30 aprile 2011

Verona 30 aprile: Contro la crisi uniamo le lotte

CONTRO LA CRISI UNIAMO LE LOTTE

VERSO IL 1° MAGGIO


MANIFESTAZIONE

Sabato 30 aprile

ore 16.00

piazza Brà

Dietro il volto opulento dei negozi del centro storico, Verona vive la realtà della crisi economica che la aggredisce in maniera sempre più evidente.

Over Meccanica, Alstom, Glaxo, Cardi, Bpw... sono solo alcune delle realtà industriali veronesi per le quali, a dispetto di un sostanziale immobilismo di Comune e Provincia, è concreta la minaccia di chiusura e di licenziamento di centinaia di lavoratori e lavoratrici. Numerose famiglie dunque si trovano ad affrontare situazioni di grave difficoltà.

Gli effetti delle politiche liberiste sostenute dal governo e dalla confindustria in questi ultimi anni aggravano il bilancio della crisi. L'attacco frontale ai diritti dei lavoratori si concretizza nei ricatti, a partire dalla minaccia di chiusura delle fabbriche, messi in atto per imporre condizioni più sfavorevoli e si accompagna alla riduzione dei salari e alla corrispondente crescita dei profitti.

La precarietà del lavoro (e della vita) è divenuta ordinaria per migliaia di persone, specialmente giovani, mentre si intensifica drammaticamente lo sfruttamento dei migranti considerati come forza da utilizzare in concorrenza con gli altri lavoratori e poi gettare. I tagli ai servizi sociali scaricano sulle famiglie, ed in particolare sulle donne, il peso di uno stato sociale che sta scomparendo.

La riforma dell'Università, i tagli alla cultura e alla scuola mirano ad impoverire la società tutta, ad eliminare il pensiero critico ed addestrare alla precarietà. Sono misure che abbattono le poche resistenze ancora presenti al pensiero unico del regime mediatico e condannano oltre il 30% dei giovani alla disoccupazione. La privatizzazione dei servizi essenziali e dei beni comuni come l'acqua serve per garantire nuovi profitti, sottraendo al controllo pubblico ed alla collettività risorse universali che devono invece essere fruibili da tutti e preservate per le generazioni future.

Verona inoltre sta assistendo passivamente alla distruzione del suo apparato produttivo con pesanti conseguenze negative non solo per chi rimane senza reddito, ma anche per le giovani generazioni per le quali lo sbocco sul mercato del lavoro sarà sempre più difficile ed incerto.


L'unica strada percorribile per opporsi a ciò è quella di intrecciare le varie lotte che vivono anche sul territorio veronese. Istanze sociali e rivendicazioni necessariamente complementari tra loro, che possono produrre il cambiamento di cui Verona ha bisogno.


SOLIDARIETÀ A TUTTE/I LE/I LAVORATRICI E LAVORATORI

DELLE FABBRICHE IN CRISI

MORATORIA DEI LICENZIAMENTI

CONTRO I TAGLI A SCUOLA E UNIVERSITÀ

PER LA DIFESA DEI BENI COMUNI: LAVORO, ACQUA, ISTRUZIONE PUBBLICA


COMITATO DI SOLIDARIETÀ

CON LE LAVORATRICI ED I LAVORATORI DELLA OVER MECCANICA


Aderiscono: Lavoratrici e Lavoratori Over Meccanica, Collettivo universitario studiareconlentezza, Comitato Acqua Bene Comune, Attac, Retescuoleverona, Circolo Pink, Federazione della Sinistra, Sinistra Ecologia Libertà, Sinistra Critica, Associazione Proutist Universal Verona

ADESIONI: vrcontrolacrisi@yahoo.com

:::::: :::::: ::::::

VERONA - 30 aprile 2011 MOBILITAZIONE ANTIFASCISTA

Nel terzo anniversario della morte di Nicola Tommasoli, li/le antifa veronesi si mobilitano per non dimenticare i fatti del 2008 e le tante, troppe, altre insorgenze razziste e neofasciste che l'attualità purtroppo ci racconta. Per non dimenticare, soprattutto, le tante forme di resistenza che ad esse sicontrappongono.
Sabato 30 aprile saranno organizzati vari eventi, che si concluderannoin piazzetta Tommasoli a porta Leoni dalle 19.30 in poi,con musica, teatro, proiezioni e interventi.

Saremo li anche per ricordare Vittorio Arrigonie il suo impegno per la Palestina.
Tutta la cittadinanza veronese è invitata a partecipare.

cittadine e cittadini antifa Verona


24 aprile 2011

La Liberazione dei rom

di Sandro Portelli
il manifesto 24/04/2011

La notte tra il 3 e il 4 febbraio 1944, i fascisti della banda Koch, aguzzini al servizio degli occupanti nazisti, irruppero nel convento annesso alla Basilica di San Paolo, violando l'extraterritorialità vaticana, arrestando più di sessanta ebrei, renitenti alla leva, antifascisti che vi erano rifugiati per sfuggire alla persecuzione nazista. Nel pomeriggio del 22 aprile 2011, duecento rom si sono rifugiati nella Basilica per trascorrere almeno la notte al coperto dalle persecuzioni spietate del fascismo contemporaneo. E oggi 25 aprile, a poche centinaia di metri di distanza, a Porta San Paolo, dove cominciò la Resistenza, si ricorda il giorno in cui ci liberammo della banda Koch e dei suoi mandanti, e si prende atto del fatto che non ci siamo ancora liberati dei suoi epigoni. Anzi.
Scriveva T. S. Eliot che aprile è il mese più crudele, e la città di Roma con le sue istituzioni lo prende alla lettera: mille Rom in una settimana («santa») sbattuti fuori dai campi distrutti; aggressioni verbali impunite a una coppia lesbica in pieno centro; insulti a una deputata disabile in parlamento; isterismi per l'arrivo di duecento tunisini di una città di tre milioni di abitanti (pronta peraltro ad accogliere centinaia di migliaia di pellegrini adoranti e paganti per i quali c'è sempre posto). Un titolo dell'Espresso nel '55 parlava di «capitale corrotta, nazione infetta»: alla vigilia di questo 25 aprile, Roma di Alemanno è la degna capitale di un'Italia che ha dimenticato come è nata e perché.
Ma esiste una memoria dei luoghi che va oltre la memoria delle persone, e oggi San Paolo la rappresenta.
Forse i perseguitati di oggi non sanno la storia dei perseguitati del 1944, ma in parte la ripetono: come al tempo delle leggi razziali e della cacciata dal centro dei ceti popolari, sono espulsi da una città arrogante e devota che celebra i propri fasti facendo sparire i poveri e gli emarginati. Perciò, entrando nella Basilica, i Rom non hanno solo cercato dove passare la notte: hanno compiuto un atto politico di resistenza, affermando l'insopprimibilità dei diritti umani e la loro presenza attiva di soggetti nella storia. La Resistenza che ricordiamo oggi ha avuto lo stesso significato. Diceva Maria Teresa Regard, partigiana combattente: io a Porta San Paolo non ci sono andata perché me l'ha detto il partito ma perché era giusto andarci. La Resistenza è stato il momento in cui una generazione abituata ad essere sudditi e a lasciar fare i potenti smette di ubbidire e riprende in mano la propria storia. La nostra Costituzione, che ai potenti è sempre parsa intollerabile, nasce da lì: immagina e costruisce una cittadinanza attiva e partecipe, non un popolo governabile ma un popolo che governa. I Rom nella Basilica oggi, i combattenti di Porta San Paolo allora, mettono tutti, istituzioni e cittadini, davanti alla responsabilità delle proprie azioni. Questo 25 aprile, contiguo alla Pasqua e al 1 maggio, ci ricorda che sì, aprile è un mese crudele, ma che il nostro aprile finì con una vittoria e con una festa. Riproviamoci: dipende da noi.

25 APRILE 1945 - 25 APRILE 2011: ORA E SEMPRE RESISTENZA!

23 aprile 2011

Referendum: la partecipazione popolare contro il governo ed i poteri forti

di Marco Bersani

Attac Italia

L’approvazione al Senato dell’emendamento che sancisce la rinuncia temporanea al nucleare rende evidente la volontà di governo e poteri forti di aprire la guerra ai referendum del prossimo 12-13 giugno.

Diversi interessi convergono in questa direzione e con una chiara strategia.

Dal punto di vista del premier, tutto muove dal panico che una doppia sconfitta popolare –alle elezioni amministrative (Milano in primis) e ai referendum- faccia definitivamente crollare una maggioranza tenuta assieme solo dagli interessi di innumerevoli clan oliati con prebende e posti di potere per garantirne la fedeltà.

Dal punto di vista dei poteri forti -multinazionali, capitale finanziario e lobby territoriali trasversali agli schieramenti politici- tutto muove dalla consapevolezza che, in particolare con i referendum per l’acqua, le politiche liberiste , per la prima volta dopo decenni, possano essere sconfitte e sanzionate da un voto democratico e popolare, aprendo scenari di modifica dei rapporti di forza culturali e politici nell’intero Paese e di ridiscussione complessiva sull’insostenibilità dell’attuale modello liberista.

Ecco perché, pur utilizzando la sovranità popolare come feticcio ad ogni occasione, questa diventa il peggiore degli incubi quando possa pronunciarsi davvero.

Ma come in ogni disvelamento, con la mossa sul nucleare, il Governo e i poteri forti dimostrano tutta la loro debolezza, dimostrando come il popolo dell’acqua e quello contro il nucleare siano già maggioranza nel Paese, talmente evidente da non poterne accettare il libero confronto e il conseguente voto.

Non sappiamo cosa deciderà la Corte di Cassazione in merito. Sappiamo per certo che da oggi e fino ad allora –intorno alla seconda metà di maggio- la campagna comunicativa sarà tutta orientata a dire che il referendum sul nucleare non ci sarà, depotenziando l’attenzione dell’opinione pubblica.

