31 agosto 2011

Ci vogliono morti, dobbiamo fermarli


Sotto l’auspicio del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con il consenso “bipartisan” della minoranza parlamentare di centrosinistra e con un pressing costante di Marcegaglia, Marchionne, Montezemolo e poteri forti di questo paese,il governo Berlusconi si appresta al dibattito parlamentare per varare la “supermanovra “ di Ferragosto probabilmente modificata, certamente peggiorata.
Quello che tutti vogliono, in nome della “coesione sociale” e praticando di fatto una nuova versione dell’unità nazionale di altri tempi è far pagare il conto della crisi capitalistica alle classi popolari, utilizzando le politiche liberiste di risanamento del debito per spianare quello che resta delle conquiste del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici.
La regia dell’operazione è affidata alla Bce e agli esponenti dell’Unione Europea, l’esecuzione ai governi nazionali, siano essi di centrosinistra o di centrodestra.
Di fronte a questa nuova fase dell’austerità in Europa e nel nostro paese, di fronte alla prospettiva di un vero e proprio massacro sociale per le classi subalterne la risposta non può che essere quella della radicalizzazione del conflitto e del coordinamento delle forze che ne vogliono essere protagoniste su scala europea.
In Italia il 6 settembre può diventare la giornata di avvio di un percorso di radicalizzazione della mobilitazione contro la “supermanovra” e le politiche di austerità.
La Cgil, da una parte, ha proclamato lo sciopero generale di 8 ore in tutte le categorie per “modificare una manovra ingiusta e iniqua” in concomitanza con l’arrivo del decreto al Senato; dall’altra Usb e altri sindacati di base lanciano anch’essi otto ore di “sciopero generale e generalizzato” nella stessa giornata contro la “dittatura delle banche e dell’Unione europea”, aggiungendo tra le rivendicazioni della propria piattaforma il rifiuto, sacrosanto, dell’Accordo interconfederale del 28 giugno- che cancella praticamente il contratto nazionale e la possibilità per i lavoratori di scegliersi una rappresentanza sindacale- e la rottura con qualunque ipotesi di “patto sociale”.
La Cgil si trova tra la spada del “patto sociale” di cui si è fatta complice con l’accordo del 28 giugno e poi con la “camera delle corporazioni” insieme alla Confindustria, e la parete della rabbia sorda che cresce contro questa manovra tra i propri iscritti e moltissimi delegati e quadri sindacali .La scelta di una parte importante del sindacalismo di base di convergere sulla scadenza del 6 settembre, mantenendo la propria autonomia di iniziativa, non può che accentuare e rendere più visibile la contraddittorietà dell’orientamento della Cgil, favorendo nello stesso tempo la costruzione di una unità d’azione nei fatti che aiuta la resistenza dei lavoratori e delle lavoratrici alla manovra “lacrime e sangue”.
Per questo, la giornata del 6 settembre può diventare la prima occasione di una lunga stagione di lotte per mettere insieme il movimento dei lavoratori nelle sue diverse articolazioni con i movimenti sociali che in questi mesi sono stati protagonisti delle battaglie per il cambiamento in questo Paese: dal “popolo dell’acqua”, ai giovani precari, dagli studenti al movimento delle donne.
Dallo sciopero generale, e generalizzato, si può aprire un percorso tratteggiato dalle scadenze già proclamate, che miri alla costituzione di un fronte di tutte le opposizioni politiche e sociali: l’Assemblea nazionale convocata a Roma il 10 settembre da movimenti, forze sociali, sindacali, soggetti politici; ma anche la manifestazione dello stesso 10 settembre con proposta di “accampamento” a piazza San Giovanni. Dall’appuntamento del 1 Ottobre lanciato da quasi 1500 lavoratori, precari, delegati e militanti sindacali che hanno aderito all’appello “Dobbiamo fermarli” fino al 15 ottobre che, sull’onda dell’appello degli “indignados” spagnoli può diventare un grande appuntamento di lotta nazionale a Roma.
Ma il quadro nazionale non basta, occorre coordinare le forze anche sul piano europeo. Per questo diventa molto importante la manifestazione europea prevista per il 1 novembre a Nizza contro il vertice del G20 verso la quale ci impegniamo a costruire un’ampia alleanza sociale e politica.
Il nostro obiettivo, nel difficile contesto di crisi che ci viene scaricata addosso, è quello di allargare e unificare il conflitto sociale,a partire da “Comitati unitari di lotta” contro la “supermanovra” organizzati da forze sociali, sindacali e politiche capaci di coordinarsi tra loro, rendendo durevole nel tempo e socialmente radicato un conflitto che non potrà spegnersi con i primi freddi dell’inverno.
Pensiamo, ancora, che sia giunto il tempo di delineare una via d’uscita alternativa da questa “crisi del debito”, partendo dal rifiuto di riconoscerlo e di pagarlo e indicando una serie di misure che concretizzino due vecchi slogan mai tanto attuali quanto in questo momento: “Noi la crisi non la paghiamo” e “facciamo pagare chi non ha mai pagato”: il grande capitale, la rendita finanziaria e le nomenklature di faccendieri, politicanti e arricchiti al loro servizio. Serve una patrimoniale sulle fortune accumulate nel tempo, serve la nazionalizzazione delle banche, una verifica reale sulla consistenza e la qualità del debito. E poi misure sociali dopo decenni di stangate e manovre: un reddito sociale, l’istituzione del salario minimo, la riduzione dell’orario di lavoro, un piano di servizi sociali pubblici e autogovernati, un piano di risanamento ambientale a partire dai bisogni delle popolazioni e non dal profitto, la drastica riduzione delle spese militari.
Sinistra Critica mette a disposizione di questo progetto le proprie forze e si impegna fin da ora a costruire la massima partecipazione possibile alle diverse manifestazioni di massa che ,sul piano territoriale, concretizzeranno le diverse convocazioni sindacali dello sciopero generale del 6 settembre.
Con la consapevolezza che “ questo non è che l’inizio,bisogna continuare la lotta”.

