsi con Bersani, Ferrero anche, però un po' meno, altri non ci pensano proprio, Bersani tratta con Casini, etc. Si tratta di capire se si svilupperà un progetto di movimento attorno al binomio "unità e radicalità" che tanta fortuna ha avuto nel biennio 2001-2003. Se son rose fioriranno.

16 ottobre: gli studenti chiedono lo sciopero generale

Vent'anni dopo, la guerra

E' uscito il nuovo numero della rivista ERRE - L'editoriale
di Piero Maestri

Vent’anni fa l’invio delle navi militari nel Golfo Persico – “giustificate” in seguito alla sconsiderata invasione del Kuwait da parte dell’esercito iracheno di Saddam Hussein – inauguravano “sul campo” la strategia della “guerra globale permanente” che ci ha accompagnato in questi decenni a cavallo dei due secoli e che ancora oggi continua, costituendo l’altra faccia di un processo di “globalizazione” che ha significato una ricolonizzazione planetaria e una maggiore penetrazione capitalista.
Strategia che è passata in primo luogo attraverso operazioni di guerra combattuta in diverse aree del pianeta, in particolare in un’area che è stata chiamata del “grande medioriente”, con significativi e drammatici allargamenti all’Europa balcanica e a diverse regioni dell’Africa. Una vera e propria guerra mondiale, non solamente perché combattuta in così vaste aree, ma perché ha coinvolto i più importanti soggetti politico-militari.
Una strategia che Stati uniti e paesi alleati (dentro e fuori la Nato) non hanno abbandonato e che continua a provocare vittime e distruzioni, oltre a impedire l’autodeterminazione delle popolazioni di intere regioni. Il presidente Obama non rappresenta in alcun modo una controtendenza in questa direzione, ma solamente un diverso modo di condurre la stessa strategia: ritira le forze armate dalle strade irachene – mantenendo le basi militari (come avviene in molti paesi, visto che la presenza militare Usa e Nato non diminuisce) – e aumenta la capacità offensiva in Afghanistan, mentre di fatto sostiene la politica israeliana contro i palestinesi, pur chiedendo maggiore “moderazione”, e così via.
Nello stesso periodo sono profondamente cambiate in molti paesi, soprattutto in Europa, le forze armate e di “sicurezza”, che hanno sempre più assunto un ruolo di interventismo “fuori area” oltre che essere impegnate direttamente in compiti di “ordine pubblico” e di guerra alle migrazioni.
Anche in Italia abbiamo potuto osservare questa dinamica, con una crescente partecipazione delle forze armate alle operazioni di guerra – in violazione dell’articolo 11 della Costituzione, violazione perpetrata in maniera “bipartisan”, coinvolgendo anche quelli che oggi si stracciano le vesti di fronte alla natura “eversiva” del berlusconismo; con la trasformazione delle stesse in senso professionale e volontario; con il loro impiego nella “lotta all’immigrazione clandestina”; fino al loro spiegamento (piuttosto propagandistico, ma non meno grave) nelle metropoli e quello, decisamente più pericoloso, nella zona rossa de L’Aquila al servizio della “cricca” e delle sue politiche di “emergenza permanente”.
