27 settembre 2011

Verso il 15 ottobre >>> Dal diritto all'insolvenza allo sciopero precario

Si è svolta a Bologna l'assemblea degli Stati generali contro la precarietà. Ecco il documento conclusivo che rilancia il 15 ottobreDocumento approvato dall'assemblea degli Stati generali contro la precarietà a Bologna il 25 settembre

"Siamo giunti al 15 ottobre con un importante lancio, a carattere europeo, della mobilitazione contro l'austerity e le politiche neoliberiste, assunte come strategiche dalla Commissione europea e dalla BCE peraltro responsabili dell'ultimo pesante ciclo della crisi globale e finanziaria che le banche e le grandi lobby hanno scatenato contro la cittadinanza tutta.Dal 15 al 18 Settembre abbiamo attraversato l'hub meeting di Barcellona con le reti e le soggettività che hanno scelto in questa fase storica di riconoscersi in uno spazio politico comune che un po' ovunque è andato costituendosi tra le rivolte che hanno segnato gran parte dell' area mediterrane e europea, fino ad arrivare a scalfire la nostra Italietta. Dalla fiammata vista nello scorso autunno studentesco culminato nel tumulto del 14 Dicembre fino alla più solida resistenza Notav, radicata e sedimentata sul territorio dentro uno scontro politico condotto con grande intelligenza e radicalità.Nel procedere sul nuovo terreno di un vero protagonismo sociale contro le politiche di austerity vorremmo per il prossimo 15 Ottobre indicare un percorso, uno spazio di relazione e di movimento, un area di corteo larga e ampia che determini una rottura del quadro di compatibilità e di pacificazione sociale imposto dalla governance, anche oltre il governo Berlusconi: per la conquista di un piano costituente che rivendichi con orgoglio l'autonomia e l'indipendenza delle forme di vita comuni, nel lavoro e con il reddito oltre il lavoro, nelle scelte sociali e sessuali, che praticano liberazione da un intero sistema di potere in crisi.Dovremo costruire questo percorso verso e oltre il 15 per affermare in quella giornata, e nelle giornate precedenti, nelle pratiche e nella comunicazione il punto di vista precario.
Il lavoro non è un bene comune perché ce lo hanno reso maledetto azzerandone i diritti e negandoci ogni libertà di scelta. Per questo è necessario conquistare un reddito di base incondizionato, non pagare il debito, riappropriarsi dei beni comuni e dei saperi, affermare la dimensione transnazionale di questa lotta anche a partire dalle lotte dei migranti per la rottura del legame tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno.Siamo sempre più consapevoli che la reale alternativa alla crisi vive nei processi di indipendenza e cooperazione che sapremo creare nelle lotte."Non ci rappresenta nessuno" è il motiv centrale della nuova sinfonia corale che si alza dalla sintesi dei ragionamenti, delle strategie e delle pratiche condivise tra tanta umanità riunitasi a Barcellona, come oggi a Bologna.Lo spazio costituente che si vuole definire oggi è quello che guarda, in una prospettiva di medio lungo periodo, alla costruzione, l'affinamento e la diffusione delle lotte contro la precarietà imposta dall'attuale modello di governo del capitale contro le nostre vite.Una tappa fondamentale di questo percorso è la costruzione della giornata del 15 ottobre.Ecco perché proponiamo di caratterizzare quella giornata e la nostra presenza alle mobilitazioni costruendo uno spazio sociale e di movimento che reclami il diritto all'insolvenza, al reddito e alla libertà di movimento per tutti i soggetti che stanno pagando la crisi.Partendo da questi contenuti, il 15 ottobre faremo valere il protagonismo dei precari e delle precarie e rilanceremo oltre il 15, guardando alla scommessa dello sciopero precario.Per questo a dicembre sperimenteremo esperienze di sciopero dentro e contro la precarietà, un processo che sappia mettere in campo una comunicazione e una cooperazione tra i precarie e le precarie a partire dalla crisi della rappresentanza politica e sindacale, uno sciopero che arrivi a colpire laddove fa più male, dove si fanno i profitti, dove si produce e riproduce il capitale.Verso lo sciopero precario, il 15 ottobre vogliamo costruire uno spazio di attraversamento per tutte le generazioni precarie che trasformi l'indignazione in conflitto.Una rete che realizzi iniziative comuni di avvicinamento dal 7 al 14 ottobre come promosso dall'Hub-meeting di Barcellona, all'interno della settimana di mobilitazione europea contro l'austerity.Questa messa in rete è la modalità che scegliamo per l'interconnessione delle nostre esperienze: capace di includere i singoli come i collettivi, di intrecciarsi con altre reti e percorsi, di ridurre le distanze e la frammentazione, di far viaggiare i contenuti e le pratiche riproducibili dentro e fuori i confini dello stato -nazione, dentro e oltre quella giornata.
Stati generali della precarietà
Bologna 25 settembre 2011