Sinistra Critica- Esecutivo nazionale
Roma 26 Agosto 2011

24 agosto 2011

Libia: chi ha vinto?


di Antonio Moscato

In attesa di tradurre una complessa riflessione di Gilbert Achcar sulla rivoluzione libica nel contesto di quella araba, ne traggo alcuni spunti per alcune mie osservazioni.Prima di tutto, sulla stampa italiana, anche di centro sinistra (Manifesto compreso) c’è stata una notevole prevenzione nei confronti dei ribelli, di cui è stata sottolineata sistematicamente l’inferiorità militare alle truppe di Gheddafi, la non omogeneità, la possibile presenza al loro interno di islamisti radicali mimetizzati. Nella sinistra radicale influenzata dal giudizio di Chávez si è poi dato subito per scontato che i ribelli fossero tutti marionette manovrate dalla CIA.Pochi hanno notato un dato molto interessante: l’impegno militare della NATO (si fa per dire) è stato insignificante. Nel solo piccolo Kosovo, gli alleati sotto copertura NATO erano intervenuti con 1.100 aerei e 38.400 missioni. In Libia hanno utilizzato solo 250 aerei in 11.107 missioni. Eppure il petrolio della Libia, di ottima qualità, doveva rendere più interessante la conquista di questo paese. Risultato: Gheddafi ha resistito cinque mesi, mentre Milosevic aveva dovuto cedere dopo 78 giorni.In Iraq, sia nella prima guerra del 1991, sia nella seconda erano state scaricate in pochi giorni una quantità enorme di bombe di ogni genere, con una media di 565 missioni al giorno, mentre in Libia sono state in media solo 57 al giorno, di cui alcune solo esplorative.Le accuse ai ribelli di volere la spartizione del paese, sono risultate del tutto infondate: sono caduti a migliaia per liberare tutto il paese, senza avere un adeguato appoggio aereo, e in certi casi subendo anzi il “fuoco amico”. Fino all’ultimo Gheddafi ha mantenuto armi pesanti, carri armati, missili Scud, con una netta superiorità sugli insorti male armati, in genere civili improvvisatisi combattenti e non sufficientemente addestrati ed equipaggiati. È impossibile che l’intervento della NATO “non sia riuscito” a ridurre drasticamente il potenziale bellico del governo di Tripoli. E allora? E soprattutto perché la NATO ha rifiutato di fornire le tanto sollecitate armi pesanti e delle attrezzature un po’ più efficienti del furgone con una mitragliatrice montata nel cassone?È assurdo che mentre in Iraq e in Afghanistan gli Stati Uniti hanno puntato su forze locali poco affidabili, in Libia la NATO (con la parziale e non significativa eccezione della Francia) ha rifiutato di fornire l’armamento che avrebbe permesso una soluzione libica del conflitto. Eppure gli insorti erano disposti a pagare le armi, e avrebbero potuto farlo senza problemi, controllando la maggior parte delle risorse petrolifere del paese. Al contrario negli ultimi anni Gheddafi aveva potuto comprare in grandi quantità da vari paesi europei, come l’Italia o la Spagna, le armi (comprese le bombe a grappolo) che ha poi usato contro il suo popolo.Vari corrispondenti hanno segnalato il malumore che regnava tra i combattenti volontari per l’inadeguatezza dei bombardamenti, che attribuivano in genere a inefficienza o incompetenza dei piloti Nato, ma che probabilmente era dovuta alla volontà di far logorare le forze dei due schieramenti, per evitare che gli insorti potessero rivendicare il loro ruolo nella caduta del regime.Un altro elemento di riflessione: anche se la partita non è ancora chiusa, è stato confermato che la rivoluzione aveva consensi non solo a Bengasi, ma anche a Tripoli, dove era stata repressa spietatamente. In realtà era emerso già nei primi giorni e poi era stato rimosso. L’atteggiamento iniziale di molti degli insorti di Bengasi a favore dell’intervento NATO, che era sbagliato, ma comprensibile, partiva dall’esperienza della ferocia della repressione di Gheddafi nei confronti dei “ratti” e dei “drogati” che lo contestavano, oltre che dall’illusione che l’ONU si muovesse solo per offrire una protezione umanitaria. Il mutamento di atteggiamento è stato poi provocato anche dall’ipocrita applicazione della risoluzione che prevedeva l'embargo sulle armi, applicata rigorosamente da paesi che avevano violato tante risoluzioni, e che avevano ampliato notevolmente il senso della risoluzione numero 1973 del Consiglio di Sicurezza. È questo che ha reso diffidenti molti degli insorti, che hanno cominciato a capire la logica dell’intervento.Non so quanti in Libia potessero conoscere il precedente del comportamento degli Stati Uniti in Italia durante il 1943-1945, ma avrebbero capito prima molte cose. Allora, soprattutto nel terribile inverno 1944-1945, le armi erano state lesinate ai partigiani, a cui era stato dato in diverse occasioni l’ordine di smobilitare, mentre bombardamenti furiosi che colpivano la popolazione civile precedevano ogni avanzata delle truppe alleate. L’obiettivo era impedire che gli antifascisti avessero un ruolo visibile nella distruzione definitiva del regime nazifascista.In Libia uno dei pretesti per negare le armi è stata la possibile presenza di integralisti tra gli insorti, pretesto ridicolo da parte di chi per sconfiggere i talibani in Afghanistan si è appoggiato sulla cosiddetta Alleanza del Nord, coalizione di gruppi integralisti ultrareazionari, e ha come alleato principale in Medio Oriente l’Arabia Saudita.Vari commentatori di paesi arabi riportati da Gilbert Achcar hanno espresso la convinzione che in realtà la NATO ha prolungato intenzionalmente la guerra sia per far logorare i ribelli, sia per facilitare una transizione che recuperi parte dell’esercito di Gheddafi come garante di stabilità contro il pericolo di un consolidarsi delle tendenze rivoluzionarie, ossia per avere uno sbocco analogo a quello caldeggiato (ma non ancora assicurato) per Tunisia e soprattutto Egitto.Un esponente del comitato dei ribelli di Sirte, Abu Bakr al Faryani, ha dichiarato al giornale libanese “Al Ajbar” che la lentezza delle operazioni militari contro le brigate di Gheddafi sarebbe finalizzata a guadagnare tempo, per poter selezionare meglio gli uomini più malleabili nel Consiglio nazionale degli oppositori, e alzare il prezzo da far pagare ai “vincitori”.Il quotidiano “La Stampa” del 23/8 ha pubblicato una cartina per una spartizione della Libia dopo Gheddafi in tre zone di influenza controllate dalle potenze che sono intervenute e vogliono la loro parte nella “ricostruzione” del paese e nella spartizione delle sue risorse, ma che tenderebbero a evitare la presenza diretta sul campo di loro truppe (altra cosa “esperti” di vario genere). Si ispira probabilmente a quanto apparso in un articolo uscito sull’edizione digitale di “The Guardian”, in cui Tom Dale ha analizzato i programmi della NATO, che erano stati rivelati il 28 giugno da Andrew Mitchell, segretario allo Sviluppo Internazionale della Gran Bretagna. Un ponderoso documento, prevede che il controllo dopo la caduta di Gheddafi sia affidato a truppe di terra di paesi islamici “moderati” non confinanti (cioè Turchia, Giordania, forse Marocco) e altri paesi dell’Unione Africana. L’Algeria sarebbe confinante, ma il suo esercito sembra molto interessato a bloccare una dinamica rivoluzionaria che potrebbe riaccendere la questione berbera in tutta l’area. All’economia penserebbero naturalmente le istituzioni internazionali…Ma soprattutto si punta a recuperare quanto più possibile dell’esercito di Gheddafi, indispensabile per mantenere l’ordine ed evitare una situazione aperta e ancora non completamente normalizzata come quella di Tunisia e Egitto. Per questo, si dice, bisogna “evitare di ripetere l’errore fatto in Iraq”, dove la dissoluzione dell’esercito di Saddam spinse molti militari alla guerriglia e rese poco controllabile il paese finché a governarlo c’erano solo i fuorusciti tornati al seguito delle truppe di occupazione.Le prime indiscrezioni su questo piano hanno allarmato l’ala più radicale degli insorti di Bengasi, preoccupati dall’eccessiva condiscendenza con i paesi imperialisti da parte di molti esponenti del Consiglio nazionale.Come in Egitto, una vivace battaglia politica contrappone diversi gruppi dell’opposizione, alcuni dei quali (proprio le forze islamiche) sono più disposti a un accordo con settori significativi del regime gheddafiano. Rispetto all’Egitto, pesa l’assenza di un movimento operaio organizzato, anche se Kamal Abu Aita, presidente della nuova federazione egiziana dei sindacati indipendenti ha stabilito collegamenti con la Libia, dove tra l’altro lavorava senza tutela un milione di egiziani.Che accadrà? Difficile dirlo, in Libia come in Tunisia e in Egitto si è avviato un processo tumultuoso il cui esito è incerto. Ma è la sorte di ogni processo rivoluzionario, nessuno ha una strada tracciata verso la vittoria. Ma le speranze suscitate dalla primavera araba non sono infondate: le potenze occidentali vorrebbero controllare questi processi, e sicuramente danno cattivi consigli ai loro amici locali, ma non hanno truppe di terra che possano intervenire efficacemente per bloccare sviluppi sgraditi. Non ne hanno a sufficienza, hanno opinioni pubbliche sempre più ostili a queste imprese, e soprattutto hanno l’esperienza negativa dei paesi in cui le hanno usate senza risultati significativi, come l’Iraq e l’Afghanistan.Per questo i giochi non sono ancora fatti, ed è assurdo che parte della sinistra dia per scontata la sconfitta e rinunci quindi ai compiti di sostegno a queste rivoluzioni, che non sa riconoscere nel caos e negli scontri politici complessi che accompagnano sempre l’ascesa di un processo rivoluzionario.da http://antoniomoscato.altervista.org/
(Su questo, rinvio a quanto scrivevo in aprile, in Come non riconoscere una rivoluzione… a.m. 24/8/11)