Possiamo già prevedere, inoltre, che la strategia non si fermerà qui : già ieri Federutility –la lobby delle SpA che gestiscono il servizio idrico- si è infervorata chiedendo analogo intervento sull’acqua “per impedire due referendum disastrosi”, sapendo su questo di poter contare anche sul consenso di una parte dell’opposizione parlamentare, quella più direttamente legata alle multiutilities delle grandi città.

Il gioco si fa duro e dunque noi dobbiamo “diventare duri mantenendo intatta la nostra tenerezza”.

Da un parte occorre rivendicare i referendum come fine in sé, ovvero come fondamentale espressione della sovranità popolare, tanto più in questa situazione di sostanziale sequestro della democrazia in questo Paese : occorre dire con forza e in tutte le sedi che il diritto delle donne e degli uomini a decidere sulla politica energetica è insopprimibile e non può divenire variabile dipendente dalle tattiche politiche di palazzo.

Dall’altra occorre contare sulla ricchezza –non congelabile da nessun emendamento- dell’esperienza del popolo dell’acqua : quella diffusione reticolare che ha rimesso in moto le energie positive di milioni di donne e uomini che, tutti i giorni e in ogni angolo del Paese, stanno compiendo il più importante processo di autoeducazione popolare degli ultimi decenni, costruendo consapevolezze e intessendo legami sociali, di cui nessun grande mass media parlerà, ma che potrebbero costituire l’elemento decisivo per la vittoria ai referendum.

Contemporaneamente va subito lanciata una campagna per ottenere ora e senza ulteriori tentennamenti ciò che è altrettanto insopprimibile : il diritto all’informazione.

Per questo occorre mobilitarsi subito contro i boicottaggi interni alla Commissione di Vigilanza Rai, che impediscono l’approvazione del regolamento per le trasmissioni televisive, premere su tutte le reti pubbliche e private e sui grandi organi di informazione perché diano adeguata informazione, chiedere ad ogni ente locale di svolgere il proprio ruolo istituzionale favorendo l’informazione e la partecipazione dei cittadini.

Vogliono pregustare la torta di 60 miliardi del business dell’acqua, a noi il compito di rendergli evidente che l’acqua ha un legittimo impedimento : è nostra.

Libia: addesstratori militari italiani tra una settimana a Bengasi

Bengasi, 23 aprile 2011, Nena News – Gli addestratori militari italiani, una decina in tutto, dovrebbero raggiungere Bengasi entro una settimana. Lo ha detto ieri, parlando con alcuni giornalisti, il console Guido De Sanctis rappresentante permanente a Bengasi, di fatto «ambasciatore italiano» nella Libia orientale sotto il controllo dei ribelli anti-Gheddafi. De Sanctis ha spiegato che la preparazione della missione procede e che «se tutto andrà bene» entro una settimana gli addestatori raggiungeranno Bengasi dove, assieme ai loro colleghi francesi e britannici, aiuteranno le milizie degli insorti nella guerra contro le truppe governative libiche.

Il governo Berlusconi, dopo aver avuto rapporti di stretta amicizia per anni con Muamar Gheddafi, ha subito riconosciuto, assieme alla Francia, il Consiglio nazionale transitorio(Cnt), il «governo» dei ribelli. Quindi ha deciso di partecipare all’addestramento dei «thwar» impegnati nel conflitto con i soldati agli ordini del colonnello libico. Una scelta che non ha riscosso consensi unanimi in Europa. Due giorni fa l’Olanda ha criticato Parigi e Roma per aver riconosciuto troppo in fretta il Cnt. La presenza di De Sancits a Bengasi è il risultato della «missione segreta» che il 9 marzo svolgero l’ambasciatore Pasquale Terracciano e il generale Claudio Graziano, per prendere contatto con i leader dei ribelli e accreditare un diplomatico italiano in quella che è considerata la capitale della rivolta. De Sanctis per molti giorni è stato uno dei pochi inviati europei a Bengasi.

Intanto la scorsa notte le ambulanze hanno fatto la spola tra gli ospedali e il centro di Tripoli colpito da un attacco degli aerei della Nato. Tre persone, ha detto un portavoce, sono state uccise da missili caduti in un parcheggio vicino al complesso militare di Bab al-Aziziyah, il quartier generale di Muamar Gheddafi. Ogni giorno la guerra fa nuove vittime, mentre decine di migliaia di civili vivono intrappolati nei quartieri di Misurata assediati dalle truppe inviate dal colonnello libico per strappare agli insorti il controllo della città dove ora scarseggia anche l’acqua potabile. Truppe che, fa sapere il governo, potrebbero ritirarsi lasciando alle tribù locali il compito di affrontare i ribelli e porre fine al conflitto, con le buone o con le cattive. Il viceministro degli esteri libico Khaled Kaim ha spiegato ieri che l’esercito potrebbe ritirarsi a causa degli attacchi aerei della Nato. Da parte sua il ministro degli esteri dell’Algeria Mourad Medelci ha smentito seccamente le accuse del Cnt ad Algeri di inviare mercenari in Libia. Smentite arrivano anche dal Fronte Polisario, accusato a sua volta di aver permesso a suoi combattenti di operare come mercenari in Libia.

Intanto Bengasi, dove ieri è giunto il senatore americano John McCain, si prepara ad accogliere il presidente francese Sarkozy che i ribelli considerano il loro miglior alleato. La visita, la prima di un capo di stato nella capitale della rivolta, avverrà nei prossimi giorni. Nena News

22 aprile 2011

I precari fanno sciopero

Il documento conclusivo degli Stati generali contro la precarietà riuniti a Roma il 16 e 17 aprile. Prossimo appuntamento la MayDay di Milano
www.ilmegafonoquotidiano.it
Immaginate se un giorno i call center non rispondessero alle chiamate, se i trasporti non funzionassero, se le case editrici che sfruttano il lavoro precario fossero bloccate, se le fabbriche chiudessero, se la rete ribollisse di sabotaggi, se gli hacker fermassero le reti delle grandi aziende, se i precari si prendessero la casa che non hanno, gli spazi che gli sono negati. Immaginate se i precari e le precarie incrociassero le braccia, diventassero finalmente protagonisti e dimostrassero che sono forti: il paese si bloccherebbe. È così che immaginiamo lo sciopero precario, che è stato al centro della terza edizione degli Stati Generali della Precarietà, che si sono tenuti a Roma dal 15 al 17 aprile. Centinaia di precari e precarie ne hanno discusso, per fare sì che uno sciopero precario non sia più un ossimoro, cioè un'espressione che contiene due parole

inconciliabili tra loro: sciopero e precario. Perché si sa, i precari non possono scioperare: sono soggetti a ricatti troppo grossi, hanno interiorizzato la sconfitta e la sottomissione al volere delle aziende, sono addirittura i datori di lavoro di se stessi, sono ricattati dal contratto di soggiorno per lavoro e dal razzismo istituzionale. Non vorranno davvero osare ciò che nessuno riesce nemmeno a immaginare. Eppure... eppure a Roma abbiamo parlato di come riprenderci il diritto allo sciopero, di come usarlo per esigere un nuovo welfare del desiderio e non solo del necessario, che deve basarsi sul reddito incondizionato e universale, slegato dalla prestazione lavorativa, su una flessibilità scelta e non imposta, sull'accesso ai beni comuni, ai nuovi diritti e ai servizi per tutte/i, sul permesso di soggiorno slegato dal contratto di lavoro. Si tratta di una questione di libertà di scelta, di uscita dal ricatto della precarietà, di immediata redistribuzione della ricchezza. Abbiamo parlato di utopia, rifiuto, cooperazione, libertà di movimento. Una cosa è chiara a tutte/i: il tempo di quella che abbiamo chiamato “narrazione della sfiga” è finito. La condizione precaria è sotto gli occhi di tutti, non c'è più bisogno di parlare dei nostri problemi individuali. È ora di passare all'attacco per dimostrare che la precarietà può fare male non solo a chi la subisce ma anche a chi la sfrutta. Dalla narrazione si deve passare all'esplosione della rabbia precaria.

È finito il tempo in cui la condizione di precarietà ci veniva presentata come una cosa temporanea, necessaria a preservare i diritti dei “garantiti” che oggi (vedi Mirafiori e Pomigliano) garantiti non sono più. È anche finito il tempo delle divisioni imposte, che vogliamo far saltare. La precarietà infatti è una condizione comune che può dividere, e la prima divisione da superare è quella tra migranti e nativi, rompendo lo scandaloso isolamento che i migranti vivono nei luoghi di lavoro e nella società e interrompendo il circuito che li rende clandestini. Lo sciopero precario, per la prima volta, colpirà i profitti delle aziende che ci precarizzano e sfruttano, che peggiorano ogni giorno le nostre condizioni di vita. Lo sciopero precario sarà il momento in cui l'intelligenza, i saperi, i trucchi e gli sgami di precari e precarie si rivolteranno contro chi li precarizza, e il lavoro migrante contro chi lo sfrutta. Sarà lo sciopero dei precari ma soprattutto uno sciopero che nasce nella precarietà e si rivolge contro la precarietà. Un momento in cui, per la prima volta, non saranno precari/e e movimenti sociali ad allargare e generalizzare lo sciopero dei sindacati, ma in cui si chiederà ai sindacati di generalizzare e rendere possibile uno sciopero in cui i precari non sono solo società civile o testimonial ma pienamente protagonisti. Uno sciopero indipendente, che coltivi l'autonomia e la ricchezza delle pratiche quotidiane dei precari ma che si colleghi anche ai conflitti che stanno agitando tutta l'Europa.