25 settembre 2011

Solidarietà al popolo palestinese e sostegno ai suoi diritti inalienabili


Il “presidente palestinese” e dell’Olp Abu Mazen ha chiesto oggi formalmente all’Assemblea delle Nazioni Unite il riconoscimento dello “Stato palestinese” quale 194° membro della stessa Onu, con un discorso di forte denuncia delle responsabilità israeliane e di rivendicazione dei diritti palestinesi “internazionalmente riconosciuti”.
Un’iniziativa politica significativa che ha certamente messo in moto un forte dibattito a livello internazionale (e tra le/i palestinesi) – anche se il probabile risultato sarà una bocciatura da parte del Consiglio di Sicurezza, almeno per l’opposizione statunitense ed europea.
Perché allora questa scelta della dirigenza di Fatah e dell’Anp?
Di fronte allo stallo dei negoziati con Israele – per responsabilità del governo Netanyahu che prosegue indisturbato la politica di colonizzazione e occupazione - l’obiettivo dell’Anp è quello di provare a forzare la mano alla diplomazia internazionale per tornare a qual tavolo negoziale “da stato a stato”, con il sostegno da parte di buona parte degli stati mondiali.
In secondo luogo la mossa di Abu Mazen cerca rimettere la sua dirigenza all’interno delle nuove dinamiche mediorientali che si sono aperte con la “primavera araba”, grazie in particolare all’appoggio di egiziani e sauditi, e al protagonismo turco. Un ritorno al centro della scena favorito dalla solidarietà che le popolazioni arabe continuano a mostrare per la causa palestinese e che cerca di essere utilizzata dai “nuovi” governi arabi alla ricerca di un nuovo consenso – e anche per questo Mahmud Abbas ha parlato di una “primavera palestinese”.
Infine, ma non di secondaria importanza, l’Anp palestinese cerca di riguadagnare la popolarità sempre più in ribasso tra la sua stessa popolazione – a causa della sua inefficacia politica interna e internazionale, dell’ambigua collaborazione dell’Anp con i servizi Usa e israeliani e della corruzione politica in Cisgiordania - facendo appello all’orgoglio palestinese e alla necessità di battere le resistenze israeliane e statunitensi.
In ogni caso, qualsiasi sia il giudizio sulla scelta della dirigenza palestinese, va evidenziata la vergogna dei governi europei e statunitense, che ancora una volta sostengono le “ragioni” di Israele, o meglio le sue politiche di occupazione e colonizzazione – “chiedendo” ai palestinesi di subordinare le loro richieste alle priorità israeliane (e sioniste) e rinunciare ai propri diritti riconosciuti internazionalmente. E naturalmente va segnalata la consueta arroganza israeliana, rappresentata dal primo ministro Netanyahu che ha esplicitamente dichiarato che i palestinesi potranno avere uno stato solo negoziando con Israele (alle sue condizioni, naturalmente).La popolazione e le forze politiche e sociali palestinesi, nei territori occupati e in tutta la diaspora, è divisa sulla decisione di Abu Mazen.
Molte sono state le manifestazioni popolari in Cisgiordania in appoggio alla “dichiarazione d’indipendenza”, e non possono essere liquidate come eterodirette da Fatah: come accadde dopo gli “accordi di Oslo”, la popolazione palestinese spera fortemente che qualcosa finalmente possa cambiare, visto il quotidiano peggioramento delle condizioni sociali e politiche.
Diverse forze e movimenti politici palestinesi hanno invece sottolineato i rischi e le ambiguità della mossa dell’Anp – evidenziando i “vuoti” della dichiarazione: quale sarà il territorio dello stato palestinese – visto che i “confini del 1967” sono di fatto cancellati sul terreno? Quale conseguenze potranno esserci per i diritti dei rifugiati espulsi nel 1948 (e dopo) – questione che non ha trovato posto nel discorso di Abbas? La dichiarazione di “indipendenza” non rappresenta un aiuto a Israele che potrebbe in questo modo cancellare le sue responsabilità per i territori ancora occupati?
Allo stesso tempo queste forze hanno sottolineato la totale subalternità della mossa dell’Anp al quadro di un “processo di pace” che non potrà andare oltre la nascita di un’entità palestinese controllata da Israele.Il nostro giudizio di fondo sulla scelta della leadership dell’Anp palestinese non è positivo, perché ci pare evidente la sua volontà di perseguire una direzione contraria non solo ai bisogni (e ai diritti) dei palestinesi – ma anche disinteressata a collocare una rinnovata mobilitazione palestinese nei processi di trasformazione che stanno attraversando tutti i paesi arabi. Il nostro è un giudizio negativo sulla strategia del “primo ministro” palestinese Salaam Fayyad: costruire le istituzioni palestinesi – politiche, amministrative, economiche e finanziarie – malgrado l’occupazione israeliana e prima di un contrasto a questa e di farlo in costante rapporto con gli Usa e le istituzioni finanziarie internazionali, cercando di garantire ai territori palestinesi un posto nella mondializzazione capitalista come strategia per avere alla fine il riconoscimento di uno stato: una strategia esplicitamente rivendicata da Abbas nel suo discorso all’Onu..
In ogni caso la mossa di Abu Mazen non potrà nascondere per molto la totale mancanza di una strategia complessiva di liberazione e di resistenza all’occupazione – limiti che mostra peraltro lo stesso Hamas su altri piani, che ha bocciato la dichiarazione di indipendenza ma non ha fatto nulla per boicottarla (vietando invece le manifestazioni a Gaza...), per non contrastare un possibile consenso popolare e per evitare frizioni con i governi arabi.Il compito della solidarietà internazionale non è comunque quello di sostituirsi alle forze politiche e alla popolazione palestinese – e come Sinistra Critica non lo faremo. Non ci interessa manifestare pro o contro la scelta dell’Anp. Concordiamo su questo con l’appello del “movimento dei giovani palestinesi” che scrive: “Indipendentemente dal fatto che la proposta per il riconoscimento statale venga accettata o meno... facciamo appello ai popoli liberi del mondo e agli alleati del popolo palestinese, a mostrare una reale solidarietà con i palestinesi in una lotta anti-coloniale, non schierandosi a favore o contro la dichiarazione di uno stato palestinese, ma piuttosto continuando a considerare Israele responsabile e pertanto boicottandola dal punto di vista economico, accademico e culturale. Fino a quando ritorneremo e saremo liberi”.
Ci rendiamo conto che la dichiarazione all’Onu – con tutte le sue ambiguità e i rischi di cancellare diritti universali del popolo palestinese, come quello al ritorno – rappresenta comunque una forte visibilità per la causa palestinese e può rilanciare un impegno internazionale a sostegno dei palestinesi: rimaniamo però convinte/i che questo sostegno possa avvenire solo dal basso e attraverso una forte solidarietà popolare.
Per questo riteniamo che in questo momento dobbiamo rafforzare i nostri legami con la società palestinese e i movimenti politici e sociali che resistono all’occupazione israeliana e alla rinnovata colonizzazione sionista – a partire dal movimento delle/dei giovani palestinesi giustamente preoccupato e impegnato alla costruzione di una nuova unità di tutto il popolo palestinese, e dal movimento BDS.
Ribadiamo il nostro impegno nei confronti del governo italiano e dell’Unione europea affinché mettano fine ad ogni collaborazione con le politiche israeliane – cancellando gli accordi economico-commerciali e militari con Israele – e perché sostengano fattivamente il riconoscimento internazionale e l’applicazione dei diritti del popolo palestinese.

Coordinamento nazionale Sinistra Critica

19 settembre 2011

Autunno caldo? Bollente!


Unione Sindacale di Base
19/09/2011

Lo sciopero del 6 settembre, le manifestazioni e mobilitazioni che si sono succedute dai primi giorni di settembre sino ad oggi e che hanno visto la partecipazione attiva di USB e di altre realtà sociali del nostro paese, dimostrano che esiste una reale e concreta opposizione alle manovre del governo ed al tentativo di scaricare la crisi sui lavoratori e sulle fasce della popolazione che vivono da tempo in una situazione di estremo disagio.
Non era scontato che lo sciopero e le manifestazioni del 6 settembre riuscissero in pieno come è stato, come non era scontato che ci si arrivasse con una tensione sociale visibile e vigile.

Le partecipate manifestazioni per le piazze e le vie di Roma, le azioni dimostrative nei santuari della finanza milanese e le tante manifestazioni che si sono concretizzate a Bologna come a Napoli, a Torino come a Firenze ed in tutte le maggiori città italiane, rappresentano quindi un segnale positivo di risveglio della consapevolezza e della rabbia di chi vuole essere soggetto attivo nel cambiamento del paese oggi e non soltanto in un futuro indefinibile.

Tutto ciò prepara le ulteriori mobilitazioni che dovranno essere organizzate nei prossimi mesi e che vedranno momenti di analisi e riflessione come l'Assemblea nazionale del 1° Ottobre a Roma che lancia la parola d'ordine “non paghiamo il debito”, per arrivare alla manifestazione nazionale del 15 Ottobre che vedrà in piazza forze diverse, ma unite nel rigettare al mittente, cioè alla Unione Europea, al Governo ed alla finanza internazionale la necessità di farsi carico di una crisi che sicuramente non è stata generata dai lavoratori, dai disoccupati, dai precari e dai pensionati.

Non certo una manifestazione solo per mandare a casa Berlusconi, cosa chiaramente oggi più necessaria che mai, ma per battere il berlusconismo che impera nel nostro paese e che non riguarda soltanto il centro-destra.

Una manifestazione popolare contro il governo delle banche e della finanze europee contro questo governo, contro qualsiasi governo, politico, tecnico o di transizione che sia, che voglia imporre le stesse medicine che stanno avvelenando l'Italia come l'intera Europa.

Un 15 Ottobre che non dovrà rappresentare il punto di arrivo e la fine della mobilitazione, ma un passaggio attraverso il quale esprimere il dissenso di centinaia di migliaia di persone per le strade di Roma, per ripartire poi con nuove mobilitazioni e nuovi traguardi.

Le manovre estive del governo di luglio e di settembre non saranno le uniche e nei prossimi mesi dovremo aspettarci un'ulteriore raffica di misure finalizzate a maggiori e più pesanti sacrifici, all'aumento delle tasse e all'attacco ai salari e alle pensioni, ai diritti dei lavoratori ed ai diritti civili e democratici.