11 agosto 2011

Seminario nazionale di Sinistra Critica - Foligno, 15-18 settembre 2011


Seminario nazionale di Sinistra Critica - Foligno, 15-18 settembre 2011

Si svolgerà a Trevi (Foligno)dal 15 al 18 settembre il tradizionale seminario nazionale di Sinistra Critica. Il costo è lo stesso degli altri anni: 120 euro per tutti e quattro i giorni, 90 per tre giorni, 50 per due. Come sempre, sono previsti

info e prenotazioni: daniele.dambra@gmail.com



LA RIVOLUZIONE E' POSSIBILE
Dalle lotte del Maghreb e Mashrek agli "indignados" la speranza del cambiamento

Un vento nuovo soffia nel Mediterraneo, in Nordafrica, in Spagna, in Grecia, in Italia. Dopo le rivoluzioni arabe e l'indignazione spagnola, anche nel nostro paese, il 12 e 13 giugno con la vittoria ai referendum, si è espressa una voglia di partecipazione e di opposizione all'ormai impresentabile governo Berlusconi e alle politiche liberiste. La difesa del pubblico contro il privato conquistata dal "popolo dell'acqua", la supremazia delle nostre vite contro "i loro profitti", dimostrata dal no al nucleare, costituiscono la prima risposta collettiva alla crisi e mostrano la consapevolezza crescente di un sistema alle corde.

