28 febbraio 2011

Assemblea nazionale per lo sciopero generale e generalizzato

Nel 3° incontro Nazionale, riuniti a Roma nel nuovo teatro Colosseo, abbiamo assistito ad un evidente salto di qualità e di partecipazione, rilanciando la necessità di un rinnovato e radicale protagonismo di classe, emerso negli oltre 30 interventi di lavoratrici e lavoratori.

All’assemblea hanno preso parte più di trecento delegati e lavoratori che hanno voluto in tal modo sollecitare la massima unità e la massima incisività nella lotta contro il modello Marchionne che, dopo Mirafiori e Pomigliano, sta estendendosi oltre la stessa Fiat. Quel modello, con il pretesto della crisi e della concorrenza globale, punta allo smantellamento dei diritti e delle tutele sindacali e vuole riportare la condizione delle lavoratrici e dei lavoratori indietro di un secolo.La denuncia del piano Marchionne, come unico modello di gestione della crisi, ha visto la necessità del rilancio della piattaforma di lotta sulla quale chiedere una mobilitazione vasta e unitaria contro queste politiche antipopolari:

- Blocco dei licenziamenti, delle chiusure delle fabbriche, delle esternalizzazioni, dei tagli all’istruzione, alla ricerca e alla spesa sociale;
- Lotta all’aumento dei ritmi e alla produttività;
- Contro le speculazioni edilizie e finanziarie, principali cause di chiusure e delocalizzazioni;
- Per la distribuzione del lavoro che c’è, “lavorare meno lavorare tutti” a parità di salario e per l’accesso e la continuità del reddito;
- Per la stabilizzazione di tutti le/i precari/e e gli atipici, cancellazione delle leggi sulla precarietà;
- Per dire No all’eliminazione del CCNL e alla ristrutturazione dei diritti di tutto il mondo del lavoro;
- Per una effettiva reale e diretta rappresentanza sindacale dei lavoratori in ogni luogo di lavoro, tutti eleggibili tutti elettori;
- Contro la Bossi-Fini, per l’estensione dei diritti ai lavoratori migranti;
- Ritiro del “collegato lavoro” e della Riforma Gelmini;
- Contro lo statuto dei lavori, per la difesa dello Statuto dei Lavoratori

L’assemblea, inoltre, invita tutti i movimenti sindacali, sociali, ambientali che si oppongono all’offensiva padronale e governativa a individuare un percorso comune che costruisca tempestivamente, al di là delle ambiguità, delle timidezze e dei continui rinvii della Cgil, una giornata di lotta e di mobilitazione nazionale e una grande manifestazione a Roma.

Per questo proponiamo a tutti i soggetti interessati, un percorso dal basso e partecipato finalizzato alla costruzione di una assemblea nazionale che lanci la mobilitazione.

Infine, ribadiamo la necessità di costruire coordinamenti locali e/o rafforzare e sviluppare quelli già esistenti, per costruire un coordinamento nazionale effettivamente rappresentativo di tutti i territori e che possa sviluppare il conflitto di classe in tutto il paese, per contribuire alla costruzione di un vero sciopero generale e generalizzato unitario e dal basso.

Roma, 26 febbraio 2011

1 marzo: per l'accecante visibilità delle donne, con le donne migranti

Per adesioni: migranda2011@gmail.com

Il 20 febbraio diverse donne migranti e italiane si sono incontrate a Bologna per ragionare insieme sul conquistare una visibilità verso lo sciopero e le manifestazioni del prossimo primo marzo, ma non solo. Già l’anno scorso molte donne hanno scioperato e sono scese in piazza, accettando la sfida di mostrare che cosa succede se i migranti e le migranti che vivono in Italia decidono di incrociare le braccia per un giorno, e con loro tutti gli italiani e le italiane stanchi di vedere attaccati il loro lavoro e i loro diritti, stanchi del razzismo istituzionale. Già l’anno scorso c’erano molte donne ma non quante avrebbero potuto, e soprattutto non quante avrebbero voluto esserci. Perché scioperare, determinare la propria presenza, far sentire la propria voce è per le donne, migranti e italiane, una doppia sfida. L’assenza delle donne è determinata dal doppio incarico al quale sono costrette: il lavoro di cura e domestico (pagato o non pagato) e lo sfruttamento nei posti di lavoro che colpisce soprattutto le donne migranti. Questa situazione, determinata da un sistema patriarcale (che non ha né cultura né nazione, né religione, ma che è universale) passa attraverso l’attacco quotidiano alle operaie della casa, alle mogli, alle lavoratrici isolate, e si articola in svariate maniere. In Italia, la legge Bossi-Fini è lo strumento utilizzato per riaffermare, in forme sempre nuove e violente, il linguaggio del patriarcato. Una legge che colpisce due volte le donne migranti tramite il contratto di soggiorno per lavoro che le rende lavoratrici ricattabili (sia nelle fabbriche sia nelle case), sempre a rischio di diventare “clandestine”, di essere rinchiuse nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) ed espulse. E ancora: la legge Bossi Fini rafforza il patriarcato che è nelle case perché le donne migranti che sono in Italia per ricongiungimento famigliare dipendono dal permesso di soggiorno del marito e per loro è difficile o impossibile – anche in assenza di supporti concreti – liberarsi dalla subordinazione o dalla violenza domestica che, come capita anche a moltissime donne italiane, spesso esercitano i mariti. Inoltre la legge Bossi-Fini riproduce su scala transnazionale la divisione sessuale del lavoro riproduttivo. Il lavoro domestico e di cura è sempre destinato alle donne, migranti o italiane che siano, anche se una parte delle donne è riuscita a liberarsi almeno parzialmente da questo «destino domestico» pagando un’altra donna. Finché le donne migranti saranno riconosciute solo come «ruoli» (mogli, prostitute che possono riscattarsi solo come vittime, badanti e colf sulle quali si amministra il nuovo welfare privato, pagato dalle donne) la libertà di tutte le donne è sotto attacco. Per questo è necessario oggi conquistare la parola e la visibilità politica delle donne, soprattutto di quelle migranti. Perché le migrazioni delle donne mettono in discussione le strutture sociali e patriarcali sia nei paesi di partenza sia in quelli di arrivo. Da questa potenza, oltre le reali difficoltà, dobbiamo muovere insieme il passo verso una presenza politica. Una presenza che ci faccia prendere e riprendere la parola! A Bologna è stato chiaro che noi donne, migranti e italiane, non siamo più disposte ad accettare che il nostro sfruttamento e la nostra subordinazione siano giustificati da stati, culture, tradizioni o religioni. Non siamo più disposte ad accettare un antirazzismo neutro o il linguaggio politicamente corretto di un multiculturalismo che giustifica le aggressioni contro le donne che accadono all’interno delle comunità e delle famiglie. Criticare questa realtà non vuol dire fare una crociata razzista colpendo indiscriminatamente tutta le comunità migranti ma vuol dire criticare le pratiche patriarcali esercitate da uomini sia immigrati sia italiani. Vuol dire riaffermare una battaglia per la libertà delle donne, migranti e italiane. Per questo chiamiamo il nostro sfruttamento e la nostra subordinazione (quelli imposti dalla legge Bossi-Fini e quelli raccontati come “tradizione”) con il loro vero nome: patriarcato. Proponiamo alle donne, dentro e fuori il movimento dei migranti e antirazzista, a tutte coloro che stanno scendendo nelle piazze per affermare la propria libertà di donne contro un potere che si esercita prima di tutto sui loro corpi, di costruire una propria visibilità accanto alle donne migranti, prima di tutto nelle piazze del primo marzo. Ma proponiamo di avviare un percorso di assemblee, a livello locale e nazionale, per far valere anche oltre il primo marzo la voce e la presenza delle donne, con le donne migranti. Perché la loro assenza dalle piazze è un silenzio assordante. Perché la visibilità che le donne si riprendono sarà accecante.

Le Donne del Coordinamento Migranti Bologna e Provincia.
Associazione Todo Cambia, Milano.
Associazione Trama di Terre, Imola.
Rete Intrecci: Associazione Donne in Cammino per la Famiglia, Forlì-Cesena; Associazione. Il Ventaglio, Bologna; Associazione ANNASSIM, Bologna; Associazione Che la Festa continui, Casalecchio (Bo); Associazione Donne del Mondo, Forlì-Cesena; Associazione UDI, Modena; Ass. Differenza Maternità, Modena, Ass. Donne in nero; Ass Vagabonde, Parma.

Per adesioni: migranda2011@gmail.com

Il popolo della Libia vincerà

Un comunica di "Marea Socialista", corrente di sinistra del PSUV venezuelano

Il popolo della Libia vincerà.