Sappiamo che la politica dei partiti, anche quelli della sinistra parlamentare, viaggia in sintonia con l'Europa delle banche e della finanza e ha abbracciato acriticamente la filosofia dei sacrifici e delle privatizzazioni che stanno portando alla rovina la Grecia e distruggendo il tessuto sociale dell'intero continenti.

Dobbiamo allora alzare il tiro anche rispetto agli obiettivi, rifiutando il luogo comune del pareggio di bilancio e del pagamento di un debito che non è certo stato creato da chi lavora e rilanciando invece una proposta che preveda il non pagamento del debito, la nazionalizzazione delle banche e delle aziende strategiche per il paese, una patrimoniale che incida in modo pesante ed immediato sui grandi patrimoni, una lotta all'evasione che non sia il solito condono ma che preveda le manette per chi evade.

Dovremo quindi essere pronti a difenderci, a replicare ed attaccare, perché ad una manovra continua non può che corrispondere una mobilitazione continua.

L'autunno del debito

imq

Si è chiuso il seminario nazionale di Sinistra Critica che si è svolto dal 15 al 18 settembre. Circa duecento i partecipanti, tutti autopaganti, che per tre giorni hanno affollato – insieme alla federazione degli arbitri – l’hotel Della Torre di Trevi, a pochi chilometri da Foligno; una ventina di workshop e quattro assemblee plenarie due delle quali dedicate all'approfondimento di due temi di grande attualità: l’analisi dei movimenti sociali in Italia e in Europa con la partecipazione di Miguel Romero, direttore della rivista spagnola Viento Sur nonché membro di Izquierda Anticapitalista e attivista nel movimento dei cosiddetti indignados. La seconda assemblea tematica è stata dedicata al debito e al suo annullamento. Eric Toussaint, presidente del Cadtm – una Ong internazionale presente ormai in 30 paesi che si occupa da decenni dell’annullamento del debito al terzo mondo e che ormai si sta occupando a tempo pieno dell’Euoropa – ha fatto una “lezione” sulla crisi attuale del capitalismo, su come i debiti privati siano diventati pubblici e scaricati direttamente nelle tasche di milioni di lavoratori e lavoratrici. Un debito “illegittimo” che si può ridurre e non pagare come propone il Cadtm e ormai buona parte della sinistra anticapitalista in Europa.
Venerdì sera si è svolta invece l’assemblea femminista che per un’organizzazione “ecologista, comunista e femminista” è ormai un passaggio obbligato mentre domenica la plenaria con le conclusioni.
Oltre ad aver discusso di un nuovo progetto di informazione, dell'ipotesi di un'associazione di sostegno alle rivolte arabe e dell'ipotesi di costituire, nel movimento in forma aperta, dei Collettivi precari, nelle conslusioni del seminario è stato rilanciato l’appello promosso dal cartello “Dobbiamo fermarli!” e che vedrà una assemblea nazionale a Roma (Teatro Ambra Jovinelli) il 1 ottobre. L’indicazione emersa dal dibattito è che il 1 ottobre ci sia una grande partecipazione per costruire al meglio la manifestazione del 15 ottobre a Roma. E che quella dell’Ambra Jovinellli sia in particolare un’assemblea vera, con interventi dai territori, dai luoghi del conflitto e non una semplice autorappresentazione di soggetti politici o sindacali. Sinistra Critica proporrà agli aderenti all’appello “Dobbiamo fermarli” che in quella manifestazione viva uno spezzone dedicato proprio alla parola d’ordine “Non paghiamo il loro debito” per far vivere non solo uno schieramento unitario ma anche un contenuto forte rispetto alla gravità della crisi.
La tematica del debito è quindi il nodo centrale dell’autunno e Sinistra Critica proporrà ai suoi interlocutori, l’avvio di una campagna di massa che faccia discutere nei luoghi di lavoro, di studio, promuova iniziative dirette e manifestazioni visibili. Una campagna nazionale e internazionale in grado di invertire la logica, imposta da Bce, Unione europea ma anche dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dei sacrifici a ogni costo.
Dopo il 15 ottobre e dopo aver ribadito la volontà di farne una scadenza non rituale, l’attenzione si sposterà a Nizza, il 1 novembre, quando si terrà la manifestazione europea contro il vertice dei G20. Anche in quella occasione l’ipotesi è di promuovere, attorno alla parola d’ordine dell’annullamento del debito, uno spezzone il più grande possibile e in grado di unire forze tra loro diverse.
Il seminario di Sinistra Critica ha rappresentato l’occasione per avviare un primo dibattito in vista della scadenza congressuale di questa organizzazione che si terrà probabilmente in primavera 2012. Un dibattito che ha messo al centro dell’attenzione la necessità di relazionarsi ai nuovi processi di radicalizzazione politica, di rilanciare l’ispirazione originale di Sinistra Critica, vale a dire la costruzione di un nuovo soggetto della sinistra anticapitalista ma anche di affrontare con più determinazione il tema dell’identità politica e programmatica. Se ne discuterà già a partire dall’autunno.

14 settembre 2011

Messico. Nascita di una nuova forza politica dei lavoratori.


Il 27 agosto scorso si è celebrato il congresso di fondazione dell’Organización política del pueblo y los trabajadores (OPT) “per la liberazione nazionale e l’emancipazione sociale”. Questa iniziativa era stata annunciata in ottobre del 2010 da Martín Esparza, segretario generale del sindacato messicano degli elettricisti (SME) nel corso di un meeting che ha riunito più di 60000 persone nell’Estadio Azteca a cttà del Messico. All’origine di questa iniziativa si trova la presa di coscienza crescente nel seno del SME del fatto che, davanti all’accanimento del governo contro il sindacato, e alla situazione catastrofica del paese, la lotta sul terreno politico diventa più che mai necessaria. Il governo di Calderón ha in effetti fatto di tutto per provare di essere il nemico dichiarato di tutti i lavoratori, e al servizio esclusivo dell’oligarchia e dell’imperialismo.
In questo senso, l’OPT fa chiaramente referenza alla lotta per la conquista del potere politico e alla necessità di rovesciare la classe politica, rappresentante dell’oligarchia, attualmente alla testa del paese. Va sottolineato che la partecipazione dell’OPT alle elezioni non appare tra le sue priorità, e che non intende essere prigioniera si nessun calendario istituzionale. La chiamata dello SME ha ricevuto risposta da parte di altre organizzazioni operaie, contadine, indigene, popolari e politiche, e rappresenta un passo storico nella conquista dell’indipendenza politica dei lavoratori. In effetti, se delle organizzazioni che si richiamano al socialismo sono sempre esistite in Messico, nessun partito ha mai riunito al suo interno il grosso dei lavoratori, difendendo un programma che si rivendica di lotta di classe. Per delle ragioni storiche, le organizzazioni sindacali sono sempre state legate, in modo corporativo, al partito-stato (il Partido Revolucionario Institucional) che ha governato il paese per 70 anni. La conquista delle libertà sindacali più elementari è lontana dall’essere realizzata, come è dimostrato dall’accanimento del governo contro lo SME (cf, solidaritéS no 189).
Liberazione nazionale o socialismo?
Nel corso degli ultimi mesi hanno avuto luogo dei dibattiti importanti, che hanno permesso di abbozzare i contorni della nuova OPT. Se i documenti adottati menzionano in modo esplicito la necessità di lottare per una trasformazione attuale della società, designano l’attuale modello economico e politico come il responsabile della catastrofe attuale, e adottano un tono anticapitalista, il socialismo, anche se menzionato, appare più come un orizzonte lontano da raggiungere, senza una vera visione strategica né elementi di transizione. L’elemento forte del programma sembra piuttosto orientato sulla liberazione nazionale e la lotta contro l’imperialismo che, nella tradizione messicana, significa soprattutto nazionalista e distributivo. Va notato anche che l’internazionalismo figura in buon posto nei documenti dell’organizzazione e che questi fanno esplicitamente referenza ai processi rivoluzionari in corso nel mondo arabo e alle ribellioni che stanno nascendo in Europa. Certi aspetti organizzativi, che hanno suscitato degli importanti dibattici, come il diritto di organizzarsi in tendenza nel seno dell’organizzazione, così come la tattica da adottare davanti al processo elettorale del 2012, saranno dibattuti nel prossimo congresso dell’organizzazione, che si terrà nel mese di marzo dell’anno prossimo.
Oltre il congresso
Se il congresso ha indubbiamente rappresentato un successo importante raggruppando un po’ più di un migliaio di delegati di 22 stati, l’OPT dovrà far fronte a una situazione di violenza sempre più incontrollabile e alla presenza sempre più importante (e riconosciuta) di personale militare nordamericano. L’OPT lancerà la sua prima campagna di affiliazione in qualche giorno. In un contesto di crisi politica e sociale acuta e di fronte a un regime inetto, la nascita di questa nuova forza rappresenta un passo importante verso l’organizzazione degli oppressi. Insieme al Movimiento de Regeneracón Nacional (MORENA) di Andrés Manuel López Obrador, l’OPT può contribuire ad accelerare un confronto con il regime, che appare inevitabile a medio termine, come quelli che si producono in questo stesso momento in molti luoghi del globo.
Héctor Márquez, correspondant de solidaritéS au Mexique traduzione dal francese di Maria Benciolini