E oggi, a causa della crisi di “vocazioni” e della mai sopita speranza del ministro La Russa di far tornare le forze armate strumento di formazione alla disciplina e all’obbedienza, lo stesso ministro della guerra con la collega della distruzione pubblica Gelmini si sono inventati il progetti “allenati per la vita”, con l’obiettivo di «far vivere ai giovani delle scuole superiori esperienze di sport e giochi di squadra, ma anche introdurre corsi specifici e prove tecnico/pratiche… per vivere questo momento come stimolo per toccare con mano i valori della lealtà, dello spirito di corpo e di squadra, oltre ad acquisire senso di responsabilità e rispetto delle regole e dei principali valori della vita».
Questa strategia di guerra permanente ha provocato diverse resistenze, sia in senso più propriamente militare (resistenze che, al di là del giudizio sulle loro strategie e le loro scelte operative, hanno più volte messo in situazione di stallo le forze armate Usa/Nato) che da parte di un movimento contro la guerra che è stato per alcuni anni al centro della scena politica internazionale.
Oggi quel movimento – in particolare in Italia – è quasi invisibile, frammentato e inefficace, diviso tra chi ha scelto di cercare in tutti i modi di sedersi al tavolo della politica governativa (forse per questo si è voluta chiamare “Tavola della pace”), chi ha ripiegato su scelte locali di valorizzazione della “comunità” (come ha fatto il “No Dal Molin”, con l’obiettivo di rendere inoperante la scelta statunitense e italiana a partire da una mobilitazione permanente locale, che si è alla fine rivelata in realtà localistica e poco capace di aprirsi ad alleanze non istituzionali, anche perché in una fase di stallo del movimento e per le colpe di una sinistra di governo che ha sacrificato Vicenza sull’altare della governabilità) e chi ha provato a mantenere aperta una riflessione di opposizione globale alla guerra e alle politiche di guerra, non riuscendo ad andare molto oltre la testimonianza e pratiche poco inclusive e capaci di mobilitare.
Questa inefficacia e scarsa capacità di mobilitazione contro la guerra rende ancora più difficile provare a connettere la necessaria iniziativa contro decisivi aspetti della militarizzazione – come l’aumento delle spese militari, il mantenimento delle produzioni belliche, l’espropriazione territoriale a fini militari – alla lotta contro la gestione della crisi di governo e Confindustria. In questo senso le domande sono sempre le stesse: perché accettare il taglio dei servizi pubblici quando si aumentano le spese militari? Perché non si possono introdurre progetti di riconversione produttiva che permettano di sperimentare nuove dinamiche di tutela territoriale e ambientale al posto delle produzioni belliche?
Nel breve periodo non sarà probabilmente possibile un rilancio su larga scala di un movimento contro la guerra globale in Italia. Resta la possibilità, e la necessità, di mantenere aperta questa prospettiva attraverso una maggiore capacità di analisi sulla nuova fase internazionale, sul ruolo degli eserciti in questa fase e sulla permanenza e pericolosità delle alleanze politico-militari come la Nato, che continuano a rappresentare il necessario contraltare delle politiche liberiste e di chiusura delle frontiere alla circolazione di donne e uomini.
Le iniziative previste contro il vertice della Nato a Lisbona (con un controvertice il 19 e 20 novembre e una manifestazione il 21) possono rappresentare un’occasione per riallacciare i fili di un movimento europeo e per ridare fiato a iniziative contro la guerra anche in Italia. Sinistra Critica proverà a fare la sua parte in questa iniziativa, in sintonia con le altre forze della sinistra anticapitalista europea.