Uno sciopero fatto di cospirazione, di cooperazione, di forme creative per colpire le aziende tutelando i lavoratori ricattati, di blocco dei flussi di informazione e merci delle metropoli, cioè dei luoghi più alti di accumulazione e alienazione. I precari e le precarie vogliono ribadire che le loro condizioni sono al centro dei processi di creazione di profitto. E vogliono far sapere al paese che possono far male, colpire i profitti, creare un problema a chi li sfrutta. Pretendono di essere ascoltati. A Roma si sono riuniti in workshop aperti e partecipati precari e precarie di decine di città, provenienti dai call center, dall'editoria, giornaliste, informatici, migranti, operaie, lavoratori del terzo settore, chi fa lotte per il diritto alla casa, chi riflette sulle questioni di genere e chi su un nuovo welfare possibile. Questa terza edizione degli Stati Generali ha coinvolto undici città da nord a sud della penisola, creando uno spazio aperto e inclusivo di cooperazione e relazione nazionale che vogliamo allargare ad altri soggetti che hanno voglia di sciopero precario. Da domani comincia il vero lavoro di preparazione dello sciopero precario, e da domani la nostra rete comincerà a esprimere in ogni occasione utile le nuove pratiche che l'intelligenza dei precari saprà mettere in campo: un processo di accumulazione in cui tutti/e siano coinvolti per comunicare, spiegare, costruire questo percorso attraverso laboratori cittadini per lo sciopero precario e reti nazionali tematiche. In attesa di aprire una piattaforma comunicativa condivisa di coordinamento, informazione e condivisione, le informazioni sugli Stati Generali e lo sciopero precario si troveranno su precaria.org e indipendenti.eu. Inoltre abbiamo condiviso alcuni appuntamenti che attraverseremo per segnare il cammino verso lo sciopero precario:
la MayDay del primo maggio di Milano come momento di visibilità nazionale per tutta la rete e di lancio dello sciopero precario;
il 26 e il 27 Maggio, giornate di mobilitazione internazionale contro l'austerity in occasione del G8 in Francia;
una giornata di lotta dei e con i migranti contro l’attuale regime dei permessi di soggiorno, contro il razzismo di stato e per la regolarizzazione;
un’assemblea degli Stati Generali a giugno, all’interno e in sostegno al Climate camp di Milano;
un incontro nazionale di verifica comune del percorso e di preparazione dello sciopero precario entro settembre, preferibilmente in una città del sud.
Lo sciopero precario è una parola d'ordine che si moltiplica, una pratica da riempire di senso, un'idea che mette in movimento. Lo sciopero precario è quello di cui abbiamo bisogno. È quello che vi chiediamo di contribuire a rendere possibile.
17 aprile 2011 –

I precari e le precarie riuniti a Roma nella terza edizione degli Stati Generali della Precarietà

18 aprile 2011

Vittorio non è mai stato così vivo come ora!

di Egidia Beretta Arrigoni (madre di Vittorio) – dal Manifesto

Bisogna morire per diventare un eroe, per avere la prima pagina dei giornali, per avere le tv fuori di casa, bisogna morire per restare umani?

Mi torna alla mente il Vittorio del Natale 2005, imprigionato nel carcere dell’aeroporto Ben Gurion, le cicatrici dei manettoni che gli hanno segato i polsi, i contatti negati con il consolato, il processo farsa. E la Pasqua dello stesso anno quando, alla frontiera giordana subito dopo il ponte di Allenbay, la polizia israeliana lo bloccò per impedirgli di entrare in Israele, lo caricò su un bus e in sette, una era una poliziotta, lo picchiarono «con arte», senza lasciare segni esteriori, da veri professionisti qual sono, scaraventandolo poi a terra e lanciandogli sul viso, come ultimo sfregio, i capelli strappatagli con i loro potenti anfibi.

Vittorio era un indesiderato in Israele. Troppo sovversivo, per aver manifestato con l’amico Gabriele l’anno prima con le donne e gli uomini nel villaggio di Budrus contro il muro della vergogna, insegnando e cantando insieme il nostro più bel canto partigiano: «O bella ciao, ciao…»

Non vidi allora televisioni, nemmeno quando, nell’autunno 2008, un commando assalì il peschereccio al largo di Rafah, in acque palestinesi e Vittorio fu rinchiuso a Ramle e poi rispedito a casa in tuta e ciabatte. Certo, ora non posso che ringraziare la stampa e la tv che ci hanno avvicinato con garbo, che hanno «presidiato» la nostra casa con riguardo, senza eccessi e mi hanno dato l’occasione per parlare di Vittorio e delle sue scelte ideali.

Questo figlio perduto, ma così vivo come forse non lo è stato mai, che come il seme che nella terra marcisce e muore, darà frutti rigogliosi. Lo vedo e lo sento già dalle parole degli amici, soprattutto dei giovani, alcuni vicini, altri lontanissimi che attraverso Vittorio hanno conosciuto e capito, tanto più ora, come si può dare un senso ad «Utopia», come la sete di giustizia e di pace, la fratellanza e la solidarietà abbiano ancora cittadinanza e che, come diceva Vittorio, «la Palestina può anche essere fuori dell’uscio di casa». Eravamo lontani con Vittorio, ma più che mai vicini. Come ora, con la sua presenza viva che ingigantisce di ora in ora, come un vento che da Gaza, dal suo amato mar Mediterraneo, soffiando impetuoso ci consegni le sue speranze e il suo amore per i senza voce, per i deboli, per gli oppressi, passandoci il testimone. Restiamo umani.

17 aprile 2011

Alla ThyssenKrupp fu omicidio volontario

di Mauro Ravarino
il manifesto
Sedici anni e mezzo all'amministratore delegato della Thyssenkrupp, il tedesco Harald Espenhahn, per il rogo che la notte del 6 dicembre 2007 uccise sette operai: ma, soprattutto, secondo i giudici della Corte di Assise di Torino fu «omicidio volontario». Una sentenza storica quella emessa ieri davanti alle famiglie delle vittime, che avevano atteso una intera giornata, augurandosi finalmente di avere giustizia. Pene severe anche per gli altri cinque dirigenti Thyssenkrupp: la corte presieduta da Maria Iannibelli ha condannato Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno e Cosimo Cafuerri a 13 anni e 6 mesi e Daniele Moroni a 10 anni e 10 mesi, per «omicidio colposo».
Questa sentenza farà storia, e sarà un importante precedente per la giurisprudenza italiana, perché la Procura di Torino, con una mossa senza precedenti, ha deciso di procedere per omicidio volontario e non, come si è sempre fatto in casi di infortuni sul lavoro, per omicidio colposo: così il procuratore Raffaele Guariniello, che ha lunga esperienza su questo tipo di processi, aveva chiesto 16 anni e mezzo per l'amministratore delegato del gruppo siderurgico, e ha avuto ragione.
Forte il commento di Guariniello: «È il salto più grande di sempre in tutta la giurisprudenza in materia di incidenti sul lavoro. Deve fare sperare i lavoratori e far pensare gli imprenditori. Tutte le nostre richieste sono state accolte, ma una condanna non è mai nè una vittoria nè una festa. Se si potessero evitare questi processi sarebbe meglio». Guariniello ha concluso dicendo che la sentenza «è un regalo che vogliamo fare al presidente della Repubblica».
La formula, in termini giuridici, è quella del «dolo eventuale»: la morte dei sette operai Thyssen, arsi vivi da «un'onda anomala di fiamme» (la testimonianza è dell'unico sopravvissuto, Antonio Boccuzzi) che si era innalzata dalla linea 5 dell'acciaieria, è dovuta - secondo l'accusa - alla negligenza consapevole di chi, dovendo investire sulla sicurezza antincendio, non lo ha fatto, «accettando il rischio» di un incidente.
La Thyssen, per respingere l'accusadell'omicidio volontario, aveva messo in campo alcuni fra i migliori avvocati italiani. Franco Coppi, in aula, aveva spiegato che non si può accomunare il manager di un'acciaieria a un bandito che spara all'impazzata dopo una rapina. I suoi colleghi penalisti si sono spinti più in là: Andrea Garaventa aveva parlato di «processo politico», Nicoletta Garaventa di «desiderio di vendetta» e di «gogna mediatica», Mauro Audisio di «suggestione». Ma la squadra dei pm capitanata da Guariniello non ha fatto marcia indietro: «Se il dolo eventuale non c'è in questo caso allora non esiste - la replica di Laura Longo e Francesca Traverso - perché mai come in questo caso c'è stata la volontà forte di accettare il rischio». Espenhahn, hanno spiegato, posticipò di un anno gli investimenti antincendio su Torino «pur avendone programmata la chiusura», e rinviò gli interventi sulla linea 5 al momento del suo trasloco a Terni. Mentre gli operai continuavano a lavorare «in condizioni di crescente abbandono e insicurezza».
La giornata di attesa era stata lunghissima. Di speranza ma anche di paura per i parenti delle sette vittime della strage. Come a ogni udienza sono arrivati di prima mattina con le foto dei loro cari e la maglietta nera con i volti del figlio o del marito morto tra le fiamme.
Prima di chiudersi in camera di consiglio la presidente della Corte d'Assise aveva fatto un appello: «Chiedo a tutti che, alla lettura della sentenza, sia tenuto un rigoroso silenzio. Ricordo che siamo in un'aula di Tribunale e che non verrà tollerata alcuna intemperanza da parte di chiunque». Ancora ieri i parenti dei sette operai morti - Giuseppe De Masi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino e Antonio Schiavone - ripetevano di confidare nella magistratura, pur con qualche timore, comprensibile: «Abbiamo fiducia nella giustizia. Però c'è incertezza». E poi l'ansia, condivisa insieme ai familiari della tragedia di Viareggio, che la prescrizione breve potesse lasciare impunite le responsabilità.
Fuori dal Palagiustizia, un centinaio di persone si sono raccolte in presidio con striscioni e bandiere. Tra i manifestanti anche numerosi ex colleghi: «Non faccio previsioni - diceva Ciro Argentino poco prima della sentenza - ma spero in pene giuste e severe per tutti e sei». Alle sue spalle le insegne di Cub, Slai Cobas, FeS, Legami d'Acciaio, Collettivo comunista, Rete nazionale per la sicurezza. E anche Giorgio Cremaschi, della Fiom: «Questa sentenza - commenta - non può restituire i lavoratori scomparsi, ma deve servire da monito per il futuro». A metà pomeriggio erano arrivati al presidio anche il sindaco Sergio Chiamparino e il candidato alla successione, Piero Fassino.