Che Berlusconi sia al tramonto lo sanno anche i sassi e il campanello d'allarme era suonato nelle piazze studentesche del 14 dicembre, in quelle delle donne del 13 febbraio. Certo, la destra in questo paese ha un grande spazio soprattutto se il centrosinistra non riesce ad andare oltre la responsabilità finanziaria tanto cara a Mario Draghi o una posizione di "sinistra del centrosinistra" ancella delle sue scelte di fondo. D'ora in avanti, però, non sarà possibile continuare a bluffare. Acqua pubblica o privata? Con Marchionne o gli operai? Pagare il debito o difendere le pensioni e i salari? Con "l'Italia peggiore" o con quella "migliore"? Con i "NoTav o contro di loro"?

Siamo nel tempo in cui bisognerà dare risposte alla domanda di democrazia che ci circonda e che chiede idee forti e rotture radicali con l'esistente. La democrazia che viene rivendicata è l’elemento su cui investire per fondare una stagione dei movimenti assolutamente indipendenti dalla politica istituzionale, esterni a quella, autodeterminati. E' questo che vogliamo dire a Genova per il decennale del G8 del 2001. Saranno i movimenti a rifondare la politica: il movimento dell'acqua e le sue prossime scelte di mobilitazione che vogliamo sostenere; l'onda studentesca che, nonostante le sconfitte, non si arresta; il movimento dei precari e delle precarie che chiede lavoro stabile e un reddito vitale per poter vivere dignitosamente; il movimento operaio, schiacciato ancora una volta dalla morsa delle burocrazie sindacali con la firma del Patto sociale e che chiede nuovi strumenti per esprimere la sua indignazione; il movimento delle donne, instancabile motore di cambiamento; il movimento lgbt che, pure rimosso, riemerge e ricorda sempre di essere un attore imprescindibile.
Ma dal Nordafrica ci viene detto anche che "la rivoluzione è possibile". E' possibile cambiare questo mondo, questo sistema sociale, questa economia. E' possibile lottare insieme, partecipare collettivamente, prendersi le piazze e spazzare via sistemi politici decotti. Ed è possibile, aggiungiamo noi, immaginare un sistema sociale diverso, alternativo al capitalismo, fondato sulla democrazia diretta, i beni comuni, la dignità, l'autogestione, relazioni internazionali che rifiutano la guerra e fondate sulla cooperazione tra i popoli, le nostre vite contro i loro profitti. La rivoluzione è possibile, dunque, e noi pensiamo che serve un nuovo soggetto politico per provare a realizzare questo obiettivo. Ci mettiamo al lavoro in questa direzione.
Ne discuteremo a Genova nel mese di luglio, in occasione del decennnale, e al nostro seminario estivo che si terrà a Foligno dal 15 al 18 settembre. Vi aspettiamo. Perché un altro mondo è possibile.

PROGRAMMA DEL SEMINARIO

VENERDI' 16 SETTEMBRE ore 17,30
Meeting
I movimenti sociali tra crisi e soggettività politica

SABATO 17 SETTEMBRE ore 17,30
Meeting
Il vostro debito non lo paghiamo: La crisi, le politiche europee e le risposte necessarie

DOMENICA 18 SETTEMBRE
Assemblea conclusiva
Il progetto di Sinistra Critica verso il congresso

Interverranno tra gli altri:
Marco Bersani, Lidia Cirillo, Fabiola Correale, Giorgio Cremaschi, Flavia D'Angeli, Andrea Fioretti, Gigi Malabarba, Felice Mometti, Michela Puritani, Miguel Romero, Giorgio Sestili, Eric Toussaint, Franco Turigliatto, Antonella Vitiello

WORKSHOP SU:
Palestina, Comunicazione, G20, Genere, Femminismo, Beni Comuni, Formazione, Rivolte Arabe, Indignados, Lavoro, Precarietà, Crisi, Debito, Movimenti, Soggettività Politiche

10 agosto 2011

Italia, servono miliardi? Risparmiamo sugli armamenti

di Enrico Piovesana
www.peacereporter.net
Per anticipare il pareggio di bilancio al 2013, il governo italiano deve recuperare subito 17 miliardi di euro. Dove trovarli? La risposta che arriva dai palazzi della polizia è tristemente scontata: tagliando le pensioni. Come se non vi fossero alternative.

Ne ricordiamo, come facciamo da tempo, una che basterebbe da sola: annullare il programma pluriennale di spesa militare da 16 miliardi di euro per l'acquisizione di centotrentuno cacciabombardieri F-35.

Aerei da attacco 'stealth' (invisibili ai radar) di ultimissima generazione, giudicati uno sfizio tecnologico strategicamente inutile da molti esperti militari. Non certo dalle aziende cui il folle progetto garantisce succulente commesse: Alenia aeronautica, Datamat, Galileo Avionica, Selex Communication, Sirio Panel, Oto Melara (tutte di Finmeccanica), Gemelli, Logic, Mecaer, Moog, Oma, Avio, Piaggio, Aerea, Secondo Mona, Sicamb, S3Log.

I critici potrebbero obiettare che l'annullamento del programma renderebbe subito disponibili 'solo' 3,6 miliardi di euro (lo stanziamento previsto da qui al 2013), non tutti e 16. Vero. Ma quello che qui ci interessa sottolineare è l'aspetto simbolico di quella cifra enorme, di fatto già data per spesa, e la concreta possibilità di operare scelte diverse: profondamente politiche, non meramente contabili.

Altri dolorosi tagli alle spese sociali potrebbero essere evitati anche scegliendo di bloccare le spese - già previste per il 2011 - per l'acquisto di centosedici elicotteri da assalto Nh-90 (310 milioni), di due nuovi sommergibili U-212 (164 milioni) e di sedici elicotteri da trasporto truppe Ch-47 (137 milioni) e di porre fine alle missioni di guerra in Afghanistan (800 milioni all'anno) e in Libia (centinaia di milioni in pochi mesi).