18 ottobre 2010

«Mi attaccheranno ma da voi vengo volentieri»

Il primo cittadino nella sede della Fiamma Tricolore
Si rinsalda l'asse tra la «destra intransigente» della Fiamma tricolore e la Lega del sindaco Flavio Tosi. L'occasione è offerta dall'inaugurazione della «domus scaligera», la sede in viale del Commercio del partito di Andrea Miglioranzi, capogruppo della Lista Tosi a Palazzo Barbieri. «Domani», afferma il sindaco davanti ad alcune decine di militanti della Fiamma, «mi attaccheranno per questa mia partecipazione, ma come sindaco qui vengo volentieri perché abbiamo dei valori che ci accomunano: il legame con la nostra terra, la nostra cultura, la nostra patria e la nostra religione, idee scomode che possono creare problemi nonostante si tengano sempre comportamenti democratici e civili».
Tema dell'incontro è la presentazione del progetto nazionale dei circoli di Fiamma futura, componente di cui Piero Puschiavo è presidente nazionale. All'incontro c'è anche Luca Cancelliere segretario di Fiamma futura della Sardegna. Particolarmente folta la delegazione della Lega. Oltre al sindaco Tosi ci sono l'eurodeputato Lorenzo Fontana, il consigliere regionale Paolo Tosato, il vicepresidente della Provincia Fabio Venturi, la capogruppo in Consiglio Barbara Tosi. «Nel campo della destra radicale», fa sapere Cancelliere, «Verona è un esempio per tutti i militanti. Il nostro programma si basa sul nazionalismo e sull'identità, correnti politiche vincenti in Europa». Elogi a Tosi anche da Puschiavo: «Ha avuto coraggio e la scelta è stata vincente. anche per la nostra area, che è entrata nelle istituzioni».E.S.