La rivolta araba è arrivata in Libia. E qui ha assunto il suo volto più violento. Il governo di Gheddafi ha scatenato una carneficina che mostra ai popoli del mondo l'orrore di cui sono capaci i dittatori, sottomessi o no all’imperialismo. I bombardamenti aerei di manifestanti nella seconda città più grande della Libia e il fuoco che percorre Tripoli, la capitale, sono testimonianze di questo massacro. Qualcuno nel mondo cerca di mettere in dubbio la realtà di questa rivolta. Suggerisce l'interesse della Nato e dell'imperialismo, nel loro desiderio di mantenere il controllo sul petrolio e sul gas dalla Libia e sull’intero mondo arabo. Questo argomento è pretestuoso, anche se questo interesse esiste. Se ci fosse bisogno di una prova, la sola misura di tagliare le comunicazioni esterne, telefonia fissa e internet, è una misura di guerra di uno Stato. Ma in questo caso è nei confronti di un popolo che si è ribellato contro una dittatura.
Da leader indipendentista, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, Gheddafi è diventato un dittatore capitalista partner dell'Unione europea a cui fornisce il petrolio fine del deserto, accettato dagli Stati Uniti con cui negli ultimi anni è stato in stretti rapporti. Il prezzo per questa metamorfosi l’ha pagato e lo paga il popolo libico. Le stesse persone che mettono in dubbio la realtà dei fatti suggeriscono anche, naturalmente non apertamente, che qualcosa di simile accade con le rivoluzioni in Tunisia e in Egitto. Ma nessuno dei "difensori del popolo libico" contro le mire della NATO ha espresso sostegno per i cambiamenti democratici richiesto da questi popoli. E non condannano apertamente i massacri che stanno avvenendo.
Un'insurrezione su tutta la linea.
Quello che sta accadendo in Libia è una rivolta popolare su tutta la linea. Una rivolta contro la dittatura che si sta dimostrando sanguinaria. La divisione in tribù diverse, alcune alleate e altre che si suppongono nemiche di Gheddafi, fanno parte di una realtà che viene manipolata per costruire la storia degli oscuri interessi che si nascondono dietro la rivolta. Tuttavia, ciò che accade fa parte del terremoto, il terremoto democratico che percorre il mondo arabo, tutta l’Africa, l’Asia e l’Europa. Questi paesi che persistono nella rivolta, in particolare i giovani, sono stanchi di repressione, bavaglio e mancanza di futuro, sono scesi in strada e non tornernno indietro. Soprattutto perché non c’è ritorno. Per le strade di Tripoli e le città libiche la sorte è segnata, o vince la sollevazione popolare e va fuori Gheddafi e il suo regime, o vince Gheddafi e causerà un bagno di sangue di gran lunga superiore a quello visto finora. Perciò un settore importante delle forze armate si è ribellato. Perciò le masse non hanno paura della repressione. Perché sanno che se si torna indietro sarà peggio. C'è una rivolta in corso in tutta la linea, ma comunque si concluderà questo capitolo della rivoluzione democratica in Libia, non sarà con un settore del vecchio regime che cerchi di imporre una uscita ordinata. Non rimarrà pietra su pietra di questo regime o del suo decrepito dittatore.
Viva la rivoluzione democratica araba
“Marea Socialista” si dichiara categoricamente solidale con il popolo libico e con il popolo arabo che lotta per conquistare la libertà e la democrazia. Sotto il velo di menzogne e di false dichiarazioni interessate, c’è la realtà di un popolo sottomesso per quasi mezzo secolo. I cambiamenti democratici richiesti da parte dai popoli arabi non sono solo il diritto di voto. E 'anche, e soprattutto, la necessità di una vita dignitosa. Di lavoro, tenore di vita e prospettive future negate da questi dittatori e dai loro regimi. Il popolo, le masse di quella regione del mondo hanno trovato la via della lotta per ottenere ciò che vogliono. Questo spettro si aggira per tutti i continenti. E nella loro lotta hanno aperto le porte alla rivoluzione internazionale contro il capitalismo e i suoi regimi di oppressione e miseria.
Basta massacri in Libia
Viva la rivoluzione araba

Basta con la repressione del dittatore Gheddafi!

Dalla parte della popolazione libica in rivolta,
dalla parte delle rivoluzioni arabe
Contro ogni intervento militare (Usa, Nato, Onu)

Esecutivo Nazionale di Sinistra Critica

La rivolta libica va avanti e va avanti la sanguinosa repressione da parte dei mercenari e delle forze leali al colonnello Gheddafi. Una repressione brutale, che non ha esitato ad usare il bombardamento aereo sulla popolazione che manifestava nelle strade. Le notizie che arrivano parlano di migliaia di morti – ed è vergognoso il razzismo cinico di chi parla di possibili “sbarchi” di migliaia di profughi e “clandestini”.
La rivolta in Libia è prima di tutto il frutto della rabbia contro un regime autoritario, che ha espropriato negli anni qualsiasi dinamica e soggettività politica, per instaurare una dittatura personale e familiare che ha giocato sul terreno della politica internazionale e delle alleanza geopolitiche in maniera spregiudicata in modo da garantire a Gheddafi, ai suoi famigliari e ai loro sodali maggior potere economico e politico.
Queste le ragioni in base alle quali la leadership libica si è trovata a volte a giocare la parte del soggetto “antimperialista” – scontrandosi con le aggressioni statunitensi e sostenendo anche direttamente guerriglie di sinistra in America latina; ha chiamato centinaia di volte alla rivolta contro il sionismo, lasciando però sempre i palestinesi da soli e cacciandoli dalla Libia quando non servivano più agli scopi del regime; ha raccontato la favola del nuovo sistema nato dalla rivoluzione, alleandosi però a molte imprese multinazionali in occidente – svolgendo il ruolo tranquillo di “banca svizzera” di buona parte del capitale internazionale, come ricordava Gianni Agnelli, che nella Fiat aveva i libici come partner, così come li hanno Berlusconi, Mediobanca, Unicredit, Finmeccanica. Un sistema sociale e economico che si regge sullo sfruttamento intensivo di un milione e mezzo di migranti senza diritti, fino ad arrivare negli ultimi anni all’applicazione massiccia di politiche neoliberiste e a farsi pagare profumatamente il ruolo di gendarme del mediterraneo dall’Unione europea (Italia in prima fila) che voleva campi di concentramento per migranti fuori dai confini europei.
Alla faccia del leader pan-africanista e antimperialista!

Oggi il vento delle rivolte arabe, il riaccendersi di conflitti tribali e di scontri interni al regime, l’insopportabilità di una condizione di chiusura politica e culturale – e certamente anche il lavoro sotterraneo di servizi di varia provenienza – hanno portato alla rivolta e ad una quasi dispiegata “guerra civile”. Ma parlare di guerra civile non può essere un alibi per non schierarsi e per non stare dalla parte di chi chiede libertà e diritti sociali, contro chi decide di usare aerei e armi (magari italiane e di altri paesi “imperialisti”) per schiacciare la rivolta.

Di fronte a quanto sta accadendo Stati uniti, Nato e Unione europea non sono semplici spettatori, con tutte le loro ambiguità e la loro volontà di frenare le rivoluzioni arabe e magari utilizzarle per affermare rinnovate presenze e una nuova egemonia “democratica” in nord Africa.
Già in Tunisia ed Egitto si sono viste differenze tra i governi europei (e il governo israeliano) che hanno cercato fino all’ultimo di salvare i loro uomini al governo di quei paesi e l’amministrazione Obama che ha cercato di gestire e/o organizzare una transizione a loro favorevole – per frenare il processo di rivoluzione permanente che stava prendendo piede e per ribadire la loro presenza politica e militare, soprattutto in Egitto, crocevia strategico di quel “grande medioriente” già caro ai vari Bush…
Riguardo alla Libia siamo arrivati al paradosso – apparente – di sentire ministri del calibro di Frattini sostenere che non si potevano esportare in Libia “modelli europei” (ma non era per esportare la democrazia di modello europeo che si è andati a fare le guerre in Iraq, Somalia, Afghanistan ecc???); sottosegretari del non meno significativo calibro di Giovanardi (quello della famiglia complice della gestione dei centri di detenzione per migranti) smentire l’esistenza di fosse comuni e prendersela con la stampa che “ingigantisce” (dopo averci massacrato occhi e orecchie con le armi non convenzionali di Saddam, mai esistite, o con decine di altre stragi più o meno inventate per organizzare guerre e interventi militari di vario genere); e il presidente del consiglio per giorni non ha voluto chiamare l’amico Gheddafi “per non disturbarlo” (mentre quello utilizzava armi italiane per la sua guerra contro la popolazione).
E gli altri governi europei si sono per giorni allineati al silenzio e alla complicità italiane, preoccupati solamente dei loro affari, dal loro posto nelle distribuzione del petrolio e della necessità del controllo militare dei migranti.
L’allargamento e l’estensione degli scontri in Libia hanno cominciato a far parlare di intervento militare, di opzioni “tutte sul terreno”, addirittura di “guerra umanitaria – ancora!
Per il momento la Nato – il cui segretario Rasmussen ha comunque messo a disposizione dell’Onu e della Ue la forza militare alleata - non pare però così ansiosa di mettere in piedi un intervento di cui non conosce bene le prospettive e senza la sicurezza di una gestione che non si trasformi in un boomerang – visto che in Afghanistan le cose non vanno proprio benissimo, e già uscire da quel pantano senza troppe conseguenze negative militari e politiche non sarà semplice.
Questo non significa però che il rischio di un intervento militare sia scongiurato, visto anche che gli Stati uniti – che hanno deciso sanzioni “unilaterali” e hanno già inviato sul posto consiglieri militari e personaggi simili - da tempo hanno costituito il nuovo comando militare nel continente africano (Africom) e che l’occasione di impadronirsi del rubinetto petrolifero libico potrebbe essere così forte da portare a qualche forma di intervento (magari usando un’altra volta la maschera dell’Onu – che come sappiamo esiste come Babbo Natale…).

Dobbiamo essere allora molto chiari riguardo la nostra posizione e il nostro impegno in questi giorni.
Non chiediamo nulla ad una “comunità internazionale” – nome innocuo e mistificatorio dietro il quale si nascondono governi e alleanze internazionali ben delineate - che in questi anni ha giustificato e organizzato guerre e massacri in nome volta per volta della libertà, della democrazia, persino dell’umanità…
Dall’Unione europea e dal governo italiano - che finanziamo con le nostre tasse e che parlano in nostro nome - possiamo solamente pretendere che mettano immediatamente fine ad ogni relazione diplomatica e politica con Gheddafi e gli altri dittatori, di cancellare ogni accordo militare e interrompere il commercio di armi verso quei paesi (e verso ogni paese, per mettere fine una volta per tutte alle spese militari), di fare tutto il possibile per accogliere i migranti e i profughi in arrivo dall’Africa.
Allo stesso tempo diciamo con chiarezza che siamo e saremo sempre contro qualsiasi forma di intervento militare (Onu, Usa, Nato, europeo, “africano”…), nelle varie forme in questi anni inventati: NoFly Zone, truppe “umanitarie”, forze di rapido intervento – ma anche embarghi contro la popolazione.

Lo diciamo ancora una volta: siamo dalla parte delle rivoluzioni arabe, siamo dalla parte delle donne e degli uomini che hanno riempito le strade di tutti i paesi del nord africa e del medioriente per ottenere finalmente libertà, democrazia e giustizia sociale. Stiamo con le forze popolari di quei paesi, con le loro organizzazioni politiche e sociali, democratiche e rivoluzionarie.
I nostri alleati non possono allora essere i governi europei, o le opposizioni di loro maestà come il Pd in Italia che hanno in questi anni messo in campo lo stesso pensiero unico militare ed economico e le stesse politiche liberiste e interventiste; non sono nemmeno i militari arabi che dall’occidente sono stati armati e addestrati; non sono le nuove borghesie arabe in ascesa e che cercano di approfittare delle rivolte per affermare una loro leadership. Ma non sono nemmeno in alcun modo sedicenti leader “antimperialisti” (come Gheddafi, come AhmadinNejad) che possono governare solamente schiacciando le libertà e i bisogni delle loro popolazioni.