11 settembre 2011

Guardando all'11/9 dieci anni dopo: gli Usa sono i migliori alleati di Bin Laden


di Noam Chomsky
traduzione di Paola Lepori

[...]Ci restano due possibilità: o Bush e soci sono colpevoli del “crimine internazionale supremo”, inclusi tutti i mali che hanno prodotto come conseguenza, oppure decidiamo che i processi di Norimberga furono una farsa e che gli alleati si siano resi colpevoli di omicidio giudiziario[...]

Siamo al decimo anniversario delle orrende atrocità dell’11 settembre 2001 che, si ritiene comunemente, hanno cambiato il mondo. Il primo maggio, la presunta mente del piano criminale, Osama Bin Laden, veniva assassinato in Pakistan da un commando Statunitense d’elite, i Navy SEALs, dopo essere stato catturato, senza protezione e disarmato, nell’operazione Geronimo.

Un certo numero di analisti ha osservato che, benché Bin Laden fosse stato finalmente ucciso, aveva ottenuto alcuni importanti successi nella sua battaglia contro gli Usa. “Ha sostenuto più volte che l’unica maniera di tenere gli Stati Uniti fuori dal mondo Musulmano e sconfiggere i suoi satrapi era trascinare gli Americani in una serie di piccole ma costose guerre che li avrebbero infine portati alla bancarotta”, scrive Eric Malgoris. “‘Dissanguando gli Stati Uniti’ testuali parole”. Gli Stati Uniti, prima sotto George W. Bush e poi sotto Barack Obama, sono andati dritti incontro alla trappola di Bin Laden… Spese militari grottescamente ingigantite, e l’assuefazione al debito… potrebbero essere l’eredità più perniciosa dell’uomo che pensava di poter sconfiggere gli Stati Uniti” – soprattutto dal momento che l’estrema destra sta cinicamente sfruttando il debito, con l’acquiescenza dell’establishment Democratico, per minare quello che rimane dei programmi sociali, dell’istruzione pubblica, dei sindacati, e, in generale, ciò che resta degli ostacoli alla tirannia delle corporation.

Che Washington fosse destinata a realizzare i ferventi desideri di Bin Laden fu subito chiaro. Come trattato nel mio libro Undici settembre, scritto poco dopo gli attacchi, chiunque avesse familiarità con la regione poteva arrivare alla conclusione “che un attacco massiccio alla popolazione Musulmana sarebbe la risposta alle preghiere di Bin Laden e dei suoi affiliati, e condurrebbe gli Stati Uniti e i loro alleati in una ‘diabolica trappola,’ come ha detto il ministro degli esteri Francese”.

Il funzionario della Cia responsabile della caccia a Osama Bin Laden dal 1996, Michael Scheuer, scrisse poco dopo che “Bin Laden è stato preciso nel descrivere le ragioni per cui ha deciso di muoverci guerra. [Lui] si propone di alterare drasticamente le politiche Statunitensi e Occidentali verso il mondo Islamico,” e ha avuto un ampio margine di successo: “Le forze armate e le politiche Statunitensi stanno completando la radicalizzazione del mondo Islamico, qualcosa che Osama Bin Laden sta provando a fare con grande, sebbene incompleto, successo dai primi anni Novanta. Di conseguenza, penso sia ragionevole concludere che gli Stati Uniti d’America rimangono il solo alleato indispensabile di Bin Laden.” E senza dubbio è ancora così, persino dopo la sua morte.

Il primo 11 Settembre

Esisteva un’alternativa? Con ogni probabilità il movimento Jihadista, gran parte del quale estremamente critico riguardo Bin Laden, poteva essere diviso e indebolito dopo l’11 Settembre. Il ‘’crimine contro l’umanità,’’ com’è stato giustamente definito, poteva essere affrontato come un crimine, con un’operazione internazionale per prendere in custodia i probabili sospettati. Questo venne riconosciuto all’epoca, ma l’idea non fu nemmeno presa in considerazione.

In Undici settembre, ho citato la conclusione di Robert Fisk che “l’orrendo crimine” dell’11 Settembre era stato commesso con ‘’cattiveria e crudeltà inaudita,’’ un giudizio accurato. E’ utile ricordare che i crimini avrebbero potuto essere anche peggiori. Si pensi, per esempio, se l’attacco fosse arrivato al punto di coinvolgere la Casa Bianca, uccidendo il presidente, imponendo una brutale dittatura militare che avesse ucciso decine di migliaia di persone e torturato altre decine di migliaia costituendo al contempo un centro del terrore internazionale che avrebbe aiutato a imporre altrove Stati del terrore e della tortura dello stesso tipo e realizzato una campagna internazionale di omicidi; e come scossa ulteriore, avesse coinvolto un team di economisti – chiamateli ‘i ragazzi di Kandahar’ – che avrebbero rapidamente portato l’economia ad una delle peggiori depressioni della sua storia.

Questo, francamente, sarebbe stato molto peggio dell’11 Settembre.

Sfortunatamente non è un caso ipotetico. E’ successo. L’unica inesattezza di questo breve resoconto è che il numero dovrebbe essere moltiplicato per 25 per ottenere i corrispettivi pro capite, la misura appropriata. Sto ovviamente parlando di quello a cui in America Latina ci si riferisce spesso come “il primo 11 Settembre”: 11 Settembre 1973, quando gli Stati Uniti riuscirono nel loro intenso sforzo di far cadere il regime democratico di Salvador Allende in Cile con un golpe militare che mise al potere il brutale regime del Generale Pinochet. L’obiettivo, nelle parole dell’amministrazione Nixon, era uccidere il “virus” che avrebbe potuto incoraggiare tutti quegli “stranieri [che] hanno in mente d fregarci” per ottenere il controllo delle loro risorse e impedire che perseguissero un’intollerabile politica di sviluppo autonomo. Sullo sfondo, l'opinione del Consiglio di Sicurezza Nazionale secondo cui, se gli Stati Uniti non avessero controllato l’America Latina, non avrebbero poturo aspettarsi di “ottenere un ordine positivo altrove nel mondo.”

