26 ottobre 2011

Tutte/i a Nizza contro il G20!


“Les peuples d’abord. Pas la finance!”. Potremmo tradurlo in maniera un po’ libera: le nostre vite valgono più della loro finanza.
Questo slogan – che esprime un sentimento anticapitalista sempre più diffuso di fronte alla crisi, in Europa e non solo – è l’invito della coalizione francese “Collectif national contre G8/G20” per essere tutte/i a Nizza/Cannes dal 1 al 4 novembre 2011 in occasione del vertice dei G20 (che si terrà dal 3 al 5 novembre al resort Riviera a Cannes).
I mesi scorsi sono stati caratterizzati dalle proteste e dalle rivolte in diversi paesi europei e da vere e proprie rivoluzioni nei paesi arabi; mobilitazioni che hanno messo in luce – nell’evidente diversità dei contesti – l’esistenza di una diffusa consapevolezza dell’intollerabilità del sistema economico e politico in cui viviamo e una forte insofferenza per la gestione della crisi da parte dei vecchi e nuovi padroni del mondo, che scaricano il costo della loro crisi sui poveri, su lavoratrici e lavoratori, sulle giovani generazioni a cui viene negato un futuro, su interi popoli.
La crisi economico-finanziaria naturalmente colpisce soprattutto i paesi più poveri, ma le conseguenze sono drammatiche anche nei paesi industrializzati. Di fronte a questo le scelte politiche dei governi – che hanno privilegiato il salvataggio del settore finanziario e bancario - si sono incentrate esclusivamente su misure di austerità, e un rilancio di misure che sono già all’origine dell’impoverimento di lavoratrici e lavoratori e che provocano ulteriori conseguenze negative (aumento della disoccupazione e della precarietà, crisi degli alloggi, taglio del sistema di welfare...).
Il vertice del G20 rappresenta il tentativo da parte delle principali economie di trovare qualche forma di regolazione in campo finanziario, cercando di coinvolgere le economie dei paesi in crescita nella gestione della crisi globale. Non è detto che questo tentativo porti a qualche risultato concreto – ma è certo che non verranno toccati i due assi centrali delle politiche globali che stanno soffocando le popolazioni in tutto il pianeta: la gestione del debito e le politiche di austerità.
La crisi però non può più essere affrontata solamente con misure – comunque necessarie - di “regolazione” del mercato finanziario (tassa sulle transazioni finanziarie, eliminazione dei paradisi fiscali, maggiori controlli su banche e finanziarie), ma rende urgente misure radicali anticapitaliste che partano dal rifiuto del pagamento del debito illegittimo (già pagato ampiamente da lavoratici/lavoratori e poveri in tutto il pianeta e pretesto per il taglio delle spese sociali e dei servizi pubblici e per una nuova stagione di privatizzazioni), dall’opposizione alle misure di austerità (recuperando risorse per le politiche sociali colpendo profitti, rendite, spese militari e spese per inutili grandi opere continentali), dalla difesa di diritti e poteri di lavoratrici e lavoratori e l’istituzione di forme di reddito sociale.
Il programma delle iniziative prevede una manifestazione di massa il 1 novembre a Nizza, un “controvertice” a Nizza con incontri e dibattiti il 2 e 3 novembre (http://www.mobilisationsg8g20.org/).
Anche dall’Italia tutte/i a Nizza!
Sinistra Critica parteciperà alla manifestazione del 1° novembre a Nizza con la spezzone anticapitalista organizzato dal “Nouveau Parti Anticapitaliste” francese, insieme alle altre organizzazioni della sinistra anticapitalista europea (e di nord africa e Medio oriente).
Un nostro rappresentante interverrà anche al workshop organizzato dal Npa all’interno del forum, il 2 novembre.
Per partecipare con noi, informazioni a: Torino: sinistracriticato@yahoo.it; 340.9658306 Milano: info@sinistracriticamilano.it; 333.4665107 Genova: sinistracriticage@gmail.com; 339.2118014

23 ottobre 2011

23 ottobre: No TAV - Appello


Diamoci un taglio
A mani nude, a volto scoperto, a testa alta

Il 23 ottobre 2011 la Val di Susa sarà nuovamente protagonista: taglierà le reti che la vedono ostaggio della lobby del TAV dicendo no ai tagli allo stato sociale, alla sanità, alla cultura.

Da quattro mesi una parte della valle è militarizzata, una vasta area è off-limits per i cittadini, recintata e protetta da reti posate illegalmente e difese da centinaia di poliziotti che proteggono un “cantiere che non ‘c’è”.
Da quattro mesi chi denuncia questa situazione e protesta davanti alle recinzioni è bersaglio di migliaia di candelotti lacrimogeni al CS (un gas tossico vietato dalle convenzioni internazionali) e non si contano le intimidazioni a singoli cittadini e all’intero movimento notav.

Oggi appare sempre più evidente la follia di un progetto TAV Torino-Lione non solo per la sua inutilità dal punto di vista trasportistico, ma anche e soprattutto per l’enorme spreco di risorse sottratte alla collettività: a nessuno può sfuggire la volontà criminale di una classe politica incapace e corrotta, al servizio di quel sistema di “finanzieri senza volto” rappresentato dalle grandi banche e dai fondi di gestione, che non mostra alcun pudore a voler imporre l’opera mentre taglia pesantemente i servizi ai cittadini.