L'Arena 17/10/2010

Casa Pound flirta con il Pdl. Via Dell'Utri

di Saverio Ferrari
Grandi manovre nell'estrema destra
La prima notizia si colloca nel solco dei finanziamenti, diretti o indiretti, erogati ormai a piene mani dagli amministratori locali del Pdl all'estrema destra milanese. Nel giugno scorso scrivemmo di un debito all'incirca di sette mila euro per fusti di birra non pagati, lasciati da Cuore nero al momento della chiusura della propria sede di via Pareto. Parlammo dell'interessamento a farvi fronte, senza ricever alcuna smentita, da parte dell'assessore regionale del Pdl alla Cultura e alle politiche giovanili, Massimo Buscemi, come riconoscimento del sostegno ricevuto in campagna elettorale da Cuore nero, poi trasformatosi in Casa Pound Milano.
Ora, sembrerebbe che dietro l'apertura della nuova sede di Casa Pound, temporaneamente sistemata presso i Volontari verdi di Mario Borghezio in via Bassano del Grappa, vi siano alcuni consistenti contributi in denaro provenienti dal medesimo assessorato. Si dice anche con una certa insistenza che i nuovi locali dovrebbero presto aprire in porta Ticinese o al quartiere Gratosoglio.
Secondo alcune indiscrezioni, a incontrarsi con gli emissari dell'assessore sarebbe stato un avvocato, parente di "Marchino" Arioli, il nuovo capo di Casa Pound a Milano, dopo la scelta di Francesco Cappuccio di infilarsi in pianta stabile, in ambito Lega nord, nel comitato Milano capitale, finanziato dall'imprenditore Franco Polver. Attendiamo, come sempre, smentite o precisazioni.
Dietro le quinte farebbero capolino i sempre più stretti rapporti con Marcello Dell'Utri. Si parla, infatti, anche di una possibile candidatura dello stesso Gianluca Iannone nelle file berlusconiane o storaciane. D'altro canto Massimo Buscemi, oltre a essere in quota a Comunione e liberazione, è assai vicino allo stesso Dell'Utri, una figura in questi ultimi tempi capace di attrarre diversi altri esponenti dell'estrema destra milanese. A Milano Casa Pound tenterebbe dunque un rilancio in termini nuovi, in contiguità col Pdl, allentando le relazioni con le altre realtà del neofascismo. Ma è il nodo dei rapporti con il Pdl a scandire per tutta l'area comportamenti e modalità di esistenza.
La Destra di Francesco Storace, che ha già stretto con il Pdl un'alleanza per le prossime elezioni politiche e amministrative, anche a Milano ha inglobato i militanti di Fiamma futura, legati al Veneto fronte skinheads di Piero Puschiavo, espulsi dalla Fiamma tricolore. La nuova sede degli Hammer, appena inaugurata in viale Brianza, a poche centinaia di metri sia da piazzale Loreto sia dalla stazione Centrale, un «avamposto», come è stato detto, per «contrastare l'invasione di immigrati e zingari», è nata grazie proprio ai buoni uffici dell'area della destra sociale ex An, ora nel Pdl, capitanata dagli onorevoli Carlo Fidanza e Paola Frassinetti, desiderosi di convogliare i voti su Antonluca Romano, ex segretario milanese di Azione giovani, prossimo candidato in consiglio comunale. Una scelta al momento non condivisa da tutti. Circola infatti anche il nome dell'avvocato Benedetto Tusa, ex dirigente del gruppo terroristico La Fenice (Ordine nuovo a Milano), poi in Alleanza cattolica. Dal canto suo, il gruppo di giovani legati a Matteo "Stizza" Pisoni, fuoriuscito da Cuore nero per confluire con Area Identitaria nel Pdl, più volte ha bussato alla porta di Lino Guaglianone, a suo tempo finanziatore del centro di via Pareto, per trovare una sede. Una corsa ad accreditarsi che coinvolgerebbe anche i finiani. All'ultima riunione milanese infatti erano presenti Alberto Arrighi e Stefano Lo Surdo, già deputati di An, poi con Storace, la consigliera comunale Barbara Ciabò, passata da Forza Italia a La Destra, poi ancora nel Pdl, Fabrizio Fratus e Marco Valle, provenienti entrambi dalla Fiamma tricolore.
Tutto è dunque in movimento. Anche Forza nuova, in preda a continue emorragie interne, mentre tratta sottobanco un posto nelle liste del Pdl, è in cerca di visibilità con continue provocazioni davanti ad alcuni licei milanesi, il Manzoni in particolare, all'interno del quale non ha alcuna presenza. C'è chi, invece, già in pianta stabile nel partito di Berlusconi, continua a tessere rapporti. È il caso di Roberto Jonghi Lavarini, iscritto al Circolo del buon governo di Dell'Utri e assiduo frequentatore delle associazioni reducistiche degli ex combattenti di Salò, che è stato visto a una "serata poetica" organizzata dalla sedicente Accademia dei Nobili nientemeno che con il Gran Maestro Licio Gelli. Nell'occasione era anche presente il marchese Vittorio Pancrazi, gran cancelliere dell'Ordine di San Giuseppe, una loggia cavalleresca di cui fa parte il generale Amos Spiazzi di Corte Regia, vecchio militare in pensione coinvolto, ma sempre assolto, nei processi per il golpe Borghese e la strage del 17 maggio 1973 davanti alla Questura di Milano. Un mondo, quello delle logge e degli ordini cavallereschi, su cui presto sarebbe il caso di tornare, popolato da aristocratici, più o meno decaduti. Una ragnatela con troppe figure interne al neofascismo, da sempre in bilico fra affari e pratiche iniziatiche.
L'unica anomalia, nel quadro delle destre milanesi, è oggi rappresentata da un altro nobile, il barone Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, 25 lettere di cognome, ex federale missino e grande amico di Stefano Delle Chiaie, che insieme a un gruppo di aderenti al Movimento nazionalpopolare sta cercando di inserirsi nel Movimento 5 stelle di Beppe Grillo.