I nostri alleati in Europa e in tutto il mondo sono le forze politiche e sociali che si battono contro le privatizzazioni e la mondializzazione capitalista e il liberismo, contro l’espropriazione della partecipazione politica, per la giustizia sociale. Con loro vogliamo mobilitarci per sostenere i processi rivoluzionari in corso, con loro manifesteremo con forza il nostro NO alla guerra e all’intervento militare occidentale e il nostro sostegno alle reti democratiche e rivoluzionarie arabe.
I nostri alleati sono i movimenti sociali che nella loro assemblea al Forum di Dakar hanno lanciato il 20 marzo come “giornata internazionale di sostegno alle rivolte arabe”. Il 20 marzo noi ci saremo

LA RIVOLUZIONE E’ POSSIBILE!

Esecutivo nazionale Sinistra Critica

23 febbraio 2011

Sinistra Critica: Gheddafi assassino, solidarietà con il popolo libico. Cacciamo anche i complici del colonnello!

La rivolta del popolo libico conferma l'ondata di sollevazioni cui abbiamo assistito nel nord Africa. Una mobilitazione spontanea, stanca di regimi infami e sanguinosi, pressata dalla crisi economica e dalle politiche liberiste imposte con la complicità dei governi occidentali. La complicità italiana, in particolare, è del tutto evidente nel caso della Libia il cui governo è stato finora spalleggiato e coccolato dai governi di Roma, di centrosinistra e di centrodestra - soprattutto per fare il "lavoro sporco" del controllo e della repressione dei migranti africani - fino ad arrivare al parossismo del governo Berlusconi che con Gheddafi ha intrattenuto rapporti personali e reverenziali francamente vergognosi.
La solidarietà al popolo libico, come ieri quella ai popoli tunisino, algerino, egiziano e poi a quello dello Yemen, del Bahrein o del Marocco da parte di Sinistra Critica è netta. Per questo abbiamo già aderito e partecipato alle varie manifestazioni indette dalla comunità libica in Italia come a Milano e Roma, e continueremo a farlo nei prossimi giorni.

L'assassino Gheddafi - che con i bombardamenti sui civili in piazza dimostra fino a che punto un potere in sfacelo può aggrapparsi alla violenza più cieca per difendere sé stesso - se ne deve andare e con lui tutta la cricca di potere che lo circonda a partire dalla sua famiglia. Per gli assassini compiuti in queste ore il dittatore libico deve essere processato e condannato. Una nuova era deve aprirsi per la Libia e il nord Africa, una fase fondata sulla partecipazione popolare e sulla democrazia diretta come in parte sta avvenendo in Tunisia con la formazione dei comitati in difesa della rivoluzione.

Ma insieme a Gheddafi se ne devono andare anche i suoi complici, obiettivamente complici in queste ore delle morti e degli assassini. Berlusconi deve andarsene, il suo appoggio al colonnello libico qualifica chiaramente la natura del suo governo. Serve una grande manifestazione popolare che richiami l'esempio offerto dai popoli dell'altra sponda del Mediterraneo, che rigetti le politiche della crisi e i tagli sociali e chieda con forza le dimissioni di Berlusconi e del suo governo.

L'assemblea dei movimenti sociali del Fsm di Dakar ha intanto deciso una giornata internazionale di sostegno alla rivolta araba e contro le guerre per domenica 20 marzo. Proponiamo a tutte le forze interessate a costruire un'iniziativa nazionale di trovarsi per discutere insieme un'iniziativa aperta e inclusiva.

Sinistra Critica - Organizzazione per la Sinistra Anticapitalista

Tunisia, la lotta per difendere la rivoluzione

Dopo la cacciata di Ben Ali si è aperto lo scontro tra chi vuole approfondire la rivoluzione del 14 gennaio e chi cerca di riorganizzare le vecchie forze. La proposta di un'Assemblea costituente e di un "congresso" formato da comitati popolari e forze sociali

da Solidarités

La rivoluzione tunisina è la prima del 21° secolo. La sua onda d'urto ha scosso tante dittature e governi occidentali, anche se non ha rovesciato il vecchio regime e tanto meno l'apparato statale neocoloniale che lo sostiene. E’ stata l’espressione di una diffusa avversione alla dittatura che ha alimentato lo scontento di diverse categorie, almeno fino al 14 gennaio. Da allora conosce una polarizzazione sempre più forte tra il campo della rivoluzione e quello della contro-rivoluzione.

Il secondo campo lotta per preservare le sue istituzioni e la sua costituzione. Gli agenti delle potenze occidentali, i naufraghi del vecchio regime e gli islamisti con la complicità delle frange liberali del movimento democratico cercano di disinnescare la rivolta sociale. Il governo di "unità nazionale" provvisorio (GUNP) è formato da ex membri del potere di Ben Ali, il cui primo ministro (dal 1999) è stato l’architetto delle politiche neoliberali dettate dalle istituzioni finanziarie imperialiste.

Oltre ai tre ministri del movimento democratico, che fanno ogni sforzo per dare legittimità a questo governo, gli altri sarebbero "tecnocrati neutrali" al servizio della democrazia. Arrivati dalla Francia, i laureati delle “Grandi Scuole” e proprietari di capitali che operano nel saccheggio della Tunisia, sono stati reclutati da Hakim Karoui, ex consigliere di Jean-Pierre Raffarin (primo ministro francese, 2002-2005). L'unico scopo del Governo provvisorio di “unità nazionale” è far deragliare qualsiasi tentativo di stabilire una democrazia politica e sociale.

Al contrario, la rivoluzione è sostenuta dal Fronte del 14 gennaio, che include la sinistra anti-capitalista, i nazionalisti arabi e gli indipendenti di sinistra. Due altre organizzazioni ancora non riconoscono il Governo provvisorio: il Congresso per la Repubblica (CPR) e il Forum Democratico del Lavoro e della Libertà (FDLT). La dinamica avviata dal Fronte del 14 gennaio è portatrice di una speranza (all'incontro del 13 febbraio a Tunisi hanno partecipato oltre 8000 persone). Attraverso la diffusione dei comitati locali e regionali, con la convergenza degli attivisti sindacali e le associazioni più combattive, ha annunciato una prospettiva politica che può aprire lo spazio per un cambiamento radicale.

Il Fronte propone un Congresso Nazionale per difendere la rivoluzione che sia espressione dei comitati popolari, di tutte le forze politiche, sociali e sindacali presenti nelle lotte che vada verso un’assemblea costituente per redigere una costituzione democratica per soddisfare le aspirazioni di emancipazione nazionale e sociale. Questo processo che risponde alle aspirazioni popolari vuole rompere con la dipendenza e riorganizzare l'economia sulla base dei bisogni essenziali delle classi lavoratrici, in particolare quelli delle donne, sulla socializzazione delle banche e la cancellazione dell’odioso debito accumulato dalla dittatura.
(traduzione di Felice Mometti)

21 febbraio 2011

Per lo sciopero generale e generalizzato

Assemblea nazionale autoconvocata di delegate/i, Rsu e Rsa per uno sciopero generale e generalizzato contro Governo e Confindustria

Dopo la resistenza sui tetti e nelle mille vertenze sparse contro chiusure aziendali, ristrutturazioni e licenziamenti, la giornata del 28 gennaio ha visto scendere in piazza in decine di manifestazioni in tutta Italia, migliaia e migliaia di lavoratrici e lavoratori metalmeccanici, affiancati da tantissimi giovani e da altrettanti lavoratori di tutti gli altri settori, facilitati nella loro mobilitazione dalla felice decisione di alcuni sindacati di base di generalizzare a tutte le categorie con un proprio sciopero l’iniziativa della Fiom.
Questa importante convergenza è un primo segnale che va valorizzato, pur nel rispetto delle legittime differenze sindacali, con la messa da parte di divisioni e “patriottismi” di sigla di fronte alla brutalità di questa offensiva padronale che vuole azzerare i diritti conquistati con decenni di lotte e che vuole eliminare ogni forma di rappresentanza conflittuale.
In tutti i cortei è risuonata la rivendicazione di un grande sciopero generale unitario contro Governo, Confindustria e contro i tagli imposti dall’Unione europea. A molte di queste manifestazioni hanno preso parte, in maniera unitaria, anche le delegate e i delegati autoconvocati che stanno promuovendo da giorni un appello per uno sciopero generale e generalizzato e per un incontro nazionale autoconvocato di delegate/i, rsu, rsa e comitati di lavoratori che non hanno possibilità di una rappresentanza classica (precari, immigrati, ecc…).
Per questi motivi vi invitiamo a firmare questo appello e a diffonderlo in ogni angolo del paese, in ogni azienda, settore o sindacato tra le lavoratrici ed i lavoratori che lo condividono (vedi l'elenco delle/dei prime/i firmatari/e).
Ma una firma non basta a fermare l’offensiva padronale. Dobbiamo incontrarci e costruire punti di convergenza utili alla mobilitazione, alla resistenza alla crisi e alla costruzione dal basso dello sciopero generale e generalizzato di cui c’è bisogno. Diamo appuntamento a tutte e tutti per una grande
Assemblea nazionale
Roma - 26 febbraio - ore 9,30

sala del Nuovo Teatro Colosseo
via Capo D'Africa, 29/A

Firma e diffondi



20 febbraio 2011

Veto Usa blocca risoluzione Onu per una condanna delle colonie israeliane in Palestina

New York - Agenzie, InfoPal. Ieri, 18 febbraio, gli Stati Uniti hanno fatto ricorso al proprio diritto di veto, contrastando la risoluzione di condanna delle attività dello Stato di Israele in terra di Palestina (le colonie illegali, ndr).

La risoluzione di condanna era appoggiata da circa 130 Paesi, e dai 15 Stati membri del Consiglio di sicurezza, tuttavia il voto è stato annullato dal veto degli Stati Uniti. Sono Stati aventi diritto a veto, insieme agli Usa, anche Francia, Cina, Russia e Gran Bretagna.