Il primo 11 Settembre, diversamente dal secondo, non ha cambiato il mondo. Non fu “nulla di rilevante”, come Henry Kissinger assicurò al suo capo pochi giorni dopo.

Questi eventi di scarsa rilevanza non si limitavano al golpe militare che ha distrutto la democrazia cilena e messo in moto la storia di orrori che ne seguì. Il primo 11 Settembre non è stato altro che l'atto di una tragedia iniziata nel 1962, quando John F. Kennedy cambiò la missione dell’esercito in America Latina da “difesa emisferica” – un retaggio anacronistico della Seconda Guerra Mondiale – a “sicurezza interna,” un concetto interpretato in maniera agghiacciante dai circoli latinoamericani dominati dagli Stati Uniti.

In ‘’Storia della Guerra Fredda’’ pubblicata di recente dall’Università di Cambridge, lo studioso dell'America Latina John Coatsworth scrive che da allora sino al “collasso Sovietico nel 1990, il numero di prigionieri politici, vittime di tortura, ed esecuzioni di dissidenti politici non-violenti in America Latina, superò di gran lunga lo stesso numero dell'Unione Sovietica e dei suoi satelliti dell’Est Europeo,” includendo anche molti martiri religiosi e omicidi di massa, sempre col supporto o per iniziativa di Washington. L’ultimo grande atto di violenza fu il brutale omicidio di sei intellettuali di rilievo latinoamericani, preti gesuiti, pochi giorni dopo la caduta del muro di Berlino. I responsabili erano i membri di un battaglione salvadoregno d’elite che aveva già lasciato una scioccante scia di sangue. Freschi di corso d'addestramento alla Jfk School of Special Warfare, avevano agito su ordine diretto dell’alto comando di uno stato cliente degli Stati Uniti.

Dal rapimento e la tortura all’omicidio

Tutto ciò, e molto altro ancora, è archiviato come elemento di scarsa rilevanza, e dimenticato. Coloro la cui missione è dominare il mondo possono beneficiare di uno scenario più confortante, ben spiegato nel numero corrente del prestigioso (e prezioso) giornale del Royal Institute of International Affairs di Londra. L’articolo principale tratta del “visionario ordine internazionale” della “seconda metà del Ventesimo Secolo” caratterizzato dalla “universalità della visione statunitense della prosperità commerciale.” C’è qualcosa di vero in questo resoconto, ma non illustra il punto di vista di coloro che si trovano all’estremità sbagliata delle armi da fuoco.

Lo stesso vale per l’omicidio di Osama Bin Laden, che chiude se non altro una fase della “guerra al terrore” ri-dichiarata dal presidente George W. Bush dopo il secondo 11 Settembre. Passiamo ad alcuni pensieri su quell’evento e sulla sua rilevanza.

Il Primo Maggio 2011, Osama è stato ucciso nel suo pressoché sguarnito complesso da 79 incursori del Navy SEAL, entrati in Pakistan in elicottero. Dopo che molte oscure versioni sono state diffuse dal governo e poi smentite, i rapporti ufficiali hanno reso sempre più evidente come l’operazione sia stata un omicidio pianificato, che ha violato ripetutamente norme di diritto internazionale elementari, a cominciare dall’invasione stessa.

Sembra ci sia stato il tentativo di arrestare la vittima, che era disarmata, cosa che presumibilmente i 79 membri del commando, che non si erano trovati di fronte alcuna resistenza– tranne che, scrivono nei rapporti, da parte di sua moglie, disarmata anch’essa, cui hanno sparato per legittima difesa quando si è gettata contro di loro, secondo quanto dichiarato dalla Casa Bianca – avrebbero potuto facilmente fare.

Una ricostruzione plausibile degli eventi è fornita dal corrispondente Yochi Dreazen, veterano del Medio Oriente, e da colleghi di Atlantic. Dreazen, ex corrispondente militare per il Wall Street Journal, è corrispondente anziano per il National Journal Group, che si occupa di affari militari e sicurezza nazionale. Secondo la loro inchiesta, il piano della Casa Bianca sembra non avesse mai preso in considerazione di catturare Bin Laden vivo: “Secondo un ufficiale Statunitense anziano a conoscenza dei fatti, l’amministrazione aveva chiarito al clandestino Joint Special Operations Command dell’esercito che voleva Bin Laden morto. Un alto funzionario informato sull’attacco disse che i SEALs sapevano che la loro missione non era prenderlo vivo.”

L’autore aggiunge: “Per molti di quelli che al Pentagono e alla CIA avevano speso quasi un decennio nella caccia a Bin Laden, uccidere il militante era un atto di vendetta necessario e giustificato.” Inoltre, “catturare Bin Laden vivo avrebbe procurato all’amministrazione una serie di fastidi politici e legali.” Meglio, quindi, ucciderlo, scaricare il suo corpo in mare senza l’autopsia considerata necessaria dopo un’uccisione – una mossa che, com’era prevedibile, ha provocato rabbia e dubbi in gran parte del mondo Musulmano.

Come l’inchiesta pubblicata da Atlantic ha osservato: “La decisione di uccidere Bin Laden immediatamente è stata finora l’immagine più chiara di un aspetto della politica contro il terrorismo dell’amministrazione Obama passato inosservato. L’amministrazione Bush catturò migliaia di militanti sospetti e li spedì nei campi di detenzione in Afghanistan, Iraq e Guantanamo. Di contro, l’amministrazione Obama si è concentrata sull’eliminazione di singoli terroristi piuttosto che cercare di catturarli vivi.” Questa è una differenza sostanziale tra Bush e Obama. Gli autori citano l’ex cancelliere della Germania Ovest Helmut Schmidt, il quale “ha dichiarato alla tv tedesca che il raid Usa è stato ‘chiaramente una violazione del diritto internazionale’ e che Bin Laden avrebbe dovuto essere detenuto e processato,” provocando la reazione del procuratore generale americano Eric Holder, il quale “ha difeso la decisione di uccidere Bin Laden benché non rappresentasse una minaccia immediata per i Navy SEALs, dicendo a una commissione della Casa Bianca che l’attacco era stato perfettamente legale, legittimo e appropriato da ogni punto di vista.”

L’eliminazione del corpo senza autopsia è stata anch’essa motivo di critica da parte degli alleati. L’avvocato inglese Geoffrey Robertson, che gode di grande considerazione e che si era già espresso a favore dell'operazione e contro l’esecuzione per mere considerazioni di pragmatismo, ha descritto la dichiarazione di Obama “è stata fatta giustizia” come “un’assurdità” che sarebbe dovuta risultare ovvia a un ex professore di diritto costituzionale. La legge Pakistana “richiede un’indagine in caso di morte violenta, e la legge internazionale sui diritti umani stabilisce che il ‘diritto alla vita’ richieda un’indagine ogni qualvolta una morte violenta sia causata dall’azione del governo e della polizia. Gli Stati Uniti si trovano perciò nell’obbligo di aprire un’inchiesta che chiarisca al mondo le vere circostanze dell’uccisione.”