15 aprile 2011

Una morte che pesa come una montagna

di Piero Maestri
www.ilmegafonoquotidiano.it

L’uccisione di Vittorio Arrigoni è una di quei fatti che ti prende lo stomaco e ti lascia senza fiato: perché Vittorio era una bella persona, per le modalità in cui è avvenuta, per le tragiche conseguenze che avrà, oltre al fatto in sé, per la Palestina e i palestinesi.

Vittorio è stata una presenza importante in questi ultimi anni, da quando aveva deciso di rimanere a Gaza (unico italiano) durante l’offensiva israeliana denominata “Piombo fuso”, nel dicembre 2008/gennaio 2009. Le sue testimonianze dalla Striscia di Gaza sottoposta ad un feroce e criminale bombardamento erano per noi una delle poche fonti “dal basso” che ci raccontavano la realtà della violenza che subisce quotidianamente la popolazione palestinese.

Le sue attività insieme ai palestinesi - dalla protezione dei contadini del nord della Striscia che cercano di difendere la loro terra dall’espropriazione “per motivi di sicurezza” all’accompagnamento delle barche di pescatori a cui la Marina israeliana impedisce l’uscita in mare, alla relazione quotidiana con le famiglie palestinesi e con quei giovani che sono stati protagonisti delle manifestazioni dello scorso 15 marzo – hanno rappresentato allo stesso tempo l’esempio di una solidarietà umana e politica e la dimostrazione che i palestinesi non sono soli.

Abbiamo continuato ad ascoltare con interesse e partecipazione i racconti di Vittorio, dal suo blog, nelle telefonate in diretta nei molti presidi nelle città italiane che si collegavano in diretta con lui a Gaza, nelle corrispondenze con le radio ancora libere di questo paese in cui l’informazione è un disastro (soprattutto nei confronti dell’”invisibile” Striscia di Gaza).

La sua morte ci priva di tutto questo, ed è una perdita enorme.

Il rispetto per il suo impegno ci impone comunque di provare a capire, per ricordarlo nel migliore dei modi e per continuare il suo e nostro impegno a fianco della resistenza palestinese (quella dei gruppi politici, ma soprattutto dei contadini, dei pescatori, degli studenti, dei medici ecc...).

Non ci entusiasma il gioco del “cui prodest?” e non crediamo che il gruppo salafita responsabile della morte di Vittorio sia semplicemente una “invenzione” israeliana.

Purtroppo la disperazione e il peggioramento delle condizioni di vita e la chiusura degli spazi politici dei palestinesi – soprattutto nella prigione di Gaza – lascia vuoti che vengono riempiti da gruppi iper-minoritari ma che possono fare danni enormi. Naturalmente Israele ha tutto l’interesse che questi gruppi esistano, perché dividono ulteriormente la resistenza palestinese, rappresentano l’ennesima giustificazione per le sue politiche criminali e danno un’immagine terribile (naturalmente falsa) dei palestinesi. Per questo ci risultano odiose le “assoluzioni” preventive di chi come sempre getta addosso ai palestinesi tutte le responsabilità della loro terribile condizione – e in genere sono gli stessi che accusano i pacifisti di fare il gioco dei “terroristi”: la morte di Vittorio risponde anche a loro, alla loro insistente domanda “dove sono i pacifisti?”.

L’assassinio di Vittorio potrebbe fare male alla causa palestinese, perché saranno molti gli avvoltoi che cercheranno di mostrare la “disumanità” genetica dei palestinesi e/o degli islamici; potrebbe fare male perché vuole terrorizzare le/i volontari/e che vorranno seguire le orme di Vittorio – e questo interessa sia ai gruppi fondamentalisti che non vogliono una Palestina aperta al mondo, sia a Israele che vuole rendere ancora più invisibile e assediata la Striscia di Gaza, come dimostrano i suoi tentativi di fermare la Freedom Flottilla (subito seguiti dei loro amici come Berlusconi); potrebbe fare male perché i palestinesi si sentiranno ancora più soli.

A questo punto siamo noi che dobbiamo rispondere con forza che non ci faremo terrorizzare, che continueremo il nostro impegno a fianco della resistenza palestinese; che continueremo a costruire un ponte tra i giovani palestinesi che esprimono la loro necessità e volontà di liberazione (come i giovani tunisini, egiziani, libici, siriani che stanno in questi mesi facendo le loro rivoluzioni), i militanti della solidarietà internazionale e le/gli israeliane/i antisionisti; che continueremo ad andare a Gaza, a Gerusalemme, in Cisgiordania perché sappiamo che lì saremo sempre benvenuti; che continueremo il nostro impegno alla denuncia delle politiche dell’occupazione e dell’Apartheid e delle complicità dei governi europei in queste politiche.

Questo per noi è il tentativo di restare umani.

14 aprile 2011

Libertà per Vittorio Arrigoni

LIBERTA’ PER VITTORIO ARRIGONI


VERONA - VENERDI’ 15 APRILE

DALLE 16,00 ALLE 19,00 IN P.ZA BRA’

A FIANCO DEL POPOLO PALESTINESE

Vittorio Arrigoni è un attivista che da anni condivide con il popolo Palestinese della Striscia di Gaza l’occupazione e gli attacchi omicidi israeliani.

Il sequestro a Gaza City, da parte di un “gruppo Salafita”, è un gesto inaccettabile e colpendo Vittorio si colpisce la solidarietà e la condivisione della sofferenza del popolo Palestinese di tanti attiviste/i; una provocazione contro i legami tra i Palestinesi e i Movimenti Internazionali pro Palestina.

Una solidarietà con il popolo Palestinese che il Governo Italiano non ha mai sostenuto, preferendo sigillare accordi economici e politici con Israele.

Anche in questi giorni sono continue le pressioni ed i ricatti di Israele al Governo Italiano per fermare l’iniziativa della Freedom Flottilla II nel suo tentativo di rompere l’assedio della striscia di Gaza.

Di fronte al silenzio e all’inerzia del Governo Italiano chiediamo l’impegno del Governo della Striscia di Gaza di operare al meglio per la liberazione di Vittorio Arrigoni.

La fine dell’isolamento del popolo Palestinese è il peggior nemico di Israele.

Comitato per la Palestina-Verona

Vittorio Arrigoni è stato rapito.

InfoPal. Vittorio Arrigoni, il noto attivista italiano dell'Ism, che vive a Gaza ormai da anni, è stato rapito da un gruppo salafita, denominatosi "Hisham as-Su'eidani", alias Abu al-Walid al-Muqaddisi: http://www.youtube.com/watch?v=gCyA7A4pDXc&feature=youtu.be

Dal messaggio diramato nel sito, sembra che Vittorio sia in mano a un gruppo salafita legato ad al-Qa'ida.

Il video mostra Vittorio bendato e con delle abrasioni. Il testo del messaggio minaccia l'uccisione dell'attivista entro le prossime 30 ore (domani, venerdì, alle ore 16) se il governo Hamas non rilascerà dei salafiti rinchiusi in carcere.

Il ministero degli Interni del governo di Gaza ha confermato la notizia e ha fatto sapere di aver avviato le ricerche, ma non ha escluso che il sequestro coinvolga realtà esterne alla Striscia di Gaza.

Al-Qa'ida a Gaza? Fonti ufficiali del governo di Gaza hanno dichiarato alla nostra redazione che non esiste alcuna organizzazione legata ad al-Qa'ida a Gaza, ma si tratterebbe, invece, di una realtà creata dall'intelligence israeliana per fomentare conflitti interni a Gaza, che si avvale di "manovalanza" locale, indottrinata e convinta di rappresentare il network di Bin Laden.

"Tutti i gazesi sanno che questa organizzazione non esiste davvero - ci ha spiegato un collega al telefono -. Ci sono degli individui che si dichiarano suoi aderenti, ma il regista è Israele. Questo gruppo 'salafita' ha rapito Arrigoni per chiedere la liberazione di loro commilitoni imprigionati. Ma perché proprio un occidentale? Un italiano? Piuttosto, per far pressioni sul governo di Gaza, avrebbero potuto rapire un militante o dirigente di Hamas.

Purtroppo, noi temiamo che dietro ci sia Israele, che vuole spaventare gli attivisti della Freedom Flotilla2, in partenza il mese prossimo. C'è molta rabbia tra la gente di Gaza: tutti conoscono e apprezzano Vittorio".

Questo è il primo rapimento a Gaza, dopo quello di Alan Johnston (si legga: http://www.infopal.it/leggi.php?id=4737; http://www.infopal.it/leggi.php?id=5727; http://www.infopal.it/leggi.php?id=5189)

Fonti all'interno della Freedom Flotilla2 hanno dichiarato all'agenzia Safa di "non escludere che ci sia Israele dietro il rapimento di Vittorio Arrigoni: può trattarsi di un piano per fare pressione sugli attivisti, e sulle varie organizzazioni in Europa impegnate nel tentativo di rompere l'assedio su Gaza, che dura da cinque anni. Due giorni fa, il primo ministro italiano, stretto collaboratore di Israele, ha dichiarato che lavorerà per impedire la partenza della flotta della libertà dall'Europa".

Sempre su Safa, le stesse fonti hanno aggiunto che "questi trucchi non faranno da deterrente per il nostro lavoro umanitario per rompere l'assedio di 1,7 milioni di palestinesi intrappolati, e le cui condizioni di vita sono pessime.