Le prime dichiarazioni. L'ambasciatore Usa presso l'Onu, Susan Rice, ha fatto sapere che, rammaricato per il rifiuto incontrato nelle misure per un compromesso, proposte precedentemente dagli Usa, il suo Paese non ha avuto altra scelta all'infuori del veto.

"La risoluzione avrebbe allontanato dalla realtà una soluzione basata su mutui negoziati. Gli Usa respingono le attività coloniali di Israele in Cisgiordania, ma le Nazioni Unite non rappresentano il foro appropriato per risolvere il decennale conflitto".

Per Rice, insomma, esiste una qualche autorità dell'Onu, ma, così decretando, il suo Paese dimostra di non riconoscerne la legittimità del ruolo di mediatore internazionale nella risoluzione dei conflitti.

"Gli Stati Uniti preferiscono un approccio diretto alle questioni cruciali tra israeliani e palestinesi". Forse le colonie non lo sono per la diplomazia americana, e quest'idea si ritrova anche nelle dichiarazioni rilasciate a poche ore dal voto dal Segretario di Stato Usa, Hilary Clinton, durante una conferenza stampa di fronte ai senatori statunitensi.
"In passato, l'intervento delle Nazioni Unite ha dimostrato di essere debole e inefficiente. L'America sostiene uno Stato palestinese che garantisca a Israele di vivere in frontiere sicure e che possa intrattenere relazioni pacifiche con il resto dei Paesi della regione mediorientale".

Subito dopo l'esito del voto, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui hanno reiterato la condanna delle colonie israeliane e hanno incoraggiato una soluzione basata sui due Stati, ribadendo il sostegno alla ripresa dei negoziati sullo status finale, nell'ottica di accogliere lo Stato di Palestina tra i membri Onu entro settembre 2011.

Da parte sua, Yasser 'Abed Rabbo, segretario generale dell'Organizzazione di liberazione della Palestina (Olp), ha affermato: "Da ora sarà necessario rivalutare l'intero processo negoziale".

I palestinesi hanno ricordato alla comunità internazionale che, proprio attraverso le sue attività coloniali in terra di Palestina, Israele sta creando una colonizzazione de facto della loro terra e che, di conseguenza, si è molto vicini a precludere la fattibilità della realizzazione concreta dello Stato palestinese.

Israele, invece, chiede ai palestinesi di tornare al tavolo negoziale, stando alle dichiarazioni del portavoce agli Esteri, Yigal Palmor, il quale, analogamente all'ambiguità delle dichiarazioni di Rice, afferma di "non ritenere utile il Consiglio di sicurezza Onu per assicurare pace e stabilità nella regione".

Soddisfazione per il veto Usa è stata espressa da Israele agli Usa, dove anche, l'Aipac (The American Israel public Affairs Committee - http://www.aipac.org/), ha salutato il decisivo intervento americano. Commentando l'esito del voto, la "Human Rights Watch", invece, ha posto in evidenza la pericolosità dell'azione statunitense: "E' una lesione del potere esecutivo della legge internazionale".

Le varie Convenzioni di Ginevra, di cui Israele è parte contraente, proibiscono all'occupante il trasferimento di popolazione civile nel territorio occupato. Esattamente quello che Israele fa con le illegali colonie in Palestina.

17 febbraio 2011

Sinistra Critica incontra il “Partito Afghano della solidarietà” (Hambastaghi)

Il portavoce nazionale di Sinistra Critica Piero Maestri ha incontrato domenica 13 febbraio Mohamed ... speaker nazionale del “Partito afghano della solidarietà” (Hezb Hambastaghi), in Italia su invito dell’associazione Cisda.
Un incontro fraterno e molto cordiale tra due organizzazioni politiche che – nelle loro situazioni differenti – fin dalle loro origini hanno al centro del loro impegno la lotta contro la guerra, contro l’occupazione dell’Afghanistan delle truppe Nato (quindi anche italiane) e l’inganno della “guerra per la libertà”, contro i fondamentalismi – per una vera democratizzazione dell’Afghanistan e la partecipazione di tutti i soggetti, prima di tutto delle donne (usate dai vari fondamentalismi per schiacciarle o per ingannare).

Durante l’incontro questa condivisione politica è risultata davvero totale anche per l’oggi: malgrado le difficoltà del movimento contro la guerra in Italia e in Europa, le ragioni del No alla guerra e all’intervento militare in Afghanistan sono ancora tutte valide.
L’incontro è stato però ancora di più l’occasione per approfondire un tema caro a entrambe le forze politiche: in Afghanistan non c’è un’alternativa tra Nato (e governo afghano) e fondamentalismi (talebani o meno), ma tra forze laico-democratiche e signori della guerra (Nato e afghani).
La partecipazione e la democrazia sono possibili in Afghanistan se finalmente si pone fine all’occupazione e si sostengono le forze politiche e sociali democratiche – ponendo fine anche alle centinaia di progetti di “cooperazione” (governativa e non – se ancora c’è differenza…) che non aiutano davvero la popolazione afghana e la sua autonomia, ma perpetuano la sua dipendenza economica e politica.

Sinistra Critica ha ribadito il suo sostegno innanzitutto politico alle forze democratiche e laiche afghane (tra queste Hambastaghi), impegnandosi all’organizzazione comune insieme ad altre forze contro la guerra e per la democrazia di una prossima iniziativa per far conoscere la realtà delle forze alternative in Afghanistan e rafforzare il loro protagonismo politico e sociale.

16 febbraio 2011

Verona: Siamo tutt@ sulla gru

Novembre 2010, Brescia. Per oltre due settimane sei cittadini migranti hanno resistito su una gru, a decine di metri d'altezza, per rivendicare i loro diritti, negati dalla sanatoria truffa del 2009. Come prosegue quella lotta? Qual è stata la sorte di molti di loro?

Ne parliamo con:

Avv. Gian Andrea Rochi (foro di Bologna)

Sauro Di Giovanbattista (Asociazione Diritti per Tutti - Presidio sottola gru)

Chiaccherata condita da aperitivo

domenica 20 febbraio ore 19

presso la nostra sede in vicolo Dietro Campanile San Tomaso 4

Le donne rompono gli argini

Una giornata di grande moblitazione da parte delle donne in Italia, in gran parte contro Berlusconi, ma anche per rappresentare bisogni e diritti negati. E a Roma si forma un corteo che arriva a Montecitorio

Flavia D'Angeli
www.ilmegafonoquotidiano.it

Oggi nelle piazze delle donne, e di tanti uomini, sono emersi finalmente in superficie la rabbia e il malcontento che covano nella società italiana. E' bastato fare un appello alla mobilitazione, peraltro non molto radicale, perché centinaia di migliaia di persone lo raccogliessero come se non aspettassero altro, da tanto, troppo tempo.
La crisi permanente in cui è precipitato il governo Berlusconi e gli scandali oltre ogni misura che stanno accompagnando quello che ci auguriamo sia un non troppo lento tramonto, hanno fatto da denotatore a un'indignazione che non poteva continuare a essere né negata, come continuano a fare grottescamente gli accoliti del premier, né repressa come ha fatto finora il Partito Democratico, ed in parte anche la direzione della Cgil che si ostina a non “vedere le condizioni” per convocare uno sciopero generale.
E' difficile fare una radiografia a caldo della composizione e degli umori politici delle centinaia di migliaia di persone che sono andate in piazza, è però evidente come una parte significativa di elettorato delle opposizioni, e in particolare del Pd, ha colto l'occasione per manifestare, rompendo gli argini delle timidezze e dei tatticismi dei suoi dirigenti. Accanto a questo, però, si è visto anche un protagonismo di donne che, come il 24 novembre del 2007 nella manifestazione di Roma "contro la violenza" sembra covare nella società italiana in attesa del momento buono per emergere. Un protagonismo denso di rabbia, di voglia di affermare diritti e dignità, magari privo di obiettivi o di una "piattaforma" politica ma comunque desiderso di esserci. E anche dotato di una buona dose di radicalità che ha portato, ad esempio, a un'accoglienza calorosa dell'iniziativa di "attraversamento" di piazza del Popolo messa in campo da diversi collettivi femministi e di movimento della capitale.
Le compagne dei collettivi femministi studenteschi e giovanili, assieme a quelle del centro antiviolenza Donna Lisa e a quelle dei centri sociali, insieme a tante altre femministe, hanno infatti deciso di partecipare alla giornata di mobilitazione (vedi articolo sotto) facendo emergere una denuncia complessiva delle politiche patriarcali e lesive dei diritti delle donne che caratterizzano l'azione di questo governo, e che troppo spesso hanno trovato consenso o scarsa opposizione nelle sinistre moderate.
Rifiutandosi, inoltre, di cadere nella trappola della mobilitazione delle donne "perbene" contro quelle “per male” che pure ha accompagnato, almeno all'inizio, alcuni autorevoli appella alla mobilitazione.
Fin dalla mattina centinaia di donne hanno manifestato davanti al ministero del Welfare in Via Veneto, depositando simbolicamente davanti al portone una serie di pacchi regalo che rappresentavano i doni “non graditi” (e quindi restituiti) che governo e padronato hanno fatto alle donne: legge 40 sulla procreazione assistita, innalzamento dell'età pensionabile, attacchi alla legge 194, tagli al welfare, pacchetto sicurezza e persecuzione della prostituzione di strada ecc.
Il corteo ha poi proseguito fino al Pincio per scendere in Piazza del Popolo al grido di “siamo tutte egiziane, sciopero generale” tra gli applausi delle tantissime donne presenti che non riuscivano più ad entrare in una piazza stracolma. Il corteo delle femministe, quindi, ingrossatosi via via raccogliendo molte donne dentro e fuori la piazza, ha continuato a sfilare per il Lungotevere per arrivare fino a Montecitorio dove, scavalcando le transenne, le donne hanno depositato altri “pacchi-regalo” davanti al portone del Parlamento.
L'enorme successo della giornata di mobilitazione odierna chiede continuità ed un impegno in questo senso ai soggetti sociali, sindacali, politici che hanno animato le piazze, o per lo meno alle sue espressioni più consapevoli e radicali, per mettere in campo, finalmente, un movimento generalizzato di opposizione al governo e alle sue politiche, e che raccolga la crescente rabbia sociale prodotta dalla crisi economica e dal fatto che governo e padronato continuano a farla pagare a lavoratori e lavoratrici. A Susanna Camusso, che parlava dal palco di Piazza del Popolo, bisognerebbe chiedere “se non ora quando...lo sciopero generale?”. A Berlusconi, asserragliato nel palazzo, bisognerebbe dire, come le piazze tunisine ed egiziane, “se non ora, quando...te ne vai a casa?”.
Le piazze di oggi, come quelle degli studenti di dicembre o le urne di Mirafiori piene di No, dicono che nonostante lo stato comatoso della sinistra istituzionale, la società italiana è tutt'altro che pacificata ed è sempre meno disponibile a pagare la loro crisi !