08 agosto 2011

Dobbiamo fermarli! Appello per un fronte comune contro il governo unico delle banche


Cinque proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.


Ci incontriamo il 1° Ottobre a Roma

Per adesioni: appello.dobbiamofermarli@gmail.com


E’ da più di un anno che in Italia cresce un movimento di lotta diffuso. Dagli operai di Pomigliano e Mirafiori agli studenti, ai precari della conoscenza, a coloro che lottano per la casa, alla mobilitazione delle donne, al popolo dell’acqua bene comune, ai movimenti civili e democratici contro la corruzione e il berlusconismo, una vasta e convinta mobilitazione ha cominciato a cambiare le cose. E’ andato in crisi totalmente il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi. La schiacciante vittoria del sì ai referendum è stata la sanzione di questo processo e ha mostrato che la domanda di cambiamento sociale, democrazia e di un nuovo modello di sviluppo economico, ha raggiunto la maggioranza del Paese.


A questo punto la risposta del palazzo è stata di chiusura totale. Mentre si aggrava e si attorciglia su se stessa la crisi della destra e del suo governo, il centrosinistra non propone reali alternative e così le risposte date ai movimenti sono tutte di segno negativo e restauratore. In Val Susa un’occupazione militare senza precedenti, sostenuta da gran parte del centrodestra come del centrosinistra, ha risposto alle legittime rivendicazioni democratiche delle popolazioni. Le principali confederazioni sindacali e la Confindustria hanno sottoscritto un accordo che riduce drasticamente i diritti e le libertà dei lavoratori, colpisce il contratto nazionale, rappresenta un’esplicita sconfessione delle lotte di questi mesi e in particolare di quelle della Fiom e dei sindacati di base. Infine le cosiddette “parti sociali” chiedono un patto per la crescita, che riproponga la stangata del 1992. Si riducono sempre di più gli spazi democratici e così la devastante manovra economica decisa dal governo sull’onda della speculazione internazionale, è stata imposta e votata come uno stato di necessità.


Siamo quindi di fronte a un passaggio drammatico della vita sociale e politica del nostro Paese. Le grandi domande e le grandi speranze delle lotte e dei movimenti di questi ultimi tempi rischiano di infrangersi non solo per il permanere del governo della destra, ma anche di fronte al muro del potere economico e finanziario che, magari cambiando cavallo e affidando al centrosinistra la difesa dei suoi interessi, intende far pagare a noi tutti i costi della crisi.


Nell’Unione europea la costruzione dell’euro e i patti di stabilità ad esso collegati, hanno prodotto una dittatura di banche e finanza che sta distruggendo ogni diritto sociale e civile. La democrazia viene cancellata da questa dittatura perché tutti i governi, quale che sia la loro collocazione politica, devono obbedire ai suoi dettati. La punizione dei popoli e dei lavoratori europei si è scatenata in Grecia e poi sta dilagando ovunque. La più importante conquista del continente, frutto della sconfitta del fascismo e della dura lotta per la democrazia e i diritti sociali del lavoro, lo stato sociale, oggi viene venduta all’incanto per pagare gli interessi del debito pubblico che, a loro volta, servono a pagare i profitti delle banche. Di quelle banche che hanno ricevuto aiuti e finanziamenti pubblici dieci volte superiori a quelli che oggi si discutono per la Grecia.


Questo massacro viene condotto in nome di una crescita e di una ripresa che non ci sono e non ci saranno. Intanto si proclamano come vangelo assurdità mostruose: si impone la pensione a 70 anni, quando a 50 si viene cacciati dalle aziende, mentre i giovani diventano sempre più precari. Chi lavora deve lavorare per due e chi non ha il lavoro deve sottomettersi alle più offensive e umilianti aggressioni alla propria dignità. Le donne pagano un prezzo doppio alla crisi, sommando il persistere delle discriminazioni patriarcali con le aggressioni delle ristrutturazioni e del mercato. Tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, è sottoposto a una brutale aggressione che mette in discussione contratti a partire da quello nazionale, diritti e libertà, mentre ovunque si diffondono autoritarismo padronale e manageriale. L’ambiente, la natura, la salute sono sacrificate sull’altare della competitività e della produttività, ogni paese si pone l’obiettivo di importare di meno ed esportare di più, in un gioco stupido che alla fine sta lasciando come vittime intere popolazioni, interi stati. L’Europa reagisce alla crisi anche costruendo un apartheid per i migranti e alimentando razzismo e xenofobia tra i poveri, avendo dimenticato la vergogna di essere stato il continente in cui si è affermato il nazifascismo, che oggi si ripresenta nella forma terribile della strage norvegese.


Il ceto politico, quello italiano in particolare coperto di piccoli e grandi privilegi di casta, pensa di proteggere se stesso facendosi legittimare dai poteri del mercato. Per questo parla di rigore e sacrifici mentre pensa solo a salvare se stesso. Centrodestra e centrosinistra appaiono in radicale conflitto fra loro, ma condividono le scelte di fondo, dalla guerra, alla politica economica liberista, alla flessibilità del lavoro, alle grandi opere.
La coesione nazionale voluta dal Presidente della Repubblica è per noi inaccettabile, non siamo nella stessa barca, c’è chi guadagna ancora oggi dalla crisi e chi viene condannato a una drammatica povertà ed emarginazione sociale.


Per questo è decisivo un autunno di lotte e mobilitazioni. Per il mondo del lavoro questo significa in primo luogo mettere in discussione la politica di patto sociale, nelle sue versioni del 28 giugno e del patto per la crescita. Vanno sostenute tutte le piattaforme e le vertenze incompatibili con quella politica, a partire da quelle per contratti nazionali degni di questo nome e inderogabili, nel privato come nel pubblico.
Tutte e tutti coloro che in questi mesi hanno lottato per un cambiamento sociale, civile e democratico, per difendere l’ambiente e la salute devono trovare la forza di unirsi per costruire un’alternativa fondata sull’indipendenza politica e su un programma chiaramente alternativo a quanto sostenuto oggi sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra. Le giornate del decennale del G8 a Genova, hanno di nuovo mostrato che esistono domande e disponibilità per un movimento di lotta unificato.