Molto opportunamente, Robertson ci ricorda che “non è sempre stato così. Quando venne il momento di prendere in considerazione il destino di uomini ben più malvagi di Osama Bin Laden – i massimi dirigenti del nazismo – il governo britannico li avrebbe voluti impiccati entro sei ore dalla cattura. Il presidente Truman era riluttante e citò l’affermazione del giudice Robert Jackson che un’esecuzione di massa ‘si dimostrerebbe difficile da digerire per le coscienze americane e non sarebbe ricordata con orgoglio dai nostri figli… l’unica via è dimostrare l’innocenza o la colpevolezza degli accusati dopo un’udienza tanto imparziale e scevra di passioni quanto lo permettono i tempi e dopo un verdetto che renda le nostre ragioni e le nostre motivazioni chiare.’”

Eric Margolis commenta che “Washington non ha mai reso pubbliche le prove che Osama Bin Laden fosse dietro agli attacchi dell’11 Settembre,” presumibilmente questa è una delle ragioni per cui “i sondaggi mostrano che un terzo degli Americani intervistati credono che dietro agli attacchi dell’11 Settembre ci sia il governo Usa e/o Israele,” mentre nel mondo musulmano lo scetticismo è più diffuso. “Un processo a porte aperte negli Stati Uniti o all’Aia avrebbe mostrato queste affermazioni alla luce del giorno,” continua, una ragione pratica per cui Washington avrebbe dovuto attenersi alla legge.

Nelle società che professano il rispetto della legge, i sospetti presi in custodia sono sottoposti a un processo equo. Sottolineo “sospetti”. Nel Giugno 2002, il capo del Fbi Robert Mueller, in quella che il Washington Post descrisse come “una delle sue dichiarazioni pubbliche più dettagliate sull’origine degli attacchi,” poté solo dire che “gli investigatori ritengono che l’idea degli attacchi dell’11 Settembre al World Trade Center e al Pentagono venne ai leader di al-Qaeda in Afghanistan, la reale cospirazione venne messa a punto in Germania e i finanziamenti giunsero attraverso gli Emirati Arabi Uniti dall’Afghanistan.”

Ciò che l’Fbi credeva e pensava nel Giugno del 2002, non era di loro conoscenza otto mesi prima, quando Washington rigettò le timide offerte dei talebani (non sappiamo quanto serie) di consegnare Bin Laden affinché venisse processato se fossero state sottoposte loro delle prove. Perciò non è vero, come ha dichiarato il presidente Obama nel suo discorso alla Casa Bianca dopo la morte di Bin Laden, che “appurammo rapidamente che gli attacchi dell’11 Settembre erano stati opera di al-Qaeda.”

Non c’è mai stata ragione di dubitare di ciò che riteneva l’Fbi a metà 2002, ma questo ci lascia ben lontani dalla prova di colpevolezza che si richiede nelle società civili – e qualsiasi siano le prove, queste non garantiscono comunque la liceità dell’uccisione di un sospetto che, a quanto sembra, avrebbe potuto essere facilmente preso in custodia e processato. Ciò rimane vero per le prove prodotte da allora. Così, la Commissione per l’11 Settembre fornì ampie prove circostanziali del ruolo di Bin Laden nell’11 Settembre, perlopiù sulla base di ciò che era stato riferito delle confessioni dei prigionieri di Guantanamo. E’ oggetto di dubbio che questo materiale possa essere accettato da una corte indipendente, considerando la maniera in cui furono ottenute le confessioni. In ogni caso, la conclusione dell’indagine autorizzata dal Congresso, comunque ci si possa lasciar convincere da essa, è molto lontana dall’essere emessa da una corte credibile, quella che cambierebbe la categoria dell’accusato da sospetto a prigioniero.

Si è fatto un gran parlare della “confessione” di Bin Laden, ma quella era una vanteria, non una confessione, con lo stesso grado di credibilità della mia “confessione” di aver vinto la maratona di Boston. La vanteria ci dice molto sul personaggio ma nulla sulla sua effettiva responsabilità di quello che riteneva un grande successo, del quale voleva prendersi il merito.

Chiaramente, tutto ciò a prescindere dai giudizi sulla sua colpevolezza, che sembrava evidente persino prima dell’inchiesta dell'Fbi e continua ad esserlo.

Crimini di aggressione

E’ opportuno aggiungere che la responsabilità di Bin Laden fu riconosciuta in gran parte del mondo musulmano, e condannata. Un esempio significativo è l’illustre religioso Libanese Sheikh Fadlallah, molto rispettato da Hezbollah e dai gruppi sciiti in generale, anche fuori dal Libano. Lui aveva una certa esperienza sugli omicidi. Era stato l’obiettivo di un attentato: per mezzo di un’autobomba di fronte ad una moschea, in un’operazione organizzata dalla Cia nel 1985. Lui si salvò ma altre 80 persone vennero uccise, per lo più donne e bambine che lasciavano la moschea – uno di quegli innumerevoli crimini che non rientrano negli annali a causa dell'“informazione asimmetrica”. Sheikh Fadlallah condannò aspramente gli attacchi dell’11 Settembre.

Uno dei maggiori specialisti del movimento Jihadista, Fawaz Gerges, suggerisce che il movimento avrebbe potuto essere diviso allora, se gli Stati Uniti avessero saputo sfruttare l’opportunità che gli si presentava anziché mobilitare il movimento, in particolare con l’attacco all’Iraq, una fortuna inaspettata per Bin Laden, che portò a un deciso incremento del terrorismo, come le agenzie di intelligence avevano previsto. Alle udienze Chilcot che si occupavano dei retroscena dell’invasione dell’Iraq, per esempio, l’ex capo dell’agenzia di intelligence Britannica MI5 testimoniò che sia l’intelligence inglese che quella Usa sapevano che Saddam non rappresentava alcuna minaccia concreta, che era probabile che l’invasione avrebbe causato un aumento del terrorismo, e che l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan avrebbe radicalizzato parte di una generazione di musulmani che interpretavano le azioni militari come un “attacco all’Islam”. Come spesso accade, la sicurezza non era una priorità alta nell’agenda di Stato.

Potrebbe essere utile chiederci come avremmo reagito se un commando Iracheno fosse atterrato nel complesso di George W. Bush, l’avesse ucciso, e gettato il suo corpo nell’Atlantico (dopo i rituali di sepoltura appropriati, naturalmente). Indiscutibilmente, non era un “sospettato” ma il “mandante” che diede l’ordine di invadere l’Iraq – cioè di commettere “il crimine internazionale supremo che differisce dagli altri crimini di guerra solo in quanto racchiude tutto il male possibile”, la formula per cui i criminali nazisti vennero impiccati: centinaia di migliaia di morti, milioni di rifugiati, distruzione di gran parte del paese e del suo retaggio culturale, e il sanguinoso conflitto settario che si è ora diffuso nel resto della regione. Altrettanto indiscutibilmente, questi crimini superano di gran lunga qualsiasi cosa sia stata attribuita a Bin Laden.

Affermare che tutto ciò sia incontrovertibile, come di fatto è, non significa che non ci sia chi lo nega. L’esistenza di sostenitori della teoria secondo cui la terra è piatta non cambia il fatto che, senza ombra di dubbio, la terra non è piatta. Allo stesso modo, è incontrovertibile che Stalin e Hitler si siano resi responsabili di crimini orrendi, benché i loro partigiani possano negarlo. Tutto ciò dovrebbe essere troppo ovvio per essere commentato, e lo sarebbe, salvo che in un’atmosfera di isteria così estrema da annichilire il pensiero razionale.