Viva le rivoluzioni egiziana e tunisina!

Dichiarazione internazionale delle organizzazioni presenti al congresso del NPA

Il rovesciamento di Ben Alì e di Mubarak cambia la situazione politica non solamente nel Magreb e nel Medio Oriente ma a livello internazionale. Le rivoluzioni popolari che hanno messo fine a delle dittature sostenute per decenni dall’imperialismo americano ed europeo ridanno fiducia all’insieme dei popoli arabi e scompaginano tutto il dispositivo imperialista e sionista nella regione. Ed ora le popolazioni giordane, yemenite, irakene, palestinesi sono scese nelle strade per pretendere dei cambiamenti politici.
Queste rivoluzioni sono l’effetto diretto della crisi economica internazionale e dei diktats del FMI e della Banca mondiale che impongono un’offensiva sociale radicale e l’impoverimento di popolazioni già colpite da decine d’anni di politiche di ingiustizia sociale e di corruzione. Queste due rivoluzioni aprono la via non solo a rivendicazioni democratiche per rompere con le dittature precedenti, ma anche alla rimessa in causa dei sistemi economici capitalistici che sono all’origine di tanta ingiustizia. Sono le questioni sociali che sono state all’origine dell’insurrezioni popolari. L’imperialismo farà di tutto per salvaguardare le sue posizioni nella regione e per impedire lo sviluppo anti-imperialista del processi in corso e la loro propagazione nella regione. Quindi i popoli egiziani e tunisini , le forze che, in questi paesi, vogliono dare impulso ad una via anti-imperialista e socialista hanno bisogno della solidarietà e del sostegno attivo dei rivoluzionari, dei movimenti anti-imperialisti, dei movimenti sociali e sindacali del mondo intero. Ciascuno, nei nostri paesi e nelle nostre regioni, si impegna a sviluppare questa solidarietà specialmente per combattere le istituzioni ed i gruppi capitalistici internazionali che mirano ad impedire ogni trascrescenza sociale ed economico di queste rivoluzioni nascenti, e ad appoggiarsi su questo esempio magnifico per stimolare la mobilitazione contro il Debito e le esigenze del FMI.
Viva le rivoluzioni tunisina ed egiziana!
Solidarietà internazionale!
12 Febbraio 2011
NB. L’Assemblea mondiale dei movimenti sociali riunita nel quadro del Forum mondiale di Dakar chiama ad una giornata di mobilitazione il 20 marzo


Sottoscrittori: Tunisia: Ligue de la Gauche Ouvrière,PCOT// Marocco : Al Mounadil// Irak: Irak Freedom Congres, Union des communistes-Irak// Libano: Parti coummuniste libanais // Palestina: Fronte popolare di Liberazione Palestinese// Inghilterra: Socialist Worker’s Party, Counterfire// Belgio : LCR/SAP// Portogallo: Bloco de Esquerda// Corsica: A Manca// Italia: Sinistra Critica// Stato Spagnolo: Izquierda Anticapitalista, Partito Operaio Rivoluzionario// Catalonia: En Liutta// Euskadi: Askapena// Irlanda: Socialist Worker Party// Polonia: P.P.P// Grecia: SEK,Dea// Francia: NPA//USA:ISO// Canada: Socialist caucus of the New Democratic Party// Messico: Partito Rivoluzionario dei Lavoratori// Martinica: Groupe révolution Socialiste// Venezuela: Marea Socialista// Brasile PSOL// Argentina: MST// Perù: Partito Rivoluzionario dei Lavoratori// Indonesia: KPRM-PRD// Sri Lanka: NSSP// Corea del Sud New Progressive Party// Isole Riunione: NPAR// AUSTRALIA: Socialist Aliance// Svizzera: MPS

Tradotto dal sito htt://www.npa2009.org

Egitto: dove sono finiti i desaparecidos?

Centinaia di egiziani sono finiti nelle prigioni della polizia politica ma anche dell'Esercito e di loro non si sa piu' nulla. Le Forze Armate promettono un referendum costituzionale ma intanto si schierano nuovamente contro le lotte dei lavoratori

Roma, 16 febbraio 2011, Nena News – Sono scomparsi a centinaia e nessuno sa più niente di loro. Centinaia di egiziani, arrestati durante le manifestazioni che hanno portato alle cacciata del presidente Hosni Mubarak, sono ancora introvabili e considerati ufficialmente «dispersi». Ma tutti sanno che i desaparecidos sono nelle mani dei servizi di sicurezza e detenuti in località segrete. L’Egitto post rivoluzionario potrà dirsi davvero più libero e trasparente solo se verranno totalmente cambiati i metodi del mukhabarat, il servizio segreto che per decenni ha arrestato, interrogato e torturato in nome della stabilità del regime di Hosni Mubarak. In questo caso però è chiamato in causa anche l’Esercito che pure gode tra gli egiziani di una ottima reputazione per l’atteggiamento avuto durante i 18 giorni della rivolta contro Mubarak. «Centinaia di persone sono detenute – ha denunciato Gamal Eid, direttore della Rete araba di informazione dei diritti umani – ma le notizie sul loro numero esatto non sono ancora complete. Sappiamo soltanto che l’Esercito aveva arrestato una parte dei cittadini ora dispersi». Eid perciò ha esortato i militari a stilare immediatamente una lista dei detenuti e a rispettare i loro diritti. Ieri il quotidiano indipendente al-Masry al-Youm aveva pubblicato un elenco di nomi di uomini e donne, in gran parte tra i 15 e i 48 anni, che sono svaniti nel nulla tra il 25 gennaio (primo giorno delle manifestazioni) e il 9 febbraio, due giorni prima delle dimissioni del raìs-faraone (le autorità egiziane non hanno finora fornito una cifra ufficiale degli arrestati durante gli scontri nei quali, secondo l’Onu e Human Rights Watch, sono state uccise oltre 300 persone).

Nassir Amin, avvocato alla guida del Centro arabo per l’indipendenza e la giustizia, ha aggiunto da parte sua che alcuni manifestanti potrebbero trovarsi nelle mani dell’esercito, ma un numero molto maggiore sarebbe stato arrestato da poliziotti in borghese, ossia della famigerata baltagiyyeh (polizia politica). Alcuni cyber-militanti protagonisti della rivolta hanno detto di aver ricevuto da alti gradi delle Forze Armate l’assicurazione che «tutti i manifestanti svaniti nel nulla saranno ritrovati». Ma i dubbi restano e le preoccupazioni per la loro sorte sono forti.

Entro dieci giorni l’Egitto avrà una nuova costituzione, promettono ancora i militari del Consiglio Supremo delle Forze Armate, che hanno affidato la direzione della commissione competente ad un giudice in pensione, Tareq Beshry. A sorpresa, però, hanno anche inserito nel gruppo un Fratello Musulmano, l’avvocato ed ex deputato Sobhi Salah. Che la confraternita, tuttora considerata fuorilegge ma da sempre tollerata, stia ricevendo un’ulteriore legittimazione costituzionale è segnalato anche da un’intervista ad un noto portavoce, Essam El Arian, fatta da una rete televisiva imprecisata, ma ripresa dalla tv di stato, in una prima volta assoluta per l’Egitto.

Altra novità di rilievo è la una nuova sfida all’ Esercito della «Coalizione dei giovani» anti-Mubarak, che aveva promosso la protesta del 25 gennaio. La Coalizione ha annunciato che se il Consiglio Supremo delle Forze Armate, che da venerdì scorso ha il controllo del paese, non comunicherà al più presto un calendario delle tappe del suo lavoro, non sarà cambiato il governo, come è stato promesso, e non sarà abolita la legge d’emergenza in vigore dal 1981, venerdì prossimo, giornata della «Marcia della Vittoria», potrebbe ricominciare un sit-in in piazza Tahrir. I vertici militari da parte loro hanno ribadito la loro contrarietà agli scioperi dei lavoratori che lottano e manifestano per migliorare la loro condizione e non soltanto per arrivare ad un Egitto più democratico. Secondo l’Esercito «il popolo deve capire che scioperi e sit-in e l’alt nel lavoro e nella produzione e i danni alle industrie non risolveranno i loro problemi…Il risultato di questo prolungato stato di instabilità sociale sarà catastrofico». I giovani, aggiungono i comandanti militari, devono «salvaguardare le infrastrutture sociali ed economiche, perchè la democrazia significa dialogo e non contrapposizione». In sostanza i militari dicono agli egiziani: la vostra ribellione è finita con la cacciata di Mubarak, ora tutti zitti e al lavoro e non turbate il sistema economico e sociale egiziano che vede il 40% della popolazione vivere in povertà, con 2 dollari al giorno.