"Se Vittorio è stato invece sequestrato per fare pressioni sul fronte palestinese (sul governo di Gaza che ha incarcerato alcuni militanti del gruppo salafita, ndr), perché non hanno rapito dei membri di Hamas, allora? Ecco, allora, che siamo portati ad accusare Israele del rapimento".

13 aprile 2011

Carceri, i numeri dell'emergenza

di Luca Galassi
www.peacereporter.net

Negli istituti penitenziari italiani sono detenute 67.600 persone, 22.280 in più della capienza ufficiale (fissata a quota 45.320), mentre i condannati ammessi ad una misura alternativa alla detenzione in carcere sono 16.018, dei quali 8.604 in affidamento ai servizi sociali, 858 in semilibertà (soltanto 85 gli stranieri) e 6.556 in detenzione domiciliare. A fornire i dati - aggiornati al 31 marzo scorso - è il Centro studi di "Ristretti orizzonti", che ha elaborato dati del Dipartimento di amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Le donne in cella sono 2.969, gli stranieri 24.834 (di cui 1.255 donne): tra questi ultimi, i più numerosi sono i marocchini (5.209, pari al 21 percento), seguiti dai romeni (3.609, il 14,5 percento), dai tunisini (3.144, il 12,7 percento), dagli albanesi (2.873, l'11,6 percento) e dai nigeriani (1.235, il 5 percento). Gli imputati sono 28.220, di cui oltre la metà in attesa di primo giudizio; i condannati con sentenza definitiva 37.591, gli internati 1.698, di cui 1.535 "ricoverati" negli ospedali psichiatrici giudiziari. "Il 13 gennaio 2010, giorno in cui fu dichiarato lo 'stato di emergenza' delle carceri - ricordano gli autori del report - i detenuti presenti erano 65.067 a fronte di una capienza di 44.055 posti: a distanza di quindici mesi la condizione di sovraffollamento si è ulteriormente aggravata, nonostante la creazione di 1.265 nuovi posti, poiché i detenuti sono aumentati a un ritmo doppio, precisamente di 2.533 unità.

Non solo: "la legge 199/2010 (cosiddetta 'svuota-carceri') è entrata in vigore il 16 dicembre 2010 e, in tre mesi e mezzo, ha consentito l'uscita dalle carceri con l'ammissione alla detenzione domiciliare di 1.788 detenuti (di cui 420 nel solo mese di marzo). Tra loro 430 sono stranieri e 106 donne (39 le straniere)". Le misure alternative alla detenzione rappresentano il principale strumento atto ad evitare un eccessivo affollamento degli istituti penitenziari e a favorire il reinserimento sociale dei detenuti, "ma sono fortemente depotenziate dalla legge 251/2005 (la 'ex-Cirielli'), che pone molte limitazioni alla loro applicazione nei confronti di condannati recidivi". La riprova - secondo Ristretti orizzonti - arriva dal confronto dei dati relativi all'esecuzione penale, interna ed esterna al carcere, negli anni precedenti alla "ex-Cirielli": nel 2003 i detenuti erano 56.081 mentre in misura alternativa c'erano ben 48.195 persone; nel 2004 i detenuti erano 56.064 e i condannati in misura alternativa 50.228; nel 2005 c'erano 58.817 detenuti e 49.943 persone in misura alternativa. In pratica, "la dimensione dell'esecuzione penale esterna (per effetto della 'ex-Cirielli' e di alcuni altri provvedimenti in materia di sicurezza), è tornata ad essere quella dei primi anni 90: nel 1994 c'erano 52mila detenuti e 13mila persone in misura alternativa, l'anno successivo rispettivamente 50mila e 15mila". Decisamente esigui anche i numeri dei condannati al lavoro di pubblica utilità (appena 41 in tutta Italia) e dei detenuti ammessi al lavoro esterno (423). Più consistenti quelli delle sanzioni sostitutive: 2.023 persone sono sottoposte alla libertà vigilata e 104 alla liberta' controllata. Le condizioni di disagio non riguardano solo i detenuti. Nell'ultima settimana, infatti, due agenti della polizia penitenziaria si sono tolti la vita a causa delle difficili condizioni di lavoro nelle carceri presso le quali prestavano servizio, a Caltagirone e Maome Lodè, in Sardegna.

10 aprile 2011

"Operazione estate rovente" contro Gaza: tre giorni di massacri by Israel

Gaza - Speciale InfoPal. Sabato 9 aprile è cominciato il terzo giorno di aggressioni israeliane contro la Striscia di Gaza: 17 palestinesi sono stati uccisi, decine i feriti tra cui donne e bambini.

Anche in questa ondata di attacchi, Israele ha bombardato obiettivi civili con ogni mezzo e da ogni direzione: artiglieria, elicotteri, aerei da ricognizione e droni hanno messo a ferro e fuoco il territorio palestinese assediato.

Gli ultimi attacchi hanno provocato la morte di tre combattenti delle brigate al-Qassam, ala militare di Hamas, a sud della Striscia di Gaza.
Un quarto è in gravi condizioni mentre ingenti sono i danni materiali provocati dalle offensive sferrate da Israele contro vari quartieri ad est di Gaza City, ma anche a nord della Striscia di Gaza. Un tunnel è stato completamente distrutto a Rafah e decine sono i cittadini palestinesi rimasti feriti negli attacchi delle ultime ore.

Ieri mattina cinque palestinesi sono stati uccisi a Khan Younes, a sud della Striscia di Gaza.

La sequenza di attacchi. A sud, ad est di Rafah, è stato bombardato l'aeroporto internazionale di Gaza. Qui quattro palestinesi sono rimasti feriti, mentre ad est di Khan Younes, nell'area di Kuza'ah, venivano uccisi due combattenti di Hamas, 'Abdallah al-Qara e Mu'tazer Abu Jami', entrambi ventenni.

Poi l'aviazione è tornata nei cieli di Gaza e ha mirato all'abitazione di Ibrahim Qadih, a Farahen, ad est di Khan Younes: una donna di 45 anni, Najah Qadih, è morta insieme al figlio Nidal, di 21 anni.

Quasi in contemporanea, un 55enne, Talal Abu Taha veniva trucidato sulla strada tra Rafah e Khan Younes.

Ancora: un gruppo di combattenti è stato ucciso nel pomeriggio di venerdì a est di Beit Lahiya, a nord della Striscia di Gaza. Si tratta due combattenti delle brigate al-Qassam di 27 e 23 anni, Ra'ed Shahadah e Ahmed al-Gharab.

Bombe al fosforo. Tre missili lanciati nell'area di Hajar ad-Dik, al centro della Striscia di Gaza erano al fosforo. Lo ha denunciato il ministero dell'Interno e lo hanno confermato le fazioni palestinesi.

Armi non convenzionali, proibite dal diritto internazionale, hanno provocato il ferimento e l'intossicazione di molti civili nelle offensive di ieri.

Anche i missili lanciati a Jabal ar-Rais, ad est di Gaza City, erano al fosforo come quello sganciato sulla casa della familgia Arqan, nel quartiere di Tuffah, sempre ad est di Gaza City.

Ad est del cimitero di ash-Shuja'iyah, l'artiglieria ha aperto il fuoco uccidendo Mahmud Wa'el al-Jur e un combattente delle brigate di al-Quds, ala militare del Jihad islamico, Bilal Mohammed al-'Aryr. Trasportati all'ospedale ash-Shifa insieme a una decina di feriti, i corpi delle due vittime erano irriconoscibili. Tra i feriti vi sono anche personale delle ambulanze e bambini.

Bombardamenti contro i pescherecci di Gaza. Pesanti i danni inflitti dai bombardamenti israeliani contro le barche da pesca palestinesi, in particolare nel corso degli attacchi contro le coste di Rafah e Khan Younes, a sud di Gaza.

Un'auto civile è stata colpita a Gaza City, e mentre l'autista è riuscito a mettersi in salvo, un secondo missile ha distrutto completamento la vettura.

Grave bilancio delle vittime. Tra gli attacchi israeliani cominciati giovedì 7 aprile e quelli di ieri sera, la Striscia di Gaza assediata ha subito 17 perdite in vite umane: non sono solo i cinque combattenti di al-Qassam e delle brigate al-Quds, ma anche donne, anziani e bambini. I feriti sono circa 65, 14 dei quai versano in gravi condizioni.

E mentre le fazioni palestinesi restano in bilico tra tregua e resistenza, hanno fatto sapere che il sistema Iron Drome, per l'intercettazione preventiva di razzi lanciati contro Israele, ne ha abbattuti molti.

E' ancora il 6 aprile

di Manuele Bonaccorsi e Marianna De Lellis
www.ilmegafonoquotidiano.org

La logica è sempre la stessa, quella dell’emergenza, iniziata due anni fa, la notte del 6 aprile 2009: poteri straordinari, commissari straordinari, ordinanze di urgenza, decreti commissariali. Per un anno L’Aquila è stata governata così, dal proconsole Guido Bertolaso, mettendo il turbo a un miliardo di euro di appalti, quelli del Piano C.a.s.e., le new town rivendute in decine di conferenze stampa e trasmissioni tv da Berlusconi e i suoi ministri. Anche oggi L’Aquila vive su ordinanze e decreti, firmati dal nuovo commissario Gianni Chiodi e i dai suoi collaboratori, Antonio Cicchetti (vice commissario) e Gaetano Fontana (responsabile della struttura tecnica di missione), tutti di nomina strettamente governativa. Solo che lo snellimento burocratico rivendicato da Bertolaso oggi è diventato un pletora di norme, spesso in contraddizione tra loro, incomprensibili, aggrovigliate (tanto che il commissario ha dovuto creare un “testo unico” dei suoi 51 decreti nati su altrettante ordinanze, piene di rimandi e modifiche). La burocrazia ha preso il sopravvento, e a due anni dal sisma la ricostruzione vera, quella “pesante”, che riguarda le case gravemente danneggiate, non è ancora iniziata. Né è prossima a partire. A giugno dovrebbero scadere i tempi per la presentazione delle domande di ricostruzione ma tutti sanno che la scadenza sarà prorogata, almeno fino a dicembre 2011. Quanto al centro storico, uno che se ne intende, il presidente dell’Ordine degli ingegneri, la mette così: «Siamo all’asilo e voi volete parlare dell’università...».