il manifesto 17/10/2010

12 ottobre 2010

«I nostri non fanno la guerra Per questo devono restare»

Pubblichiamo una intervista a Piero Fassino (responsabile esteri PD), per rimarcare ancora una volta la nostra incompatibilità con la guerra e con coloro che nelle guerre "umanitarie" hanno trovato la legittimazione a governare.

di Daniela Preziosi

"Voi non capite, dedichiamogli un memoriale
"
L'assemblea del Pd si apre con un minuto di silenzio per i quattro morti di Farah. Lo chiede la presidente Rosy Bindi, che a fine lavori chiude di nuovo con il cordoglio verso le famiglie. La tragica contabilità dell'Afghanistan è ormai fuori controllo, ma tanto non basta a smuovere le certezze del comitatone centrale riunito a Varese. Sulla missione, sono in pochi a spingersi oltre la «necessità di una seria riflessione», come l'europarlamentare Davide Sassoli, o quella di «un'attenta verifica», come il cattolico Enrico Gasbarra. Solo Rosa Villecco Calipari dice che occorre ripensare «gli obiettivi e i tempi dell'impegno» delle nostre truppe. Siamo a un passo dal concetto del ritiro del contingente. Ma a casa Pd la parola «ritiro» è un tabù. Non la vuole neanche sentire pronunciare Piero Fassino, responsabile esteri del Pd, che a nome del suo partito propone di erigere un monumento in onore dei militari morti in guerra. Una proposta che suona persino male, a poche ore dagli ultimi, ennesimi morti.
Fassino, piuttosto che erigere monumenti postumi, non sarebbe meglio evitare altre tragedie ritirando il contingente?
No, la nostra presenza in Afghanistan è ancora necessaria, anzi essenziale. Bisogna stare lì finché non sarà un paese stabile. La mia proposta ha il senso di rendere onore ai nostri morti nelle missioni di pace. Dai primi del Congo fino ai quattro alpini di ora, sono ormai più di cento le vittime, dai Balcani, alla Somalia, all'Iraq. Solo in Afghanistan sono 34. Tutte persone morte mentre cercavano di portare stabilità e sicurezza in paesi in cui non c'è. Per tutti i caduti c'è un altare, per le guerre mondiali c'è l'altare della patria a Roma. E invece per questi uomini non c'è ancora un luogo in cui rendere loro omaggio. Abbiamo il dovere di onorarli.
Non le sembra ipocrita e retorico inviare i militari in guerra, dove la morte è un'eventualità concreta, e poi ogni volta mettersi il lutto e erigere monumenti?
Un monumento non è retorica, soprattutto se serve a non dimenticare uomini che hanno pagato con la vita. Questo lo può pensare solo chi non crede nel valore della patria e non vuole prendere atto di un fatto evidente: che i nostri militari muoiono in missioni di pace, mentre aiutano le popolazioni civili. I quattro alpini di Farah stavano facendo la scorta a un convoglio di camion civili.
Missioni di pace? Il suo partito non le considera tutte «missioni di pace». Dipende dai caveat, dalle regole di ingaggio, dalla definizione internazionale della missione. Per lei sono tutte di pace?
Intanto quando parliamo di morti lasciamo stare i caveat. Stiamo parlando di persone che muoiono per la pace. Sono di pace tutte quelle missioni che avvengono sotto il mandato dell'Onu. Lo so che c'è a sinistra anche chi non vuole sentire pronunciare la parola patria. Io invece sono un uomo di sinistra e credo che la patria sia un valore.
Considera un valore morire in guerra?
Non ho detto questo. E poi di che guerre parliamo? Noi abbiamo usato il termine guerra solo per l'Iraq. Considero un valore difendere i diritti e la libertà dei popoli. Considero un valore morire per la pace. E in Afghanistan non stiamo facendo nessuna guerra. Tutti i militari italiani deceduti lì non sono morti in azioni belliche di attacco. C'è una bella differenza tra un esercito che fa la guerra e un esercito che porta la pace. L'esercito che fa la guerra spara per primo, quello che porta la pace spara per secondo e lo fa solo se è attaccato. E voglio dire di più: certa sinistra confonde l'intervento di peace keaping con la parola guerra. Quindi confonde i termini del discorso, sbaglia e fa sbagliare la sua gente. Nei Balcani non siamo andati a fare la guerra ma a difendere le popolazioni civili. In Afghanistan siamo andati a evitare il ritorno dei talebani che non permetteranno alle bambine di andare a scuola. La differenza fra queste azioni e la guerra è evidente.
Le morti sono sempre un fatto doloroso. Tuttavia i soldati in genere obbediscono alle scelte dei loro governi. Se il governo decide che è guerra, fanno la guerra. Le sembra un motivo per erigere loro monumenti?
Quando si onora la memoria di gente che ha pagato con la vita, eviterei di attribuire loro le distinzioni fra missioni di pace e guerre sbagliate.
I leghisti chiedono esplicitamente di portare i soldati a casa. Nel suo partito c'è chi pensa, come il segretario Bersani, che sia ora di riflettere sulla strategia della missione. E chi, come Rosa Calipari, mette l'accento sulla scarsa attitudine del governo italiano a puntare sulla soluzione politica.
E lo dico anch'io. L'uso della forza non sostituisce l'impegno per una soluzione politica dei conflitti.
Lei considera i quattro uomini di Farah eroi?
Penso che siano persone per bene che hanno fatto il loro dovere. E che sono morte per questo.