Per questo vogliamo unirci a tutte e a tutti coloro che oggi, in Italia e in Europa, dicono no al governo unico delle banche e della finanza, alle sue scelte politiche, al massacro sociale e alla devastazione ambientale.


Per questo proponiamo 5 punti prioritari, partendo dai quali costruire l’alternativa e le lotte necessarie a sostenerla:


1. Non pagare il debito. Bisogna colpire a fondo la speculazione finanziaria e il potere bancario. Occorre fermare la voragine degli interessi sul debito con una vera e propria moratoria. Vanno nazionalizzate le principali banche, senza costi per i cittadini, vanno imposte tassazioni sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie. La società va liberata dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi, per questo il patto di stabilità e l’accordo di Maastricht vanno messi in discussione ora. Bisogna lottare a fondo contro l’evasione fiscale, colpendo ogni tabù, a partire dall’eliminazione dei paradisi fiscali, da Montecarlo a San Marino. Rigorosi vincoli pubblici devono essere posti alle scelte e alle strategie delle multinazionali.


2. Drastico taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra. Dalla Libia all’Afghanistan. Tutta la spesa pubblica risparmiata nelle spese militari va rivolta a finanziare l’istruzione pubblica ai vari livelli. Politica di pace e di accoglienza, apertura a tutti i paesi del Mediterraneo, sostegno politico ed economico alle rivoluzioni del Nord Africa e alla lotta del popolo palestinese per l’indipendenza, contro l’occupazione. Una nuova politica estera che favorisca democrazia e sviluppo civile e sociale.


3. Giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro. Abolizione di tutte le leggi sul precariato, riaffermazione al contratto a tempo indeterminato e della tutela universale garantita da un contratto nazionale inderogabile. Parità di diritti completa per il lavoro migrante, che dovrà ottenere il diritto di voto e alla cittadinanza. Blocco delle delocalizzazioni e dei licenziamenti, intervento pubblico nelle aziende in crisi, anche per favorire esperienze di autogestione dei lavoratori. Eguaglianza retributiva, diamo un drastico taglio ai superstipendi e ai bonus milionari dei manager, alle pensioni d’oro. I compensi dei manager non potranno essere più di dieci volte la retribuzione minima. Indicizzazione dei salari. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, istituzione di un reddito sociale finanziato con una quota della tassa patrimoniale e con la lotta all’evasione fiscale. Ricostruzione di un sistema pensionistico pubblico che copra tutto il mondo del lavoro con pensioni adeguate.


4. I beni comuni per un nuovo modello di sviluppo. Occorre partire dai beni comuni per costruire un diverso modello di sviluppo, ecologicamente compatibile. Occorre un piano per il lavoro basato su migliaia di piccole opere, in alternativa alle grandi opere, che dovranno essere, dalla Val di Susa al ponte sullo Stretto, cancellate. Le principali infrastrutture e i principali beni dovranno essere sottratti al mercato e tornare in mano pubblica. Non solo l’acqua, dunque, ma anche l’energia, la rete, i servizi e i beni essenziali. Piano straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione, l’istruzione.


5. Una rivoluzione per la democrazia. Bisogna partire dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di casta, per riconquistare il diritto a decidere e a partecipare affermando ed estendendo i diritti garantiti dalla Costituzione. Tutti i beni provenienti dalla corruzione e dalla malavita dovranno essere incamerati dallo Stato e gestiti socialmente. Dovranno essere abbattuti drasticamente i costi del sistema politico: dal finanziamento ai partiti, al funzionariato diffuso, agli stipendi dei parlamentari e degli alti burocrati. Tutti i soldi risparmiati dovranno essere devoluti al finanziamento della pubblica istruzione e della ricerca. Si dovrà tornare a un sistema democratico proporzionale per l’elezione delle rappresentanze con la riduzione del numero dei parlamentari. E’ indispensabile una legge sulla democrazia sindacale, in alternativa al modello prefigurato dall’accordo del 28 giugno, che garantisca ai lavoratori il diritto a una libera rappresentanza nei luoghi di lavoro e al voto sui contratti e sugli accordi. Sviluppo dell’autorganizzazione democratica e popolare in ogni ambito della vita pubblica.


Questi 5 punti non sono per noi conclusivi od esclusivi, ma sono discriminanti. Altri se ne possono aggiungere, ma riteniamo che questi debbano costituire la base per una piattaforma alternativa ai governi liberali e liberisti, di destra e di sinistra, che finora si sono succeduti in Italia e in Europa variando di pochissimo le scelte di fondo.
Vogliamo trasformare la nostra indignazione, la nostra rabbia, la nostra mobilitazione, in un progetto sociale e politico che colpisca il potere, gli faccia paura, modifichi i rapporti di forza per strappare risultati e conquiste e costruire una reale alternativa.


Aderiamo sin d’ora, su queste concrete basi programmatiche, alla mobilitazione europea lanciata per il 15 ottobre dal movimento degli “indignados” in Spagna. La solidarietà con quel movimento si esercita lottando qui e ora, da noi, contro il comune avversario.


Per queste ragioni proponiamo a tutte e a tutti coloro che vogliono lottare per cambiare davvero, di incontrarci. Non intendiamo mettere in discussione appartenenze di movimento, di organizzazione, di militanza sociale, civile o politica. Riteniamo però che occorra a tutti noi fare uno sforzo per mettere assieme le nostre forze e per costruire un fronte comune, sociale e politico che sia alternativo al governo unico delle banche.


Per questo proponiamo di incontrarci il 1° ottobre, a Roma, per un primo appuntamento che dia il via alla discussione, al confronto e alla mobilitazione, per rendere permanente e organizzato questo nostro punto di vista.