Ugualmente, è indiscutibile che Bush e i suoi complici abbiano commesso il “crimine internazionale supremo” – il crimine d’aggressione. Questo crimine fu definito piuttosto chiaramente dal giudice Robert Jackson, Capo di Consiglio per gli Stati Uniti a Norimberga. Un “aggressore”, aveva proposto Jackson al Tribunale nel suo discorso d’apertura, è lo Stato che per primo commette l’atto di invadere con le sue forze armate, con o senza dichiarazione di guerra, il territorio di un altro stato…” Nessuno, nemmeno i più accesi sostenitori dell’aggressione, negano che Bush e i suoi complici abbiano fatto esattamente questo.

Inoltre, potremmo far bene a ricordare le eloquenti parole di Jackson a Norimberga sul principio d’universalità: “Se determinati atti in violazione dei trattati sono crimini, lo sono sia che vengano compiuti dagli Stati Uniti o dalla Germania, e non possiamo sancire una regola di condotta criminale contro gli altri, che non possa essere invocata contro di noi.”

E’ altrettanto chiaro che le dichiarazioni d’intenzioni sono irrilevanti, anche se sono in buona fede. Documenti interni rivelano che i fascisti giapponesi fossero convinti che, devastando la Cina, stessero lavorando per renderla un “paradiso terrestre”. E anche se sembrerebbe difficile da immaginare, è concepibile che Bush e gli altri credessero di proteggere il mondo dalla distruzione delle armi nucleari di Saddam. Tutto irrilevante, benché ardenti partigiani da ogni lato possano cercare di convincersi del contrario.

Ci restano due possibilità: o Bush e soci sono colpevoli del “crimine internazionale supremo”, inclusi tutti i mali che hanno prodotto come conseguenza, oppure decidiamo che i processi di Norimberga furono una farsa e che gli alleati si siano resi colpevoli di omicidio giudiziario.

La Mentalità Imperiale e l’11 Settembre

Pochi giorni dopo l’assassinio di Bin Laden, Orlando Bosch è morto pacificamente in Florida, dove risiedeva col suo complice Luis Posada Carriles e molti altri affiliati del terrorismo internazionale. Dopo essere stato accusato di decine di crimini terroristici dall'Fbi, Bosch ottenne il perdono presidenziale da Bush I, malgrado le obiezioni del dipartimento di Giustizia che arrivò alla conclusione “inevitabile che sarebbe pregiudizievole per l’interesse pubblico che gli Stati Uniti costituissero un rifugio sicuro per Bosch.” La coincidenza di queste morti richiama alla mente la dottrina di Bush II – “già… una norma non scritta delle relazioni internazionali,” secondo l’illustre specialista di relazioni internazionali di Harvard Graham Allison – che revoca “la sovranità degli stati che forniscono rifugio ai terroristi.”

Allison si riferisce alla dichiarazione di Bush II, diretta ai talebani, che “coloro che danno rifugio ai terroristi sono altrettanto colpevoli dei terroristi stessi.” Questi Stati perciò hanno perso la loro sovranità e sono oggetto legittimo di bombardamenti e terrore – per esempio, lo stato che ha dato rifugio a Bosch e ai suoi affiliati. Quando Bush proclamò questa nuova “norma non scritta delle relazioni internazionali,” nessuno si acorse che stava invitando all’invasione e alla distruzione degli Stati Uniti e all’uccisione del suo presidente.

Nulla di tutto ciò, naturalmente, rappresenta un problema se rigettiamo il principio di universalità del giudice Jackson, e adottiamo invece il principio secondo cui gli Stati Uniti si sono auto-immunizzati contro il diritto internazionale e le convenzioni – come, di fatto, il governo ha messo in chiaro di frequente.

Vale anche la pena di riflettere sul nome che è stato dato all’operazione Bin Laden: Operazione Geronimo. La mentalità imperiale è così radicata che pochi sembrano essere capaci di intuire che la Casa Bianca glorifica Bin Laden chiamandolo “Geronimo” – il capo indiano Apache che guidò la coraggiosa resistenza agli invasori delle terre Apache.

La scelta casuale del nome riporta alla mente la disinvoltura con cui diamo alle armi mortali i nomi delle vittime dei nostri crimini: Apache, Blackhawk… potremmo reagire diversamente se la Luftwaffe avesse chiamato i suoi aerei da combattimento “Ebreo” o “Zingaro”.

L’esempio menzionato ricadrebbe nella categoria dell’ “eccezionalismo Americano,” non fosse per il fatto che la disinvolta soppressione dei propri crimini e praticamente onnipresente tra le potenze, tranne quelle che sono sconfitte e costrette a riconoscere la realtà.

Forse l’omicidio era percepito dall’amministrazione come un “atto di vendetta,” come conclude Robertson. E forse il rigetto dell’opzione legale del processo riflette la differenza tra la cultura morale del 1945 e quella di oggi, come suggerisce ancora. Qualsiasi fossero i motivi, difficilmente avevano a che fare con la sicurezza. Come nel caso del “crimine internazionale supremo” in Iraq, l’omicidio di Bin Laden dimostra che la sicurezza non è una priorità alta nell’agenda dello stato, contrariamente a quanto generalmente sostenuto dalla dottrina.

Noam Chomsky è Professore emerito presso il Dipartimento di Linguistica e Filosofia del Mit. E’ autore di numerosi bestseller di politica tra cui: 11 Settembre: c’era un’alternativa (Seven Stories Press)

(*) Articolo pubblicato su TomDispatch

10 settembre 2011

Le bugie di Sacconi sull'art. 18. Una storia operaia

Il racconto di un licenziamento "politico", avallato dalle Rsu e protetto proprio dallo Statuto dei lavoratori che il governo vuole cancellare
di Gigi Malabarba

Licenziato dalla Fiat. Una decina di anni fa, nel corso di un lunghissimo conflitto sindacale nello stabilimento Alfa Romeo di Arese, venni licenziato per motivi politici (così sarà riconosciuto) dalla direzione Fiat, che aveva acquisito il noto marchio del 'biscione' con tutti i suoi dipendenti. Allora ero operaio alla catena di montaggio e da oltre vent'anni delegato sindacale, anche con ruoli dirigenti, prima nella Fiom-Cgil e poi nel sindacalismo di base. Si dà il caso che, grazie ai meccanismi perversi di rappresentanza che dalla metà degli anni '90 conferiscono rappresentatività ai firmatari di contratti e non in misura proporzionale al voto dei lavoratori e delle lavoratrici, la maggioranza formale delle Rsu era costituita da organizzazioni che mal sopportavano la mia presenza in azienda tanto quanto la direzione Fiat.

Accordo sindacati-azienda. Per cui, dopo anni costellati da provvedimenti di espulsione attraverso liste pilotate di cassintegrati da collocare a 'zero ore' e di successive vertenze che riuscivano a vanificarne i propositi (stiamo parlando di decine di espulsioni e di reintegri.), una parte dei sindacati insieme all'azienda definisce accordi che consentono di concentrare alcuni dei lavoratori più sindacalizzati - e quindi scomodi - e alcuni invalidi in reparti destinati alla chiusura: tutti in mobilità, quindi nessuna discriminazione.

Reintegrato grazie all'articolo 18. E' attraverso il combinato disposto dell'azione dell'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori (condanna dell'azienda per attività antisindacale) e dell'articolo 18 della medesima legge (obbligo di reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa) che ottengo il diritto a rientrare nel mio posto di lavoro. Il giudice del lavoro in prima istanza e la Corte d'Appello successivamente riconoscono l'esplicita volontà persecutoria della Fiat, a cui viene imposto di cancellare il provvedimento 'politico'.