Tra norme incomprensibili, regole che cambiano in corsa, rimpalli di responsabilità, a L’Aquila non si sa chi deve fare cosa. E due anni dopo il sisma ci sono ancora 38.078 cittadini assistiti, una montagna di macerie misurata in un range tra 3,6 e 4,2 milioni di tonnellate, raccolte al ritmo di 600 al giorno: ci vorranno 20 anni per rimuoverle, senza contare i calcinacci prodotti dai lavori di ristrutturazione degli edifici, circa 15mila, rimasti in piedi per miracolo. Una recente ordinanza commissariale ha assegnato il compito di rimuoverle a Vigili del fuoco ed esercito, dando pieni poteri a un soggetto attuatore di nomina commissariale, suscitando le ire del Comune: «Ci hanno tolto tutta la governance della ricostruzione, vogliono creare una situazione ingovernabile », ha ribattuto l’assessore all’Ambiente Alfredo Moroni.

LEGGI TUTTO

09 aprile 2011

Libia, Chomsky: "Un intervento neo imperiale"

La spietata demistificazione storica fatta dal linguista, filosofo e dissidente americano della nuova "guerra umanitaria" lanciata dagli Usa e le potenze occidentali

di Patricia Lombroso

New York, 09 aprile 2011 – «L’attacco militare alla Libia da parte del triunvirato imperiale di Gran Bretagna, Francia e Stati uniti e dei riluttanti “volenterosi” non ha nulla di “umanitario”. È una guerra, punto e basta. Le motivazioni addotte dai leader politici ed opinionisti per questo intervento invocando scopi “umanitari” è inesistente, perché ogni ricorso alla violenza militare viene da sempre giustificata, anche dai peggiori mostri come Hitler, per autoconvincersi della verità di quanto asseriscono.

Basti pensare a Mussolini, quando invase l’Etiopia. I massacri della popolazione civile vennero vantati «per apportare I benefici della civilizzazione alla popolazione oppressa e l’apporto diun futuro meraviglioso». Questo sarebbe quello che chiamiamo umanitario? Anche Obama può credere che la motivazione dell’intervento militare in Libia è a scopi “umanitari”. Ma un quesito essenzialee molto semplice da porsi sulle reali motivazioni per l’intervento militare in Libia è un altro. Questi nobili intenti espressi dal triunvirato imperiale che si definisce “intervento umanitario e alla responsabilità di proteggere le vittime” è diretto alle vittime dei brutali crimini da loro commessi, oppure dei crimini commessi dai loro fedeli clienti? Ha Obama, per esempio,invocato la no-fly zone durante la criminale e distruttiva invasione del Libano da parte di Israele nel 2006, e da loro appoggiata? Non ha forse Obama strombazzato con vanto, durante la sua campagna elettorale, che in Senato aveva sottoscritto l’invasione israeliana del Libano con la richiesta di punizioni per l’Iran e la Siria per essersi espressicontro?». È con questa spietata demistificazione storica che Noam Chomsky, linguista, filosofo e storico oppositore americano, apre l’intervista al Manifesto sulla guerra in Libia.

Quali sono le violazioni commesse da quello che lei chiama «triunvirato imperiale», subito dopo aver ottenuto la Risoluzione l973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con il mandato addotto «di proteggere la popolazione degli insorti in Libia da una imminente carneficina delle forze di Gheddafi»?

La Risoluzione delle Nazioni Unite approvata dai membri della Coalizione e dai reticenti «volenterosi» con ampio mandato, invocava «sforzi umanitari per evitare che le forze militari di Gheddafi entrassero a Bengasi per evitare una carneficina». La Coalizione del triunvirato, ignorando in toto il mandato, si è precipitata immediatamente ad agire ben oltre le dichiarazioni espresse nella Risoluzione Onu, anzi interpretandola come una autorizzazione istituzionale ad una diretta partecipazione militare schierata a favore degli insorti. Fornendo loro appoggio militare con i bombardamenti della Nato, ben consapevoli così di mettere al sicuro le maggiori riserve di petrolio libico in quella parte del paese, cioè in Cirenaica. La Risoluzione l973 non fa affatto menzione della licenza di schierarsi dalla parte degli insorti libici. In secondo luogo, la decisione intrapresa dalla Coalizione nella dichiarazione d’intenti del mandato Onu viola «l’embargo di armi interne ed esterne al paese» da essi stessi sottoscritta alle Nazioni Unite, nel momento in cui si deciderà, e si sta decidendo, di armare gli insorti. Questo comporta inevitabilmente l’invio di forze militari da combattimento in Libia per l’addestramento degli insorti, disorganizzati e privi di efficiente munizionamento per contrastare le forze di Gheddafi. Di fatto, il triunvirato imperiale costituito da Francia, Gran Bretagna e Stati uniti è direttamente partecipe e coinvolto nella guerra civile in Libia. Se questo era l’intento vero, è bene che lo si sappia. Chiamiamo tutto questo «umanitario»?

Qual è il reale obiettivo di Sarkozy e di Cameron? C’è anche un riscontro interno che loro hanno ricercato, in Francia e in Gran Bretagna?

Proprio questo sospetto. Che la guerra in Libia venga usata come diversivo per la politica interna, visto anche il crollo ai minimi storici della loro popolarità.

Quanto conta la questione del prezioso petrolio libico?

Il controllo delle risorse petrolifere della regione mediorientale resta il movente principale per le potenze occidentali. Ma in termini nuovi e particolari. Gli europei in particolare non sono tanto preoccupati dall’accesso alle riserve petrolifere libiche, quanto al controllo di quelle ancora in mano a Gheddafi ormai non più affidabile. Ricordiamoci che sino a poche settimane fa intercorrevano splendidi rapporti di scambio commerciale e di furniture di armi tra Stati uniti, potenze occidentali come Francia e Gran Bretagna e Gheddafi. Un altro fattore che risulta da documenti ufficiali sia degli Stati uniti sia della Gran Bretagna, è l’enfasi ribadita del timore costante che nel mondo arabo possa prendere piede un nuovo «virus nazionalista» di stampo neo-nasseriano. Il rischio sarebbe quello di veder orientare o sottomettere i profitti delle riserve petrolifere verso le richieste socioeconomiche delle proprie popolazioni.

Se sussiste per le potenze occidentali il rischio del «virus nazionalista» e del controllo delle riserve petrolifere, come influirà il caso della Libia sul mondo arabo tantopiù in rivolta contro i propri regimi?

Un dittatore affidabile o clientelare non si tocca. Di fatto non c’è stata nessuna reazione né imposizione della no-fly zone da Washington quando la dittatura saudita è intervenuta solo venti giorni fa in Bahrein, massacrando la popolazione che insorgeva per le riforme. Il Bahrein è uno stato fondamentale, geostrategico per gli Stati uniti. Lì è alla rada la Quinta Flotta Americana del Golfo. Negli stati dove le risorse di idrocarburi non abbondano, la tattica perseguita è sempre la stessa: per gli Stati uniti, quando il dittatore-cliente è nei guai lo si appoggia e lo si sostiene fino a quando è possibile. Quando non è piu possibile ecco che segue una pletora di dichiarazioni ispirati all’amore per la democrazia e dei diritti umani. Il tentativo ultimo è quello del salvataggio del regime del dittatore diventato scomodo. La casistica è noiosamente familiare: Duvalier, Marcos, Ceaucescu,Mobutu, Suharto ed oggi Tunisia ed Egitto. La Siria per ora non presenta alternative che possano far comodo agli obiettivi che stanno a cuore agli Stati uniti. In Yemen un intervento militare creerebbe maggiori problemi a Washington. Così tutti gli esercizi di violenza cui stiamo assistendo con massacri della popolazione in rivolta, sollecita soltanto pietose dichiarazioni in nome della «democrazia» e dei diritti umani.

Come pensa andrà a finire in Libia e quali prospettive restano alle primavere del mondo arabo?

Nessuno è in grado di prevedere sino a quando sarà possible reprimere movimenti popolari nello scontro col potere costituito. Possiamo soltanto comprendere perché questo avvenga. In Tunisia ed Egitto il vecchio regime è piu o meno vigente, senza l’apporto di salienti cambiamenti socioeconomici a favore dei movimenti popolari, con piccole vittorie seppure molto importanti. Quanto alla Libia, che è una caso molto diverso, dopo l’intervento «umanitario» del triunvirato occidentale è prevedibile una spartizione del paese in due parti: una parte in mano agli insorti, ricca di riserve petrolifere con giacimenti sul territorio ancora non sfruttato, fortemente dipendente dalle potenze imperiali dell’occidente; ed un’altra parte che resta con un Gheddafi depauperato del suo potere. E in una Libia di fatto più impoverita. Una volta assicurato il controllo dei pozzi petroliferi potremmo trovarci dinanzi ad un nuovo «emirato libico», quasi disabitato, protetto dall’Occidente e molto simile geostrategicamente al resto degli emirati del Golfo Persico.