www.ilmanifesto.it 10/10/2010

Si risparmia sulla sicurezza e la difesa ordina il silenzio

di Andrea Fabozzi
È di circa 850 euro al mese lo stipendio di un caporale degli alpini, uno qualsiasi dei quattro uccisi ieri in Afghanistan. La missione garantisce invece tra i 25 e i 30mila euro di guadagno supplementare, in sei mesi. Soldi indispensabili per convincere un soldato in ferma prolungata - che non ha alcuna garanzia di mantenere il lavoro alla scadenza dei quattro anni e che anche in caso venisse confermato si troverebbe per i prossimi tre anni con lo stipendio bloccato - a rischiare la vita.
Servirebbero soldi anche per garantire la sicurezza dei soldati in Afghanistan ma le ultime due manovre economiche hanno tagliato un miliardo l'anno alla difesa. Non agli investimenti per l'acquisto di sofisticati sistemi d'arma, ma alle spese generali e al reclutamento. Ragione per cui il ministro La Russa ha cominciato ad annunciare l'invio in Afghanistan dei veicoli blindati Freccia due anni fa - il 28 ottobre 2008, hanno ricostruito il deputato radicale Maurizio Turco e il segretario del partito per i diritti dei militari Luca Comellini - ed è effettivamente riuscito a spostarne 17 nella zona di Shindand solo a luglio scorso. Non i 250 previsti dal programma di acquisto, non i 54 effettivamente ordinati, ma solo i 17 realmente pagati. Risultato: ieri gli alpini italiani erano ancora a bordo del veicolo tattico leggero Lince che non ha resistito all'esplosione.
La Russa ha persino cominciato a mettere in dubbio il programma di sostituzione dei Lince. «Dobbiamo valutare - ha detto -, il Freccia ha meno mobilità e velocità». Raggiunge i 105 Km/h com'è stato spiegato alla parata delle forze armate a Roma, dove il Freccia era in bella mostra. Più che sufficienti per un'operazione come quella che ieri è costata la vita ai soldati italiani, la scorta a una colonna di settanta camion.
Il governo ha trovato i fondi per la mini naja che stava a cuore a La Russa e alla ministra Meloni (20 milioni di euro in tre anni), e ha trovato i fondi per mandare i militari a fare lezione nelle scuole lombarde per «avvicinare gli studenti alle forze armate» (parte delle spese a carico degli studenti). Ma a marzo per risparmiare ha dimezzato la durata dei corsi di indottrinamento propedeutici alle missioni all'estero. Da due settimane a una. Racconta un sottufficiale dell'aeronautica che ha frequentato uno di questi corsi nella sede del Terzo Stormo, l'aeroporto di Villafranca a Verona (dobbiamo concedergli l'anonimato): «In una settimana ci hanno "insegnato" di tutto, dal diritto umanitario alle regole d'ingaggio a nozioni sull'Islam. Alla sicurezza sono stati dedicati due giorni». E in uno di questi giorni, uno soltanto, si è parlato proprio degli ordigni improvvisati: i micidiali Ied che hanno colpito ancora ieri.
«Il corso - racconta il sottufficiale - si basa su una simulazione estrema. Si tratta di trovare uno di questi ordigni lungo un percorso di 2,5 chilometri, sapendo in partenza che effettivamente c'è, è lì nascosto. Nella pratica in Afghanistan si affrontano spostamenti di 300 Km senza nessuna certezza. In più, non avendo mezzi Lince né tanto meno Freccia, il nostro finto convoglio procedeva a bordo di semplici veicoli militari che permettono una perfetta visibilità del suolo. Ovviamente uscendo da quel corso nessuno di noi si sentiva più sicuro - continua il sottufficiale - e in effetti i colleghi che sono già in Afghanistan mi hanno raccontato che in pratica si comportano diversamente. Se si avverte un pericolo la prassi non è più quella di fermarsi e recintare l'area ma semplicemente si torna indietro». Così ai militari in partenza per Herat, Kabul e Shindand è capitato di ricevere consigli molto banali: «Se durante uno spostamento vi accorgete che una strada in genere affollata, magari dove si tiene un mercato, resta invece deserta, state allerta perché potrebbe trattarsi di un agguato».
La situazione è questa, dunque non c'è da stupirsi che per la difesa sia diventato difficile riuscire a coprire i turni della missione in Afghanistan. La disoccupazione resta il miglior alleato dei reclutatori che ultimamente sono stati costretti a spedire in guerra anche i volontari senza esperienza, quelli arruolati per solo due o tre anni. Ma il sistema più sicuro per coprire i buchi è quello di considerare disponibili per le missione in Afghanistan tutti quelli che in passato si erano offerti per una missione all'estero, magari molto meno pericolosa come in Kosovo o in Bosnia. Una volta data la disponibilità a partire non si può più recedere, a meno di non voler rischiare un procedimento disciplinare. E visto che non ci sono i soldi per garantire la sicurezza e la paura aumenta, il governo si è preoccupato di impedire ogni possibile manifestazione di dissenso, vietando ai soldati qualsiasi dichiarazione pubblica su qualsiasi argomento «collegato al servizio», praticamente su tutto. È una disposizione entrata in vigore con il nuovo codice militare giusto ieri, mentre morivano altri quattro caporali.

il manifesto 10/10/2010

11 ottobre 2010

Voglia di bombe

di Enrico Piovesana
La proposta di armare con bombe i nostri caccia in Afghanistan conferma solo la natura bellica, quindi incostituzionale, di quella missione. E non ha nulla a che fare con la protezione dei nostri soldati, bensì con ragioni politiche ed economiche


Sfruttando cinicamente il lutto nazionale per i quattro soldati italiani caduti in Afghanistan, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, propone di armare con bombe i nostri caccia impegnati in missione per fornire maggior protezione alle truppe a terra.