Attacco all'articolo 18. Confindustria e governo Berlusconi, con l'appoggio di alcuni sindacati complici (la definizione è del ministro Sacconi) e di insigni giuristi democratici come il professor Pietro Ichino, decidono di sferrare un attacco aperto all'articolo 18, ricevendo una straordinaria risposta di massa: chi può dimenticare le centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici che invasero Roma il 23 marzo 2002, forse la più grande manifestazione del dopoguerra?

Fine della persecuzione. La Fiat, che sperava di beneficiare dei favori del governo amico, era ricorsa in Cassazione contro il mio reintegro. Ma, a pochi giorni dalla convocazione delle parti al Palazzaccio e di fronte all'assenza delle modifiche di legge sperate; anzi, alla vigilia di un referendum che chiedeva persino l'estensione dello Statuto alle aziende con meno di 16 dipendenti, per la prima volta nella storia - a quanto risulta per casi analoghi - rinuncia alla Cassazione e pone fine alla persecuzione.

Sacconi e Maroni a favore dei licenziamenti facili. Da allora il ministro Sacconi, così come il ministro Maroni, ma non solamente loro, si affannano a studiare le strade per imporre la libertà di licenziamento attraverso operazioni di aggiramento dello Statuto, legate all'introduzione di nuove norme contrattuali, cosiddette flessibili. Non contento, nell'attuale manovra finanziaria Sacconi ha inserito il famigerato articolo 8, che consente a una rappresentanza sindacale aziendale di poter derogare con un accordo alle leggi nazionali, ivi compreso ovviamente il noto articolo 18 dello Statuto.

Ministro bugiardo. Non ho bisogno di aggiungere argomenti per definire bugiardo il ministro che nega tutto ciò, ma non certo per ignoranza, dato che per i suoi trascorsi di dirigente sindacale della componente socialista della Cgil ben conosce la materia. Oggi sarebbe sufficiente non la maggioranza delle Rsu, terminali aziendali di sindacati comparativamente rappresentativi, ma un semplice sindacato di comodo (come il padano Sin.pa) che sottoscrivesse un accordo con l'impresa per cancellare con una firma leggi e contratti.

Un attentato alla Costituzione, senza ombra di dubbio. E sarebbe giusto, oltre agli scioperi e alle iniziative legali e istituzionali di ogni tipo evocate dai palchi dello sciopero generale del 6 settembre, provare anche ad agire con forme di insubordinazione non convenzionali, quando in pericolo è la democrazia. E cancellare per decreto le organizzazioni sindacali non complici è questo.

Ma come la mettiamo con l'accordo del 28 giugno sottoscritto dalle parti sociali, Cgil compresa, che consente le stesse identiche deroghe, anche quella sui licenziamenti, purchè si tratti di accordi aziendali sottoscritti dalla maggioranza delle Rsu dei sindacati firmatari di quel 'patto sociale'? In tutto il gruppo Fiat la Fiom e i sindacati di base non firmatari dei diktat di Marchionne sarebbero cacciati dalle fabbriche perché 'minoranza'! L'operaio e delegato sindacale Malabarba sarebbe stato licenziato e mai più reintegrato e tutta quella sollevazione popolare del 2002-2003 buttata al vento. Sacconi è un bugiardo, ma Susanna Camusso per poter contrastare la liquidazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori deve ritirare quella firma di giugno, che ha aperto la strada al decreto governativo, come le chiedono la Fiom e tutte le forze sindacali non complici.

Mestre 06 settembre 2011 - sciopero generale



04 settembre 2011

Sciopero generale 6 settembre: non paghiamo il loro debito! A loro la crisi a noi la rivolta!


Governo e Parlamento stanno eseguendo gli ordini ricevuti dalla Banca Centrale Europea, dalle istituzioni europee, dagli istituti finanziari e da Confindustria: affrontare la crisi capitalistica imponendo un vero e proprio massacro sociale alle classi popolari. La doppia manovra del 6 luglio e del 13 agosto estorce nel giro di 4 anni e in diverse forme 130 miliardi di euro ai lavoratori e ai ceti popolari per trasferirli alle banche, ai padroni e agli speculatori, per garantire i loro bond , i loro titoli tossici e i loro profitti.
Lo fa attraverso l’aumento dei tickets sanitari, riducendo il valore delle pensioni e aumentando ulteriormente l’età pensionabile, taglieggiando ancora i lavoratori pubblici e abolendo di fatto, con le deroghe aziendali, compresa quella sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, i contratti nazionali di lavoro, con drastici tagli alle agevolazioni fiscali e assistenziali, con gigantesche riduzioni della spesa pubblica nazionale e degli Enti Locali e un conseguente tracollo dei servizi pubblici, ulteriori liberalizzazioni e privatizzazioni cercando di capovolgere la vittoria dei SI’ nei referendum.
Tutto questo, si dice, per pagare il debito dello Stato. Ma questo debito è nato soprattutto:
• dalle massicce riduzioni fiscali elargite alle classi ricche e dalla loro evasione fiscale;
• dagli enormi finanziamenti dello Stato per tenere in piedi le banche private.
RIFIUTIAMO DI RICONOSCERE E DI PAGARE UN DEBITO ILLEGITTIMO, CHE NON E’ STATO FATTO DA NOI, che serve a garantire le speculazioni dei potentati finanziari.
Devono pagare coloro che non hanno mai pagato: il capitale, le banche e le rendite. Bisogna imporre una patrimoniale sulle fortune accumulate nel tempo, la nazionalizzazione delle banche; e, dopo decenni di stangate, una redistribuzione a favore delle classi lavoratrici, un reddito sociale per i senza lavoro, l’istituzione di un salario minimo di garanzia, la distribuzione del lavoro riducendo l’orario, un vasto piano di servizi pubblici e di risanamento ambientale, la drastica riduzione delle spese militari e la fine delle missioni di guerra all’estero, la rinuncia alle costosissime, inutili e dannose grandi opere come la TAV, il ponte sullo Stretto di Messina o il MOSE. Occorre un grande schieramento di lotta e di mobilitazione, per costruire rapporti di forza capaci di bloccare la manovra, affermando gli interessi e i bisogni di lavoratori, lavoratrici, disoccupati, precari.
L' “opposizione” parlamentare approva di fatto le misure liberiste imposte dall'Europa e dalle banche, rammaricandosi solo di non essere lei a gestirle. Il governo Berlusconi ormai logoro, mostra il vero volto della Lega Nord, forza antipopolare legata ai poteri economici e realmente ostile alle classi sociali più deboli.
Lo sciopero generale del 6 settembre, dichiarato dalla CGIL “per modificare una manovra ingiusta e iniqua”, dopo che peraltro solo appena poche settimane fa aveva firmato negativi e pesantissimi accordi di “patto sociale” con i sindacati complici e la Confindustria (accordo del 28 giugno e documento del 4 agosto), sciopero dichiarato per la stessa data anche dall’USB e altri sindacati di base su una piattaforma di difesa dei diritti dei lavoratori “contro la dittatura delle banche e dell’Unione europea”, costituisce un primo momento di lotta per tutte le lavoratrici e i lavoratori, per cercare di fermare l’aggressione violenta di governo e padroni.
La lotta non potrà però essere breve e risolversi in un giorno; servono comitati unitari e autorganizzati per una mobilitazione prolungata che duri nel tempo per piegare un padronato che vuole la nostra pelle. E i lavoratori dovranno muoversi insieme alle nuove generazioni e ai protagonisti delle nuove ribellioni sociali. Dobbiamo resistere unminuto più dei padroni e dei governi, con gli scioperi nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro e con le tende nelle piazze.

Il 6 settembre partecipiamo alle manifestazioni organizzate sul territorio!

Sinistra Critica - Organizzazione per la sinistra anticapitalista