Firme dei promotori:


Vincenzo Achille (studente AteneinRivolta Bari)
Claudio Amato (Fiom Roma Nord)
Adriano Alessandria (rsu Fiom Lear Grugliasco)
Fausto Angelini (lavoratore Comune di Torino)
Davide Banti (Cobas lavoro privato settore igiene urbana)
Imma Barbarossa (femminista, docente di liceo in pensione)
Giovanni Barozzino (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Giovanna Bastone (disoccupata)
Alessandro Bernardi (comitato acqua, Bologna)
Sergio Bellavita (Fiom nazionale)
Sandro Bianchi (ex dirigente Fiom)
Ugo Bolognesi (Fiom Torino)
Salvatore Bonavoglia (Rsu Cobas scuola normale superiore Pisa)
Laura Bottai (impiegata, Filt-Cgil Arezzo)
Massimo Braschi (rsu Filctem TERNA)
Paolo Brini (Comitato Centrale Fiom)
Stefano Brunelli (rsu IRIDE Servizi)
Fabrizio Burattini (direttivo naz. Cgil)
Sergio Cararo (direttore rivista Contropiano)
Carlo Carelli (rsu Filctem Lodi, direttivo Cgil Lombardia)
Massimo Cappellini (Rsu Fiom Piaggio)
Francesco Carbonara (Rsu Fiom Om Bari)
Paola Cassino (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Stefano Castigliego (Rsu Fiom Fincantieri Marghera – Venezia)
Francesco Chiuchiolo (rsa ARES)
Eliana Como (Fiom Bergamo)
Danilo Corradi (dottorando Università "Sapienza" - Roma)
Gigliola Corradi (Fisac Verona)
Giuseppe Corrado (direttivo Fiom Toscana)
Giorgio Cremaschi (Fiom nazionale)
Dante De Angelis (ferroviere Orsa)
Riccardo De Angelis (rsu Telecom Italia coord. lav. autoconvocati Roma)
Paolo De Luca (FP Cgil Comune di Torino)
Daniele Debetto (Pirelli Settimo Torinese)
Emanuele De Nicola (Fiom Basilicata)
Paolo Di Vetta (Blocchi Precari Metropolitani)
Francesco Doro (Rsu OM Carraro Padova, CC Fiom)
Nicoletta Dosio (Movimento No Tav Valsusa)
Valerio Evangelisti (scrittore)
Marco Filippetti (Comitato Romano Acqua Pubblica)
Andrea Fioretti (rsa Flmu Cub Sirti, coord. lav. autoconvocati Roma)
Roberto Firenze (rsu Usb Comune di Milano)
Delia Fratucelli (direttivo naz. Slc Cgil)
Ezio Gallori (macchinista in pensione, fondatore del Comu)
Evrin Galesso (studente AteneinRivolta Padova)
Giuliano Garavini (ricercatore universitario)
Michele Giacché (Fincantieri, Comitato Centrale Fiom)
Walter Giordano (rsu Filctem AEM distribuzione Torino)
Federico Giusti (Rsu Cobas comune di Pisa)
Paolo Grassi (Nidil)
Simone Grisa (Fiom Bergamo)
Franco Grisolia (CdGN Cgil),
Mario Iavazzi (direttivo naz. Funzione Pubblica Cgil)
Tony Inserra (Rsu Iveco, Comitato Centrale Fiom)
Antonio La Morte (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Massimo Lettieri (segr. Flmu Cub Milano)
Francesco Locantore (direttivo Flc Cgil Roma e Lazio)
Domenico Loffredo (delegato Fiom Pomigliano)
Pasquale Loiacono (rsu Fiom Fiat Mirafiori)
Francesco Lovascio (sindacalista Usb Livorno)
Mario Maddaloni (rsu Napoletanagas, direttivo naz. Filctem Cgil)
Eva Mamini (direttivo naz. Cgil)
Anton Giulio Mannoni (Camera del lavoro di Genova)
Maurizio Marcelli (Fiom nazionale)
Gianfranco Mascia (giornalista)
Adriana Miniati (insegnante in pensione Firenze)
Armando Morgia (Roma Bene Comune)
Antonio Moscato (storico)
Massimiliano Murgo (Flmu Cub Marcegaglia Buildtech, coord. lav. uniti contro la crisi Milano)
Alessandro Mustillo (studente universitario, Roma)
Stefano Napoletano (rsu Fiom Powertrain Torino)
Andrea Paderno (rsu Fiom Same Bergamo)
Alfonsina Palumbo (dir. Fisac Campania)
Alberto Pantaloni (rsu Slc Cgil Comdata, assemblea lav. autoconvocati Torino)
Marcello Pantani (Cobas lavoro privato Pisa)
Massimo Paparella (Fiom Bari)
Emidia Papi (esecutivo naz. Usb)
Pietro Passarino (Cgil Piemonte)
Matteo Parlati (Rsu Fiom Cgil Ferrari)
Angelo Pedrini (sindacalista Usb Milano)
Licia Pera (sindacalista Usb Sanità)
Alessandro Perrone (Fiom, coord. cassintegrati Eaton Monfalcone)
Ciro Pesacane (ambientalista)
Marco Pignatelli (lavoratore Fiom licenziato Fiat Sata Melfi)
Antonio Piro (rsu Cobas Provincia di Pisa)
Rossella Porticati (Rsu Fiom Piaggio)
Pierpaolo Pullini (Rsu Fiom Fincantieri Ancona)
Mariano Pusceddu (rsu Alenia Caselle-Torino, direttivo Fiom Piemonte)
Stefano Quitadamo (Flmu Cub Coordinamento cassintegrati Maflow di Trezzano S/N - Milano)
Margherita Recaldini (rsu Usb Comune di Brescia)
Giuliana Righi (Fiom Emilia Romagna)
Bruno Rossi (portuale, in pensione, Spi-Cgil)
Franco Russo (forum “diritti e lavoro”)
Michele Salvi (rsu Usb Regione Lombardia)
Antonio Saulle (Camera del Lavoro Trieste)
Marco Santopadre (Radio Città Aperta)
Antonio Santorelli (Fiom Napoli)
Luca Scacchi (ricercatore università, Flc Cgil Valle d’Aosta, direttivo reg. Cgil VdA)
Marco Schincaglia (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Yari Selvatella (giornalista)
Giorgio Sestili (studente AteneinRivolta Roma)
Giuseppe Severgnini (Fiom Bergamo)
Nando Simeone (coord. lav. autoconvocati, direttivo Filcams Cgil Lazio)
Mario Sinopoli (Fiom Calabria)
Luigi Sorge (Usb Fiat Cassino)
Francesco Staccioli (cassintegrato Alitalia, esecutivo Usb Lazio)
Enrico Stagni (direttivo Cgil Friuli Venezia Giulia)
Antonio Stefanini (direttivo FP Cgil Livorno)
Alessia Stelitano (studente AteneinRivolta Reggio Calabria)
Alioscia Stramazzo (rsa Azienda Gruppo Generali)
Antonello Tiddia (minatore Sulcis Filctem-Cgil)
Fabrizio Tomaselli (esecutivo naz. Usb)
Luca Tomassini (ricercatore precario Cpu Roma)
Laura Tonoli (Filctem Cgil Brescia)
Cleofe Tolotta (Rsa Usb Alitalia)
Franca Treccarichi (direttivo FP Cgil Piemonte)
Arianna Ussi (coordinamento precari scuola Napoli)
Luciano Vasapollo (docente università La Sapienza)
Paolo Ventrice (rsu IRIDE Servizi)
Antonella Visintin (ambientalista)
Emiliano Viti (attivista Coord. No Inceneritore Albano - RM)
Antonella Clare Vitiello (studente Ateneinrivolta Roma)
Nico Vox (Rsu Fp Cgil Don Gnocchi, Milano)
Pasquale Voza (docente Università di Bari)
Anna Maria Zavaglia (insegnante, direttivo naz. Cgil)
Riccardo Zolia (Rsu Fiom Fincantieri Trieste)
Massimo Zucchetti (professore Politecnico Torino)