Una decisione che, obiettano le opposizioni, trasformerebbe la natura della missione militare italiana, da missione di pace a missione di guerra incostituzionale. Come se sganciare bombe dagli aerei fosse un atto di guerra, mentre lanciare razzi dagli elicotteri Mangusta o usare i loro micidiali cannoni rotanti, bombardare con mortai da 120 millimetri o sparare cannonate con i carri cingolati Dardo - tutte cose che le forze italiane in Afghanistan fanno regolarmente - fossero invece azioni pacifiche.

Ciononostante, c'è chi continua ipocritamente a difendere il carattere 'pacifista' della missione militare. ''E' sbagliato parlare di guerra - ha dichiarato domenica il responsabile Esteri del Pd, Piero Fassino - perché c'è una differenza sostanziale tra chi fa la guerra e una missione di pace: nel primo caso si spara per primi, nel secondo si spara solo se attaccati e per tutelare la popolazione. Dei 34 soldati morti in Afghanistan nessuno è caduto in un'azione bellica offensiva. Noi non siamo là per fare la guerra a nessuno''.

L'onorevole Fassino non sa, o finge di non sapere, che finora le forze italiane in Afghanistan non si sono limitate a rispondere al fuoco quando attaccate. Da anni i nostri militari - non solo le forze speciali della Task Force 45 - 'sparano per primi' partecipando attivamente alle prolungate offensive congiunte pianificate dai comandi Nato. Come quella del novembre 2007 nel distretto del Gulistan, o quelle ripetute (agosto 2008, maggio 2009 e giugno 2010) nella zona di Bala Murghab: offensive durate anche settimane, con bombardamenti aerei e d'artiglieria e con decine e a volte centinaia di 'nemici' uccisi.

Sgomberato il campo dall'ipocrisia della missione di pace, rimane l'interrogativo sul motivo che spinge la Difesa a voler armare di bombe i nostri aerei. Scartata la spiegazione ufficiale della maggior protezione per le truppe a terra - un bombardamento aereo non fornisce di certo uno scudo alle imboscate, servono semmai blindati più resistenti - rimangono una ragione politica e una economica.

La prima riguarda i rapporti con i nostri alleati della Nato, Stati Uniti in testa, che da anni chiedono all'Italia di impegnarsi senza restrizioni in questa guerra. Dopo il ritiro dei Tornado tedeschi, anch'essi vincolati dal 'caveat' che impedisce l'uso di bombe aeree, gli Amx italiani rimangono gli unici caccia senza bombe della missione Isaf. Un'eccezione politicamente imbarazzante per i rappresentanti del nostro governo, e anche per quelli dell'opposizione (che nel 1999, per non sfigurare, mandarono i nostri Tornado a bombardare Belgrado).

L'altra ragione, quella economica, tocca invece gli interessi dell'industria bellica italiana.
A fine gennaio la Oto Melara, azienda del gruppo Finmeccanica, ha acquistato dall'americana Boeing i componenti per assemblare nelle officine Breda di Brescia cinquecento bombe aeree 'bunker-buster' Gbu-39 da 130 chili l'una (le stesse usate dagli israeliani nell'operazione 'Piombo Fuso' a Gaza) che ora giacciono in magazzino pronte all'uso.

"Perché comperare da Boeing, per 34 milioni di dollari, cinquecento bombe - scriveva lo scorso 20 settembre su Panorama l'esperto militare Gaiandrea Gaiani - se poi non le imbarchiamo sui nostri jet in Afghanistan? Che senso ha spendere centinaia di milioni di euro per aggiornare i cacciabombardieri Amx e Tornado se poi non li si impiega per bombardare il nemico?".

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