13 febbraio 2011

L'Egitto, la Striscia di Gaza e le rivoluzioni mediterranee: una nuova Era?

di Angela Lano
www.infopal.it

InfoPal. In Tunisia come in Egitto, il popolo ha vinto contro il Tiranno. Sono state rivoluzioni non-violente, duramente aggredite dai rispettivi regimi. Centinaia di morti e feriti sono stati il prezzo delle due rivolte popolari che hanno posto fine al potere di dittatori violenti, amati e sostenuti politicamente ed economicamente dall'Occidente.
Una guerra da vincere. Le battaglie sono state vinte, ma speriamo che anche le guerre lo siano, perché certamente Israele e i suoi sponsor statunitensi ed europei non permetteranno facilmente che Paesi-chiave come l'Egitto - il cui governo è stato un fedele e prezioso partner nell'oppressione dei palestinesi - si emancipino del tutto dal loro giogo. La definitiva liberazione dell'Egitto dall'influenza israelo-statunitense potrebbe, come sappiamo, significare la permanente apertura del valico di Rafah, e dunque, in qualche modo, la fine del disumano assedio alla Striscia di Gaza, che da quattro anni affama 1,5 milioni di persone. Israele non permetterà, senza mettere in campo tutti i propri illegali mezzi, che l'assedio sia spazzato via. C'è dunque da aspettarsi di tutto, in queste settimane.
Sostegno alle rivoluzioni monocolore? I palestinesi della Striscia hanno atteso con preoccupazione e speranza l'esito della rivoluzione egiziana. Il governo di Gaza aveva contenuto le manifestazioni di piazza pro-rivoluzione temendo che la vittoria del regime del Cairo sulla volontà del popolo d'Egitto avrebbe avuto effetti ancora più nefasti per i palestinesi. Osservando dall'esterno tali precauzioni, qualcuno, tra i non pochi islamofobici attivisti "pro-Palestina" italiani, ne aveva subito approfittato per sottolineare il parallelismo tra il regime quisling e corrotto (si leggano i tanti documenti del "Palestine Papers"), e ormai inviso ai più, dell'Anp di Ramallah, e il governo assediato di Gaza. Ma si sa, per certa sinistra (non tutta, per fortuna!), i governi popolari e le rivoluzioni devono avere un solo preciso colore, gli altri non sono ammessi o accreditabili... Infatti, parallelamente, altri analisti, sempre italiani, e sempre sostenitori delle rivolte rosso fuoco, hanno iniziato a diffondere articoli in cui la rivoluzione popolare egiziana veniva screditata e assimilata ad altre, pilotate da Cia e Mossad... Forse è un'abitudine italiana, quella di dubitare di tutto, tranne di ciò di cui davvero si dovrebbe, o forse è il vizio insanabile del settarismo e dello spirito di "tribù" a farci diffidare di tutto ciò che non appartiene al nostro stesso identico schieramento, ma tant'è... La rivoluzione egiziana ha spazzato via in modo non-violento il clan Mubarak, aprendo il Paese alla prospettiva d'un futuro. E i palestinesi, in massa anche loro, si sono riversati nelle strade della Striscia e della Cisgiordania a manifestare entusiasmo e tanta speranza per se stessi e per i loro fratelli egiziani.
Egiziani liberi di sostenere i palestinesi. Ricordo ancora una visita a un centro caritatevole egiziano, al Cairo, alla fine dell'Operazione Piombo Fuso contro Gaza, nel gennaio 2009: era un'organizzazione gestita (in modo non ufficiale in quanto vietato dal governo), dai Fratelli Musulmani. Nell'edificio, aperto al pubblico, fervevano i preparativi per una spedizione di aiuti ai gazesi vittime della feroce aggressione israeliana. Mi colpì la dedizione dei tanti volontari, il loro coinvolgimento e la loro solidarietà ai fratelli e sorelle palestinesi. Un'attitudine che il regime Mubarak non favoriva certamente, ma tollerava, purché non avesse connotazioni pubbliche e troppo "politiche", sgradite all'amico e padrone Israele. Conservo ancora nella mente l'imbarazzo di uomini e donne di buona volontà egiziani, politici e cittadini comuni, a dover abbassare la testa e lavorare segretamente, o "non ufficialmente", a sostegno dei propri vicini palestinesi. C'era in tanti, giovani e adulti, una rassegnazione disperata, una rabbia repressa e malcelata che rivelava i prodromi di un futuro e potenziale cambiamento. Quello che, ci auguriamo, è iniziato ieri, con la fine dell'era Mubarak e della sottomissione al diktat Israelo-americano. La rivoluzione egiziana, con la sua forza, coraggio, non-violenza e determinazione rapresenta un momento storico di grande impatto per tutti i popoli arabi soggiogati da dittature pagate e sostenute dai nostri regimi occidentali. E' una speranza anche per tutto il Mediterraneo.

12 febbraio 2011

La tenacia del del popolo egiziano ha costretto Mubarak alla fuga, ora democrazia e libertà. No ad una tutela militare e statunitense

La fuga di Mubarak verso Sharm el Sheik, senza i famigliari ma con molti bagagli, è la conseguenza - positiva e sperata da settimane - della tenacia e della permanente mobilitazione della piazza egiziana, che non ha raccolto l'invito minaccioso dell'esercito a smobilitare (e a tornare al lavoro).
Ora i generali si appresterebbero a prendere in mano anche i poteri formali, oltre a quelli reali (politici e d economici) che già detengono. E' l'unica soluzione che l'establishment egiziano e i suoi numerosi protettori internazionali hanno trovato per tentare di impedire una dinamica insurrezionale che estrometta tutti i responsabili del regime. Gli attacchi ripetuti alle caserme in giro per il paese - oltre alla manifestazioni che continuano a occupare le piazze e gli scioperi annunciati e praticati - dicono che il passaggio di poteri parziale deciso da Mubarak non ha bloccato la protesta e per questo Usa e Ue hanno dovuto spingere l'esercito a fare il passo.
La gioia per la partenza di Mubarak, resa ancora più grande dal fatto che segua quella del dittatore tunisino Ben Ali e che coincide con una rivolta che soffia in tutto il nord Africa, non ci fa dimenticare le preoccupazioni di fronte al ruolo contro-rivoluzionario dell'esercito e al freno che Usa e Ue cercheranno di mettere alle rivolte (d'altra parte i golpe a bassa intensiatà ssembrano quelli preferiti dal "democratico" Obama, dall'Honduras ad Haiti...).
Ora speriamo che il Movimento 6 aprile e tutte le forze poltiche e sociali che si sono impegnate nelle mobilitazioni sapranno darsi un coordinamento e una direzione, insieme ai sindacati che organizzano gli scioperi, per impedire che l'esercito riporti la situazione sotto controllo dei soliti noti, amici degli Stati Uniti e di Israele.
La combinazione della lotta contro la crisi (la fame!) e per i diritti democratici deve sfociare al più presto in elezioni per un'Assemblea costituente, ma per arrivarci occorre un'autorganizzazione popolare che non deleghi nessuno (tantomeno l'esercito!) a gestire la transizione.
Sinistra Critica - e la sua rete internazionale - continua a sostenere la mobilitazione popolare e le forze politiche e sociali impegnate in una vera rivoluzione democratica e nella lotta per la giustizia sociale.
Esecutivo Nazionale Sinistra Critica

Dare del razzista ad un fascista non è reato

La Suprema Corte ha assolto un reporter che, riportando le parole del politico Nando Simeone,(ex Prc, oggi Sinistra Critica), aveva accusato di xenofobia gli esponenti di Forza Nuova. Secondo i giudici, razzismo e violenza sono valori strutturali dell'ideologia fascista.
Dare del "razzista" a qualcuno è reato, ma non se il destinatario dell'epitteto si riconosce nei valori di estrema destra. E' la conclusione a cui è giunta la Corte di Cassazione esaminando il caso di un giornalista del Corriere della Sera che aveva definito così degli esponenti di Forza Nuova. Con la sentenza numero 4938 del 10 febbraio 2011, quindi, la quinta sezione penale ha confermato il non luogo a procedere del reporter che era stato denunciato dal leader dell'organizzazione di estrema destra, Roberto Fiore, per una intervista nella quale un politico, Nando Simeone - ex esponente di Rifondazione Comunista, ora di Sinistra Critica ed ex vicepresidente della Provincia di Roma- inseriva Forza Nuova tra le "organizzazioni chiaramente fasciste e che sono portatrici di valori quali la xenofobia, il razzismo, la violenza e l’antisemitismo".
Le motivazioni della sentenza: secondo la Cassazione, in una dimensione storica le "qualifiche di xenofobia, razzismo, violenza ed antisemitismo attengono a principi o valori intimamente connaturati e strutturalmente coessenziali alla ideologia nazista e fascista". Questa sentenza è in linea con quanto aveva già sostenuto la Suprema corte dopo una denuncia dello stesso Fiore dell'anno scorso. Allora la Cassazione infatti sostenne che affermazioni simili rientrano nel diritto di "critica storica e politica" dal momento che "alla luce dei dati storici e dell’assetto normativo vigente durante il ventennio fascista, segnatamente delle leggi razziali, la qualità di fascista non può essere depurata dalla qualità di razzista e ritenersi incontaminata dall’accostamento al nazismo".

La rivoluzione è possibile

Mubarak si è dimesso sotto la spinta della sollevazione popolare. Non sappiamo cosa succederà ora, se la delusione prenderà il posto della speranza. Ma Il Cairo mostra qual è la strada del cambiamento

di Salvatore Cannavò

www.ilmegafonoquotidinano.it

Centinaia di migliaia di persone festeggiano a piazza Tahrir, al Cairo, dopo l'annuncio delle dimissioni di Hosni Mubarak. Se ieri sera il raìs aveva cercato di strappare un altro lembo di potere, la rivolta spontanea e determinata, lucida e sostanzialmente pacifica di milioni di persone lo ha costretto alla resa, a fuggire via, a gettare la spugna.

UN ESITO INCERTO. Non sappiamo cosa succederà ora in Egitto, quanto le forze del vecchio regime riusciranno a resistere e a restaurare il proprio potere, magari con cambiamenti di facciata. Ma, al di là degli esiti, la sollevazione popolare ha riproposto all'attenzione del mondo intero il tema del cambiamento come espressione di un'iniziativa di massa. Gli egiziani ci dicono che la rivoluzione è possibile.
Il cambiamento non è frutto di giochi di palazzo, di complicati origami politici, di mosse e contromosse, schemi geometrici ma cammina sulle gambe popolari, sulla mobilitazione di massa. Le “masse” tornano in campo e prendono parola, nel modo più semplice e diretto, riproducendo, probabilmente, antichi errori e dovendo subire altrettante delusioni. Ma la strada è tracciata e questa notizia costituisce una boccata d'ossigeno anche per noi che assistiamo a piccoli fenomeni di “risveglio sociale” pur se informi e poco incisivi.
Certo, l'Italia non è l'Egitto e nonostante la ridicola macchiesta sulla presunta nipote neanche Berlusconi è Mubarak. Non c'è l'esercito a puntellare il "regime" italiano ma le televisioni e la corte di palazzo. Eppure, la strada indicata dalla sponda sud del Mediterraneo ha una valenza generale, indica una modalità. E ci dice che, davvero, se non ci riprendiamo il nostro protagonismo, la nostra volontà di cambiamento non andremo da nessuna parte.