Vedi le firme delle adesioni

02 agosto 2011

I migranti del Cara di Bari occupano ancora una volta i binari e la tengenziale per rivendicare documenti e vita dignitosa

Comunicato di Sinistra Critica Bari
I migranti si sono accorti che appellarsi al Governo italiano, così come alle Istituzioni locali (Regione Puglia in primis) non porta a nessun risultato, se non ad inutili ed estenuanti perdite di tempo. Daltronde sarebbe come se i lavoratori della Fiat o della OM (qui a Bari) riponessero speranze verso i loro padroni, responsabili di licenziamenti, diminuzione dei salari, aumento dei ritimi di lavoro, smantellamento dei diritti.
Ecco perchè questa mattina, alle prime ore dell'alba, ancora una volta i migranti del Cara di Bari hanno deciso di occupare i binari e la tengenziale. Per rivendicare il rilascio dei documenti, permesso di soggiorno o asilo politico che sia! Ormai a loro questa differenza inizia anche ad interessare relativamente.
Tra i migranti del Cara, quelli che passano (e non si sa per quanto tempo e con quale trattamento civile) dalla Tendopoli di Manduria e quelli che vengono sfruttati nelle campagne pugliesi, c'è un forte legame: sono a disposizione degli interessi delle imprese e del caporalato per fornire forza-lavoro a basso costo. In questo meccanismo responsabili e complici sono il Governo, ma anche la Regione Puglia, con il suo ipocrita "buonismo democratico", che cerca di mascherare la falsa accoglienza istituzionale presente in Puglia.
A quali risultati hanno portato le promesse del Governo regionale fatte nei giorni scorsi ai migranti del Cara di Bari in materia di documenti? Cosa significa fregiarsi di essere terra e Regione di frontiera, accogliente e meticcia, se la proposta alla chiusura della tendopoli di Manduria la si concerta con la Protezione civile per poi dirottare i migranti, come se fossero "prigionieri di guerra", da una zona militare tra Oria e Manduria alla base Isaf di S.Vito dei Normanni (Br)? Di fronte all'ormai caporalato "istituzionalizzato" (daltronde ci sarà pure un legame tra le imprese che lo usano e i Governi che le finanziano con sussidi fiscali e risorse pubbliche!) quali provvedimenti si sono presi?
Ma la risposta all'incapacità di gestire in forme civili e democratiche le rivendicazioni dei migranti e i loro diritti sia umani per la cittandinanza che sociali per la dignità sui posti di lavoro la stanno dando gli stessi migranti opponendosi a tutto ciò. Dall'occupazione dei binari agli scioperi autoconvocati nelle campagne domistrano quanto i migranti non facciano sconti a nessuno. Di fronte a condizioni di vita e lavoro al limite di un paese civile loro non si soffermano a guardare se si tratta di governi amici o meno. Lottano per la loro autodeterminazione. E non è un caso che al loro fianco, mentre occupano, protestano in forme autorganizzate, autogestiscono assemblee, ci siano studenti, precari/e, persone sotto sfratto senza casa e non sindacati e/o pseudo antirazzisti autoproclamatisi.
A noi non resta che lottare insieme a loro, senza credere di rappresentarli davanti all'Assessore (amico!) e/o funzionario di governo di turno. Non ci resta che facilitare la costruzione di relazioni tra le varie lotte dei migranti: da quelle per i documenti a quelle per un lavoro e una vita dignitosa. Non ci resta che opporci accanto (e non distanti!) ai migranti per la chiusura della tendopoli di Manduria, aggiungendo che la base Isaf sarebbe identica alla soluzione precedente.
Sinistra Critica Bari