Caso Saturno, spunta un pestaggio


di Christian Elia www.peacereporter.net
La foto di Carlo Saturno che tutti i giornali pubblicano in questi giorni è un atto di accusa. Scritto in quello sguardo di una tristezza offensiva, per i suoi ventidue anni e per tutto quello che la società italiana non riesce a garantire a se stessa, ai suoi cittadini. Una solitudine tagliente, senza speranza.
Non serve essere cresciuto a Manduria per sapere che Carlo è uno come tanti, di quelli che giocano a pallone con te da quando sei ragazzino. E poi, magari, uno fa il poliziotto e l'altro il ladro. Un bivio molto più casuale di quello che raccontano. Carlo si è trovato, bambino rubato alla sua età, nel carcere minorile di Lecce per furto. In quegli anni ha subito vessazioni criminali. Proprio nelle braccia di quello Stato che non ha saputo dare a lui e a molti altri un futuro. Carlo denuncia, ancora in carcere, a Bari questa volta. Carlo è stato trovato agonizzante, nella cella, il 1 aprile scorso.
Tentativo di suicidio, è stata la prima ricostruzione. Ma la situazione pare essere più complessa di così.
I pm Isabella Ginefra e Pasquale Drago, della Procura di Bari, hanno in mano l'inchiesta e sono decisi ad andare fino in fondo. Secondo le prime indagini, il giorno prima del ritrovamento di Carlo ormai privo di coscienza, il ragazzo avrebbe subito un duro pestaggio dalle guardie carcerarie del penitenziario di Bari. I primi ad avanzare dei dubbi sulla dinamica della ricostruzione delle prime ore, secondo la quale Carlo si sarebbe impiccato in cella, con un lenzuolo, sono stati i medici del reparto Rianimazione del Policlinico di Bari. Per la perizia della Procura, a cura del professor Introna, i segni sul collo di Carlo sarebbero compatibili sia con un atto autolesionista che con un'aggressione.
Come detto sia il 30 marzo, quando Carlo sarebbe stato portato in isolamento, anche se non ci sono conferme, sia il 29 marzo il ragazzo ha avuto violenti diverbi con gli agenti del carcere. Un quadro fosco, che richiede la massima chiarezza. ''In tanti anni di attività con l'associazione raramente ci era capitato un caso così drammatico'', racconta Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone, nata nel 1991 perla tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale.
''Non sappiamo con certezza se fosse in isolamento, ma sappiamo con certezza che è stato abbandonato. Hanno abbandonato un ragazzo che credeva nello Stato e lo dimostra il fatto che si è costituito parte civile nel processo di Lecce - spiega Gonnella - Non sappiamo ancora se si è suicidato, la magistratura farà chiarezza. Ma resta una storia di abbandono di un ragazzo con tutte le problematiche nate dal coraggio dimostrato nel denunciare abusi e violenze, che vengono rubricate così solo perché nell'ordinamento italiano non esiste il reato di tortura''.
Il processo ai nove agenti del carcere minorile di Lecce, denunciati da Carlo, non va avanti.
''Peggio, molto peggio. L'udienza è stata fissata oltre i limiti della prescrizione del reato, un atto indecente. La sua memoria è stata già cancellata. Che almeno adesso ci sia chiarezza, in assenza di giustizia'', risponde Gonnella. La famiglia di Carlo, per ora, tace e si affida all'avvocato Tania Rizzo di Lecce. ''Non ho nulla da dire, per ora'', spiega il legale. "La direzione del carcere di Bari dovrà darci dichiarazioni ufficiali, intanto ci costituiremo nel procedimento che la Procura ha aperto per seguire meglio le indagini''.
Aspettare, dunque. Mentre di Carlo e dei suoi ventidue anni, per ora, resta un referto medico gelido. Residui di attività elettrica registrati dall'elettroencefalogramma. Tra la vita e la morte, appeso a un filo. Solo.

03 aprile 2011

Un cedimento gravissimo alla Confindustria e alla Fiat

nota di Giorgio Cremaschi sul documento della Segreteria della Cgil sulla riforma del sistema contrattuale

Premessa
La segreteria della Cgil ha emesso un documento sulla riforma del sistema contrattuale che rappresenta una svolta negativa sul piano della politica contrattuale e delle scelte di fondo della confederazione.
Il documento si apre con un giudizio incredibilmente ottimistico sullo stato della contrattazione, un giudizio peraltro contraddetto da quanto successivamente affermato sui rischi di balcanizzazione del sistema contrattuale. La segreteria della Cgil afferma che ben 83 contratti nazionali su 89 sono stati siglati in maniera unitaria, concludendo così che la Cgil e la maggioranza delle imprese si trovano d’accordo sulle scelte contrattuali di fondo. Peccato però che anche la Confindustria, nelle sue punte più aggressive, sottolinei questo dato e lo faccia come una conferma delle proprie posizioni, a partire da quelle che hanno portato all’accordo separato del gennaio 2009 sul sistema contrattuale. Ancor più grave però è la contabilità numerica dei contratti, a prescindere dalla dimensione dei lavoratori interessati. I metalmeccanici, tutti i lavoratori pubblici, tutti i lavoratori del commercio, a cui il documento non fa alcun cenno, sono oggi sotto il regime di accordo separato. Sono più di 7 milioni di lavoratori dipendenti, cioè la maggioranza dei lavoratori soggetti a contratti nazionali.

L’analisi della segreteria è dunque profondamente sbagliata, priva di contatto con la realtà, e unicamente strumentale al fine di dimostrare che quanto avvenuto in Fiat, tra i metalmeccanici, tra i lavoratori pubblici e del commercio, è una piccola eccezione che non contraddice la tendenza positiva di fondo. Ci si inventa, così, una convergenza tra sistema delle imprese e Cgil, che non è nei fatti, ma che è quello che si vuole in realtà ottenere.

Riassumiamo qui i punti che caratterizzano il documento e le nostre principali critiche.
1.Il documento fa un'analisi pasticciata e confusa della crisi e delle condizioni di lavoro. Sostanzialmente l’unico problema che viene definito è quello della crescita e della produttività, con una sottolineatura sulla quale davvero la Confindustria non potrebbe che convenire. Manca un’analisi dello stato dell’economia, delle tendenze di fondo, degli obiettivi produttivi economici e sociali del sindacato. La riforma della contrattazione che si vuole rivendicare è un puro atto burocratico che non ha dietro alcun progetto sociale, economico e produttivo. Si tratta solo di fare la pace con gli imprenditori e con Cisl e Uil, dopo una serie di microconflitti che possono essere superati con la buona volontà.

2.Come dicevamo, improvvisamente da questa analisi confusa e minimalista, emerge la necessità della riforma contrattuale per impedire “la balcanizzazione”. Perché ce n’è tanto bisogno, se la stragrande maggioranza dei contratti è unitaria? La spiegazione che viene data è che bisogna evitare una non meglio precisata “entropia” nei luoghi di lavoro e costruire un sistema che ricostruisca l'unità tra le organizzazioni sindacali. Si dice così che bisogna costruire una riforma del sistema contrattuale che renda validi per tutti e unitari gli accordi. Per fare questo si propone a Cisl e Uil di “mettere da parte le divisioni del passato”, questo perché evidentemente si pensa che oggi divisioni non ci siano più. Si abbandona totalmente così la necessità di una vera democrazia sindacale, non si parla più del referendum, neanche nei termini minimalistici con cui era affrontato nel documento sulla democrazia e sulla rappresentanza approvato dall'ultimo Comitato Direttivo e si riduce il tutto alla definizione di procedure per cui i sindacati più rappresentativi partecipano tutti ai contratti e trovano le forme per disciplinare i loro dissensi. Non c'è la riforma della Rsu e non c'è il diritto per le lavoratrici e i lavoratori di votare con il referendum sulle piattaforme e sugli accordi. Nella sostanza, si va a un sistema burocratico e centralizzato di amministrazione della contrattazione. Paradossalmente più si auspica un decentramento della contrattazione, più si centralizza nella confederazioni il controllo dall'altro sui comportamenti sindacali. Frantumazione della contrattazione e centralizzazione burocratica e sindacale si accompagnano assieme.

3.Con queste premesse la riforma del sistema contrattuale che viene proposta corrisponde sostanzialmente a quanto auspicato dalla Confindustria, da Cisl e da Uil. I contratti nazionali dovranno essere più leggeri e “meno prescrittivi”. In questo modo non ci sarà più bisogno delle deroghe, perché sarà la leggerezza stessa, cioè la debolezza del contratto nazionale, a far sì che, azienda per azienda, territorio per territorio, ognuno faccia quello che vuole. La contrattazione nazionale riduce drasticamente la sua funzione. Si passa ai contratti cornice, che accorpano anche più settori, di cui hanno sempre parlato la Confindustria e la Cisl. Lo scopo del tutto è quello di ottenere una produttività aziendale più ampia e una più equa distribuzione del reddito. Da questo punto di vista gli stessi scopi dell'accordo del 23 luglio 1993, di cui questo documento rappresenta una revisione al ribasso, sono abbandonati. Non ci sono obiettivi sociali di fondo, l'unico vero obiettivo è quello dell'aumento della produttività e, grazie ad esso, della possibilità per i lavoratori di avere qualcosa di più.
Si apre all'introduzione generalizzata degli Enti bilaterali, salvo la cautela di affermare che non potranno occupare funzioni dello Stato. Cosa che non vuol dire assolutamente nulla, visto che è lo Stato stesso che sta definendo le funzioni che delega agli Enti bilaterali.