LA CRISI ITALIANA. Assistiamo a una verticale “decadenza” delle classi dirigenti di questo paese, incapaci di trovare il bandolo della matassa e della governabilità. Il governo Berlusconi è in evidente crisi di consenso e legittimità ma non sgombra il campo e si fa forte della maggioranza parlamentare – peraltro acquistata in contanti – di uno zoccolo d'uro di elettorato che resiste, di un ruolo padronale del proprio leader che nessuno osa mettere in discussione. Il centrosinistra, le opposizioni, offrono uno spettacolo pietoso fatto di formule algebriche e di schemi tattici privi di contenuti, di idee, di proposte, quali che siano. La “borghesia” italiana balbetta e si contorce in uno scontro interno per la sopravvivenza sul mercato globale – cos'è se non questa la strategia di Marchionnee il suo scontro con la traballante Marcegaglia? - la Chiesa offre, ancora una volta,la prova della sua connaturata ipocrisia, e la sinistra si divide tra essere “ancella del Pd” o ruota di scorta non necessaria. Resta in campo l'esempio offerto dalla Fiom e dagli studenti che riecheggia quello che proviene dall'altra sponda del Mediterraneo: il protagonismo diretto, la democrazia di base, la sollevazione popolare come mezzo, e anche come contenuto, di una trasformazione sociale reale e durevole.

UN'INDICAZIONE POSITIVA. Perché, anche se appare una prospettiva lontana e irrealizzabile, è questa la soluzione di cui abbiamo bisogno. La destrutturazion dell'agenda politica imposta da venti anni di berlusconismo e antiberlusconismo, narrazioni contrapposte di un'unica visione economica e sociale; il rimaneggiamento dell'ordine del discorso costituito, il ripristino di bisogni inespressi e demonizzati. Il bisogno del lavoro, del reddito, della casa, di un ambiente sano, di una vita degna di essere vissuta. Tutto questo non ha futuro nel quadro politico esistente, con le caste e le cricche che si spartiscono il potere; nemmeno l'auspicabile uscita di scena di Berlusconi offrirebbe speranze in tal senso. Solo un rivolgimento profondo potrebbe ridare fiato a un discorso sul futuro. Come disse in una celebre serata televisiva il compianto Mario Monicelli, in Italia per cambiare davvero, “ci vorrebbe una rivoluzione”. Come in Egitto.

10 febbraio 2011

Il nocciolo politico del desiderio maschile

di Sandro Bellassai*

Ogni giorno che comincia mi dico: oggi lo faranno. Poi vedo che ancora non l'hanno fatto e non riesco a farmene una ragione. Che aspetta, mi chiedo, la stampa berlusconiana a diffondere un calendario hot con succose immagini di Ruby, e delle tante altre di cui abbiamo visto i nomi e i volti sui media delle ultime settimane?
Pensateci un attimo. Migliaia, forse milioni (o magari miliardi?) di uomini correrebbero in edicola: Lui avrebbe praticamente vinto le elezioni senza neanche indirle.

Perché ho pochi dubbi che, dalla D'Addario in poi, una buona - anzi buonissima - parte dei maschi italiani abbia trovato interesse per la piccante faccenda anche nel rimirare per quanto è possibile le procacità delle ragazze che Lui si è portato a casa. E che, neanche tanto in fondo, questi uomini abbiano quindi pensato: beato Lui. Del resto, sono decenni che l'audience regge grazie all'esibizione di corpi femminili giovani, attraenti, svestiti e ammiccanti. Non era ancora maggiorenne? Ma, dico, l'avete vista voi com'è fatta? Diciamo la verità: davanti a tutta questa grazia di dio, a chi verrebbe in mente di controllare i documenti?

Poi rifletto e mi dico: ma certo, eccolo il perché, la stagione dei calendari è passata da tempo. Non si spiega altrimenti: all'appetitoso articolo non mancherebbe certo il target. Il target siamo noi, ovviamente. Noi maschi italiani, devoti consumatori immaginari di anatomie felliniane, concretissimi utilizzatori finali che compongono uno scenario probabile di 9 milioni di clienti di prostitute. Cittadini di uno stato che fino all'altroieri celebrava giuridicamente il bene prezioso dell'onore, e fino a ieri considerava lo stupro un reato non contro la persona ma «contro la moralità pubblica e il buonconstume». Di un paese in cui ogni due giorni uno di noi, uomini italiani, ammazza la compagna, la moglie, la ex. Noi maschi di un ex popolo di latin lover, di santi e navigatori che ormai da tempo assiste impotente - mai termine fu più puntuale - alla catastrofe della virilità personale e collettiva.

Lui non è altro che l'autobiografia sessuale della nazione maschile. Guardiamoci negli occhi, maschi: quanti di noi sotto sotto lo invidiano?

Non avete proprio mai sentito al bar, al lavoro, in palestra, un altro uomo che lo ammettesse? Quanti, siano di destra o di sinistra poco importa, magari non vorrebbero proprio essere al suo posto, ma in fondo lo capiscono, o comunque non vedono tutto questo scandalo? Se scandalo c'è, secondo costoro viene dal fatto che la scabrosità (dettagli, conversazioni, immagini) è stata messa in piazza; e comunque, si sa, da che mondo è mondo le storie boccaccesche scandalizzano i moralisti. Gli illuminati comprensivi, fiorenti questi soprattutto nel centrosinistra, invece non moraleggiano (non adesso, almeno: non stiamo certo parlando di unioni di fatto o fecondazione assistita) e cavallerescamente evitano di affondare il colpo contro l'avversario in oscene ambasce, perché tra ufficiali - maschi - si usa così, o contro le sciagurate di manzoniana memoria, perché non siamo più nel secolo di Gertrude ma in quello modernissimo delle escort.

A me tuttavia pare che non si tratti di colpire maramaldescamente un uomo per la sua immoralità, né di sorvolare paternalisticamente sulla virtù delle donne. Da sempre, in pratica, il discorso maschile sulla prostituzione è un discorso sulle prostitute: il cliente scompare, l'uomo è come sempre invisibile, della sessualità maschile non si parla. Non ci vuole molto per vedere come l'immaginario maschile sia il grande rimosso di questa storia, e se le cose stanno così parlare di Lui, da uomini, è difficile perché significherebbe forse dover parlare anche di noi stessi. Di noi stessi in quanto esseri umani sessuati, intendo: cosa a cui non siamo molto abituati, e forse anche chi sarebbe disposto a provarci, una buona volta, esita perché non sa da che parte cominciare. Troppo forte, per provare a tenersi in un'orbita di lucida autenticità, è la doppia attrazione gravitazionale del moralismo di chi definisce Lui malato e del virilismo spavaldo di chi lo chiama beato.

Ma ho l'impressione che molti uomini, o comunque molti più uomini di quanto possa apparire, potrebbero oggi voler cogliere l'occasione di questo squallore maschile per parlarne in forma né moralistica né virilistica. L'occasione, insomma, di avvicinarsi al vero nocciolo della questione (così avvicinandosi, forse, anche un po' più a se stessi): il desiderio maschile. Che è questione politica tout court, naturalmente, e quindi può essere affrontata davvero fino in fondo in un confronto collettivo; la politica non essendo, io penso, una dimensione del cambiamento che si possa più di tanto praticare in solitudine. È anche per questo motivo, peraltro, che alcuni di noi hanno creato uno spazio politico come «Maschile plurale», in cui ormai da vari anni tentiamo di confrontarci fra uomini sulle relazioni, sul potere e sul desiderio.

Quella del desiderio maschile è una dimensione politica, in quanto dimensione del potere e della libertà, che può anche risultare scomoda quando ci costringe a chiederci in che cosa siamo o ci sentiamo diversi da uomini come Lui. Che può anche apparire difficile quando proviamo a guardare in faccia le nostre contraddizioni, magari senza prendere la scorciatoia di pensarci migliori di altri. Eppure, vale la pena di credere che al di là di queste strettoie talvolta faticose potremo guadagnare all'esperienza spazi insospettati: dove, per esempio, finisca per sembrarti inconcepibile il sesso con una persona che in realtà non ti desidera affatto; dove, sempre per esempio, il proprio desiderio di uomini sia finalmente inscindibile dalla libertà delle donne.

*Univ. di Bologna-Forlì, autore de "La mascolinità contemporanea"; socio dell'ass.ne «Maschileplurale»