4.Dal punto di vista dei principi concretamente enunciati, il testo è molto più prescrittivo di quanto si annuncia nelle premesse. Infatti:

- il contratto nazionale non potrà più aumentare le retribuzioni. Suo compito è solo tutelarne il valore reale rispetto all'inflazione, tenendo però conto della competitività e dell'andamento dei settori. Per la prima volta, cioè, la Cgil si dichiara disponibile a calare il salario reale dei lavoratori in caso di crisi. Questo è l'esatto rovesciamento dell'interpretazione Cgil dell'accordo del 23 luglio, quando si diceva che nei contratti nazionali si poteva rivendicare il recupero dell'inflazione più l'andamento positivo di settore. In questo caso l'andamento di settore, se negativo, viene sottratto al recupero dell'inflazione. Si può così passare a contratti nazionali che non incrementano nemmeno formalmente le retribuzioni.
- L'inquadramento professionale viene sostanzialmente devoluto ai livelli aziendali, senza definire principi e linee guida. Questo apre la via, come da tempo chiede la Cisl, alla balcanizzazione vera delle collocazioni professionali e alle paghe di posto.
- Gli orari di lavoro “massimi” vengono sì assegnati al contratto nazionale, ma manca nel documento l'aggettivo “settimanali”. Nella sostanza, si apre all'orario flessibile annuale, come si è già fatto nel documento sui tempi di lavoro delle donne.
- Si introduce nel contratto nazionale il concetto di esigibilità delle flessibilità, quello per cui la Fiat, a cui fa eco la Federmeccanica, pretende sanzioni individuali e collettive. Naturalmente non si arriva fino a quel punto, anzi si escludono, forse, le sanzioni individuali, ma resta l'accettazione del principio.
- Tutto il resto va alla contrattazione aziendale, territoriale, eccetera, che lo scopo essenziale di incrementare produttività e redditività delle imprese e, solo per questa via, quello di redistribuire reddito.

La sintesi è che il contratto nazionale perde definitivamente il suo valore di strumento di promozione generale dei lavoratori. In realtà non è nemmeno più un vero contratto nazionale: è semplicemente un sistema di regole esigibili, con il sindacato nazionale cane da guardia di tutti i comportamenti sindacali e contrattuali, ai vari livelli. Per queste ragioni anche il livello aziendale in realtà non esiste, il secondo livello è solo una sede nella quale adattare i lavoratori alle esigenze di produttività delle imprese. L'autonomia rivendicativa è cancellata ad ogni livello, mentre la centralizzazione delle relazioni sindacali è totale.

6.Si dà un contentino alla Cisl, come se non bastasse, sulla partecipazione. Infatti, oltre ai soliti temi che potrebbero prefigurare, però non viene detto, un ritorno al modello partecipativo previsto dal vecchio protocollo Iri, peraltro disdettato dalla Confindustria, si apre la via a una non meglio precisata partecipazione dei lavoratori “all'amministrazione”. Forse qui non si è avuto il coraggio di scrivere chiaramente “partecipazione ai consigli d'amministrazione”, cioè l'azionariato, che peraltro non viene respinto. Ora, se la partecipazione all'amministrazione di un'azienda non è il coinvolgimento del sindacato nell'ufficio paghe, bisogna chiarire meglio di che si tratta. La verità è che si vuole semplicemente far capire ai sindacati con cui si sono avute divisioni nel passato che ci si può mettere d'accordo su tutto.

7.Il documento si conclude con il ritorno formale alla concertazione. Cosa diranno quegli esponenti di “Lavoro e Società” che avevano spiegato a tutto il mondo che stavano con la maggioranza congressuale perché era definitivamente superata la concertazione? Niente, suppongo, ma al di là di questo la sostanza è che la Cgil scrive nella maniera più brutale che si deve tornare alla concertazione, nella quale tutti i partecipanti sono vincolati nei comportamenti una volta sottoscritti gli accordi. Non bastava l'esigibilità aziendale, adesso si realizza anche l'esigibilità confederale. E' chiaro che anche per questa via c'è una drammatica regressione nell'iniziativa autonoma del sindacato confederale. In ogni caso sorge una domanda: qual è l'obiettivo economico, sociale, produttivo di una nuova concertazione? Nel documento non viene indicato, quindi la concertazione diventa un valore in sé.

Conclusioni
Il documento che è stato prodotto dalla segreteria Cgil è un gravissimo cedimento alle posizioni espresse finora dalla Confindustria, dalla Cisl e dalla Uil. Anzi è sostanzialmente un'accettazione del terreno proposto da queste organizzazioni. Certo non si arriva agli estremi autoritari imposti dalla Fiat, ma si dà una risposta che va nella loro direzione.
In questo documento non c'è un progetto sociale, non c'è un progetto di emancipazione del lavoro e di sviluppo industriale, non c'è un programma economico, c'è solo un adeguamento della Cgil all'ideologia aziendalista del salario legato alla produttività e alla centralizzazione burocratica delle relazioni sindacali.
E' una svolta negativa che indica come la proclamazione dello sciopero generale sia vissuta dal gruppo dirigente della confederazione come un atto di testimonianza, come una parentesi rispetto a un percorso che deve portare al ripristino della concertazione e dell'accordo totale con Confindustria, Cisl e Uil. In questo senso il documento rende fragilissime anche le contestazioni della Cgil al Governo. Il documento infatti non è molto diverso dai punti di fondo di riforma contrattuale, più volte affermati nei vari libri bianchi del ministero del Lavoro. D'altra parte un accordo di riforma contrattuale e di concertazione ora non si potrebbe che fare con la Confindustria, la Cisl, la Uil e il governo Berlusconi. Ancora una volta si dimostra che la linea prevalente in Cgil, conflitto con il Governo e non con la Confindustria, finisce per portare al cedimento verso entrambi.
Il documento della segreteria sulla riforma contrattuale va contrastato a fondo, per questo è necessario che in tutta l'organizzazione, fino ai luoghi di lavoro, i militanti, gli iscritti, le lavoratrici e i lavoratori possano discutere su un progetto alternativo.

Giorgio Cremaschi

Contro le guerre e le dittature! Sostegno alle rivolte arabe, solidarietà alle/ai migranti!

La politica di guerra – guidata da governi europei e Stati uniti, con la preziosa collaborazione dei governi “moderati” di Arabia saudita, Emirati arabi, Qatar... – ha due facce in questi giorni: da una parte i bombardamenti sulla Libia e le altre misure militari, dall’altra la repressione di profughi e migranti, con il corollario di una retorica razzista sparsa a piene mani.
Le persone che si rivoltano e rivendicano libertà e democrazia, ipocritamente sostenute una volta che da sole hanno sconfitto i regimi appoggiati dagli stessi governi occidentali, una volta arrivati da questa parte del Mediterraneo sono considerati clandestine, illegali, destinate ad essere rinchiusi in tendopoli precarie, pronte ad essere identificati per decidere nel frattempo che fare di loro: espellerli per rispedirli da dove sono arrivati oppure riconoscergli lo status temporaneo di profugo, magari per qualche mese o anno… oppure renderli funzionali alle esigenze dell'economia di mercato dell’occidente “democratico”, con qualche posizione precaria, “clandestina”, ricattabile.

Il governo italiano è come sempre in prima fila nelle politiche di “respingimento” – fin dai tempi della nave affondata militarmente (D’Alema presidente del consiglio), fin dai respingimenti in mare contro ogni norma internazionale, per arrivare agli accordi con i dittatori (i “pazzi” come Gheddafi, o più presentabili come Ben Alì) perché facessero il lavoro sporco per l’Italia e l’Unione europea, attraverso la costruzione di campi di concentramento sul suolo africano e il pattugliamento marino.
Oggi gioca con la vita e la dignità delle persone, creando la “emergenza” Lampedusa per poter gridare all’invasione, per poter ribadire la parola d’ordine “fuori dalle balle” (come dichiara il sempre elegante Umberto Bossi), per poter giustificare l’intervento militare e allo stesso tempo una rinnovata presenza di controllo del Mediterraneo. La visita elettorale di Berlusconi rappresenta oggi l’ennesima presa in giro del “partito del fare” che vuole buttare fumo in faccia a lampedusane/i e opinione pubblica italiana.
Emergenza? Come ci indica il Forum dei diritti economici e sociali tunisino “la Tunisia ha affrontato questa emergenza, basandosi sui propri mezzi e attraverso una campagna di solidarietà attivata soprattutto dai cittadini tunisini senza nessuna lamentela e senza chiedere alcun aiuto alla comunità internazionale, ai cittadini, agli Stati o agli organismi internazionali”.

Il nostro deciso no alla guerra e all’intervento militare è anche un deciso sostegno alle rivoluzioni arabe – associandoci alle richieste che dall’interno di quei paesi chiedono l’interruzione dell'attuazione degli accordi sulle questioni migratorie, accordi stipulati con gli ex-regimi dittatoriali contro i diritti dei loro stessi cittadini - e un impegno di lotta contro lo “status” di clandestino riconoscendo a tutte/i la libertà di circolazione, affinché scompaia una volta per tutte il permesso di soggiorno a tempo vincolato al contratto di lavoro. Solo così alla reale cittadinanza si unisce la rottura col meccanismo che consente lo sfruttamento di manodopera a basso costo, da utilizzare come merce, ad uso e consumo di chi estorce lavoro altrui per arricchirsi sempre più. È una battaglia contro la precarietà della cittadinanza dei migranti imposta dall’Europa, per il riconoscimento del permesso di soggiorno per tutti, non temporaneo e ad intermittenza.

Per quanto riguarda l’attuale “emergenza” italiana vogliamo che i migranti imprigionati a Lampedusa e in altre tendopoli e simili precarie sistemazioni siano lasciati liberi di trasferirsi nelle altre regioni italiane dove si possano offrire loro condizioni di vita che rispettino la dignità umana, e protezione secondo quanto stabilito dalle leggi internazionali.
Il movimento contro la guerra che con lentezza sta riprendendo la parola e le piazze – in particolare con le molte iniziative del prossimo 2 aprile a cui partecipiamo con convinzione - dovrà costruire anche un’iniziativa di solidarietà con le/i migranti e contro le politiche razziste del governo italiano e dell’Unione europea.
Intanto i circoli di Sinistra Critica si rendono disponibili all’accoglienza e all’attivazione di reti di sostegno e protezione per i migranti che riusciranno sfuggire a queste prigioni neo-coloniali

Esecutivo nazionale Sinistra Critica