09 febbraio 2011

Considerazioni sul Rubygate

di Lidia Cirillo
Le vicende legate al Rubygate possono essere commentate da vari angoli di visuale. Franca D'Agostini, filosofa della scienza, lo ha fatto perfino dal punto di vista del logos, analizzando gli pseudo-ragionamenti e le procedure argomentative dei difensori di Berlusconi, giornalisti sul suo libro paghe o persone da lui elevate agli alti ranghi delle istituzioni.
Qui vale invece la pena di soffermarsi su alcuni aspetti del rapporto tra governo e opposizione e sulla discussione che le avventure sessuali del premier hanno aperto nel femminismo. E' evidente che Berlusconi è diventato un personaggio scomodo per gli stessi che lo hanno sostenuto e hanno ricevuto benefici dalla sua gestione del potere politico. Un leader che non alimenti un clima di belligeranza totale, non compromesso con la giustizia, con una vita privata più morigerata e con un'immagine meno folkloristica agli occhi del resto del mondo, sarebbe certamente preferibile per le élites economiche di questo paese.
Non da ora ma da sempre la preferenza dei possessori di ricchezze andrebbe a qualcosa di simile a una destra liberale, in un contesto di democrazia formale e con la mediazione di servitori dello Stato disponibili a ritirarsi, dopo aver prestato il loro contributo allo sfruttamento e all'estorsione di pluslavoro.
Questa aspirazione si è realizzata solo in casi eccezionali, e comunque mai in tempi di crisi, perché non risolve il problema fondamentale del consenso. Insomma finché Berlusconi lo garantisce, sia pure a suo modo, difficilmente il padronato vorrà o potrà liberarsi di lui. Marcegaglia ha chiarito bene la posizione della sua parte sociale, quando a una domanda di Fabio Fazio in un programma di intrattenimento televisivo ha risposto: un nuovo primo ministro sì, ma solo dopo le elezioni, cioè solo dopo la verifica del consenso che ciascuno schieramento raccoglie. Poiché è difficile che il presidente del Consiglio getti la spugna ed è facile invece che abbia deciso di vendere cara la pelle, la sua vita o la sua morte dipendono dall'incerto passaggio delle prossime elezioni politiche, in cui egli avrà carte migliori da giocare rispetto ai suoi avversari, prima di tutto l'uso dei media. Non si tratta di arrischiare un'incauta profezia sull'immortalità politica di Berlusconi, che potrebbe alla fine essere travolto dalla sua imprudenza e impudenza. Si tratta di non dimenticare ciò che l'opposizione parlamentare sembra aver rimosso e cioè che esiste una condizione sine qua non per sostituire un governo con un altro, almeno finché una democrazia formale continua a esistere.
La logica dei discorsi e delle iniziative del maggiore partito di opposizione si riduce oggi a denunciare il governo e il suo capo perché, in tutt'altre faccende affaccendati, non si dedicano con adeguato zelo alle riforme indispensabili e urgenti per l'Italia. Sulla qualità delle cosiddette riforme nulla si dice, ma la sintonia con la Confindustria e la disponibilità ad accettare Tremonti come nuovo presidente del Consiglio non lasciano dubbi sulla loro natura. Insomma, se le parole hanno un senso, ciò che il PD chiede in ultima analisi è una maggiore efficacia nella spoliazione ulteriore del lavoro salariato e nella riduzione all'osso del welfare residuo.
Se l'operazione del PD andasse davvero a buon fine, cioè se il secondo atto di una crisi devastante venisse gestito da una specie di governo di unità nazionale con all'opposizione la destra berlusconiana e criptofascista, dotata di strumenti di comunicazione di massa quasi da regime, allora verificheremmo che il governo Berlusconi non è il peggio che possa capitarci con questi rapporti di forza e con questa sinistra.
Non è solo per questo che non sarebbe stato saggio firmare l'appello di Concita De Gregorio, direttrice dell'Unità; non è solo perché esso è parte di uno sciagurato progetto politico. L'appello si rivolge alle donne di destra e di sinistra, povere e ricche, del Nord e del Sud perché testimonino insieme che esistono altre donne oltre quelle che si mettono in fila per il bunga-bunga e perché insieme dicano “Ora basta”. E' evidente che l'obiettivo è quello di proporre un'altra femminilità, diversa da quella costruita dall'immaginario berlusconiano di kapò con in tacchi a spillo e di fanciulle iscritte alla lista di collocamento dello scambio tra sesso e danaro.
Il rovescio della medaglia è che lo stigma finisce per colpire proprio l'ultima ruota del carro, vale a dire le ragazze comprate per allietare le serate dell'anziano miliardario. Ha ragione Pia Covre del Comitato per i Diritti delle Prostitute, quando denuncia che le giovani donne ascoltate come persone informate dei fatti sono state usate ed esposte sui media e che, se ad alcune la cosa è andata bene, altre ne sono uscite umiliate e ferite. E si deve darle ragione anche quando si chiede se può essere considerata una vera vittoria sfrattare il premier perché è scivolato sulla prostituzione, mentre ci sarebbero ragioni sociali, politiche e di democrazia per mandarlo a casa. La campagna dell'opposizione non può essere condivisa nei suoi obiettivi e nelle sue modalità anche per un'altraragione, cioè per l'ondata di moralismo ipocrita che la caratterizza.
Come altro si potrebbe definire l'accoglienza calorosa riservata alle parole del cardinal Bertone e l'uso strumentale delle inquietudini del mondo cattolico? Ora, sia chiaro, sarebbe del tutto legittimo che un'opposizione facesse leva anche sulle vicende del Rubygate. Non so se qualcuno/a ha mai scritto un libro sul ruolo dello scandalo nella storia, ma è noto che agli scandali sono debitrici anche due grandi rivoluzioni, quelle del 1789 e del 1917. Lo scandalo può assolvere la funzione di svelare all'ingenua opinione popolare che gli dei non sono dei, che nel Castello avvengono cose che violano le regole dettate dal Castello stesso e che esse sono quindi arbitrarie e parziali. Il debito tuttavia è stato sempre di poco conto e, come tutte e tutti sanno, quelle rivoluzioni sono poi andate ben oltre.
In che cosa consiste lo scandalo è stato già detto. Non è vero che a casa propria si può fare ciò che si vuole; anche a casa propria non si possono commettere reati e l'uso della prostituzione minorile è reato. Non è poi vero che si tratta di questioni solo private perché il premier colloca nelle istituzioni le persone, donne e uomini, che gli hanno reso i servigi da lui richiesti. E' vero invece che un individuo con una condotta così disinvolta si fa poi paladino della più retriva morale cattolica, promette una legge contro la prostituzione, ne fa approvare un'altra che vieta l'analisi pre-impianto degli embrioni nelle tecniche di fecondazione assistita, resiste al riconoscimento del sia pur minimo diritto di lesbiche, gay e trans, celebra il family day...
La discussione nel femminismo sull'argomento non è cominciata oggi con il caso Ruby. Dell'uso del corpo delle donne nei media e delle mutazioni del genere che l'immaginario berlusconiano produce si parla da tempo. La legittima avversione nei confronti del moralismo dell'opposizione e della logica politica che la caratterizza ha prodotto qua e là, nella parte più radicale del movimento, reazioni del tutto inadeguate. O troppo benevoli nei confronti del presidente del Consiglio: ognuno è libero di fare a casa propria ciò che vuole; la sinistra replica l'atavica condanna del sesso, che è invece un'attività naturale ecc. Oppure commenti propri di chi si tira fuori dalla mischia: sono cose da uomini che non ci riguardano; rifiutiamo di adeguarci ai modi e ai
tempi della politica, alle regole degli schieramenti partitici e dell'audience televisiva ecc.
Nel complesso tuttavia la discussione nel merito è stata ben più ricca e feconda che altrove e pour cause. E' chiaro a molte che non solo con quest'ultima vicenda, ma con tutta la sua storia personale, con il suo modo di concepire la presenza delle donne in politica e con le immagini delle
televisioni che possiede o controlla, Berlusconi ha utilizzato una delle specifiche tecniche di consenso della destra moderna. Perché moderna non è la destra liberale ma quella post, cioè quella che si trova a fare i conti con più pressanti problemi di consenso e li risolve con la propaganda, la repressione e la costruzione di capri espiatori, in diversi rapporti di quantità tra loro secondo il contesto. E' improbabile che l'operazione sia stata consapevole: la sua realizzazione deriva dal fatto che Berlusconi è l'incarnazione caricaturale e ormai patetica del senso comune della maggioranza dei maschi italiani.
Inoltre il suo essere un parvenu della politica lo priva delle capacità di mediazione, simulazione e dissimulazione proprie dei politici di mestiere. Berlusconi è semplicemente un bugiardo nel senso più rozzo e infantile del termine. La tecnica di consenso consiste nel portare a galla, diffondere e legittimare ciò che giace sul fondo del corpo sociale, le credenze e le relazioni più arcaiche. L'uso politico dell'antigiudaismo, per esempio, derivò dalla constatazione che esso era ancora assai vivo negli strati popolari più incolti. E la constatazione si realizzò nella forma semplice della quantità degli applausi che nei comizi ogni attacco agli ebrei suscitava. Qualcuno ha scritto che quando le chiacchiere da birreria si fanno politica, allora la civiltà e la democrazia sono in pericolo. Così quando l'immaginario del maschio medio italiano si fa spettacolo e cultura, allora riprendono forza gli stereotipi più arcaici sulla femminilità.
Il problema non sono quelle che si mettono in fila per il bunga-bunga, spesso poveracce alla ricerca di un reddito che non trovano altrove e che è impietoso additare al pubblico disprezzo. E non è nemmeno quello delle fidanzate e maitresses del premier nelle istituzioni. Un intellettuale come Sgarbi, che si presta a urlare e insultare in difesa delle mutande del suo padrone, è ben più repellente della sprovveduta Carfagna.
La questione è che il genere viene costruito anche dai media e dalle immagini femminili che essi veicolano. Certo “esistono altre donne”, come recita l'appello di De Gregorio, ma altre donne sono sempre esistite perché il genere ha sempre poco a che fare con le donne reali, ma rappresenta comunque un fardello di pregiudizi e di luoghi comuni che le opprime. Tra i commenti che in questi giorni circolano nelle liste e nei giornali on line vela la pena di citarne uno, quello del Blog femminista Medea di “un gruppo di donne che fa politica sul territorio a Torino”. Il testo ricorda il film di Pasolini “Salò o i 120 giorni di Sodoma”, ispirato all'omonimo romanzo del marchese De Sade, girato negli anni Settanta e rapidamente scomparso dalla circolazione. Ambientato tra il 1944 e il 1945 l'opera è divisa in quattro parti strutturate in modo simile ai gironi danteschi: antinferno, girone delle manie, girone della merda e girone del sangue. Sono protagonisti quattro
rappresentati dei diversi poteri (economico, ecclesiastico, politico, giudiziario) che si chiudono in una villa con nove ragazze e nove ragazzi, catturati o comperati, per soddisfare le loro perversioni. La morale della favola è la denuncia del potere come fonte di iniquità e nefandezze e l'idea che il sesso sia una metafora del potere. Alla sessualità violenta e perversa di un regime violento e perverso viene accostato il sesso mercificato di un'epoca, la nostra, in cui tutto è merce e danaro. O almeno questo sembra dire il testo non sempre chiaro in tutte le sue parti. Gad Lerner, in una puntata dell'Infedele ha ripreso il confronto, ma il medium televisivo non si presta a discorsi sofisticati e l'accostamento è apparso una inaccettabile forzatura, che non giustifica ma forse spiega l'intervento e gli insulti del presidente del Consiglio. Un'ultima considerazione.
Il femminismo dell'ala radicale e antagonista dei movimenti ha perso un'occasione. Ha criticato giustamente le mobilitazioni ispirate alla logica dell'appello di Concita De Gregorio, ma non ne ha fatte o proposte altre. Eppure una materia che non fosse quella della contrapposizione tra donne perbene e permale c'era e in abbondanza. Si poteva, si può, contrapporre al mito dell'uomo che ama le donne – la gnocca, dice Sgarbi, sostituendo la parte al tutto – il capo del governo che ha varato, cancellato e rifiutato leggi sempre in logiche che rendono la vita delle donne più faticosa, precaria e ingiusta.