Il TAV è la punta dell’iceberg di questa follia imposta da governi che non rispondono più ai propri elettori (in Val di Susa viene negata ogni minima forma di dissenso politico) ma a quel mondo opaco che specula sulla crisi economica. E’ lo stesso mondo pronto a prestare i capitali necessari alla realizzazione del TAV costringendo tutti i cittadini italiani a nuovi sacrifici per rimborsare quei prestiti e a subire nuovi tagli ad uno stato sociale ormai al collasso.

Le reti illegali che in Val di Susa delimitano un cantiere che non c’è difendono in realtà questo sistema.

In Val di Susa sono sospesi i diritti, la democrazia è ferita, le reti delimitano un’area di illegalità mentre una Procura della Repubblica strabica si scatena alla ricerca di improbabili sovversivi e criminali al di fuori delle reti: nei loro confronti usa le denunce e il carcere per intimorire un’intera valle e nel frattempo le ditte che manovrano ruspe e trivelle (alcune delle quali in evidente odor di mafia) si sentono protette e il partito degli affari si sente autorizzato a sperare che prima o poi partano i cantieri.

Il 23 ottobre La Val di Susa dimostrerà loro che aprire i cantieri è una speranza vana: migliaia di cittadini marceranno per tagliare le reti, per aprire varchi nel recinto, per riaprire spiragli di democrazia.
In migliaia dimostreremo a testa alta che con la forza ed il sopruso non è possibile aprire alcun cantiere, né oggi né mai.
Lo faremo a mani nude, portando solo gli strumenti per abbattere le reti; lo faremo a volto scoperto perché non abbiamo nulla da nascondere, ognuno mostrerà la sua faccia pulita che chiede soltanto rispetto. Daremo un taglio alle reti e non porteremo alcuna offesa a chi dovrebbe difendere la legalità ed è mandato invece a coprire l’illegalità di recinti abusivi che offendono la nostra dignità.

In migliaia taglieremo le reti invitando chi sta dall’altra parte a desistere da violenze e rappresaglie, dal lancio di lacrimogeni e quant’altro: se l’invito non verrà accolto ci difenderemo dai gas, e chi dovesse dare l’ordine di aggredire cittadini pacifici che chiedono giustizia se ne assumerà la responsabilità di fronte al paese che ci guarda.

Migliaia di cittadini mostreranno che sono loro dalla parte della legalità e non hanno paura di difendere il loro futuro, che la loro è una lotta per la difesa dei beni comuni.

Il 23 ottobre sarà una giornata di resistenza attiva che coinvolgerà un’intera valle.
A tutti coloro che condividono le nostre ragioni e ci sostengono, chiediamo di dare visibilità alla nostra azione, a tutti chiediamo di comprendere il valore del nostro gesto, di rispettare il nostro modo di protestare civilmente.

Aprire varchi nelle reti, mostrare che non ci rassegniamo alla cancellazione di spazi di partecipazione democratica è il nostro obiettivo. Il risultato di questa giornata non si misurerà in metri di recinzione abbattuti ma sarà nella determinazione, visibile e forte, di una popolazione che non si rassegna al silenzio; sarà la dimostrazione che questo folle progetto TAV non potrà che rimanere sulla carta; il suo valore sarà nell’azione di massa coraggiosa, pacifica ma determinata a dare un taglio alle reti e agli inganni di una politica che chiede voti pensando solo alle tangenti generosamente offerte dall’alta velocità. L’Europa ne prenda atto, governo, partiti e lobby si rassegnino e non abbiano paura di perdere la faccia: noi la nostra faccia ce la mettiamo sempre e continueremo a farlo.

La lotta della Val di Susa non appartiene solo a noi, in questi anni ne abbiamo avuto continue conferme: è diventata anch’essa un bene comune da difendere.

Il movimento NO TAV

19 ottobre 2011

Oltre il 15 ottobre, per una rivolta permanente


Nelle nostre intenzioni, la giornata del 15 ottobre doveva essere un grande momento di avvio (ripetiamo, avvio) di un processo di mobilitazione collettiva, permanente, che nascesse dal basso, dalla libera condivisione e dall’autodeterminazione di ogni singolo e singola.Una riappropriazione collettiva e stabile dello spazio pubblico sempre più urgente visto il precipitare della crisi economica e sociale, il carattere epocale e cruciale di questi giorni, di queste settimane, di questi mesi. Un processo inedito di mobilitazioni permanenti in corso in molti paesi, dagli Usa al Portogallo e alla Spagna ma che in Italia non è stato ancora possibile innescare.
Le notizie sul 15 ottobre dal mondo fanno crescere in noi la convinzione che questo processo si sarebbe potuto innescare anche in Italia proprio in quella giornata e invece così non è stato.
L’irriducibile complessità della giornata del 15 ottobre ci obbliga a riflessioni approfondite e pure a mantenere la calma, il sangue freddo, a reprimere sul nascere ogni, opposta, ma simmetrica, reazione emotiva di fronte a quello che è successo sabato, ai commenti di molti, così come all’utilizzo strumentale che di quella giornata si sta facendo da più parti.
A Roma hanno manifestato più persone che in qualsiasi altra capitale europea, questo è il dato che per noi più di tutti sintetizza l’occasione perduta. Sì perché alle nove o alle dieci di sabato sera eravamo tutti e tutte a casa e per questo ci domandiamo: su cosa si misura la radicalità di una pratica?
Noi siamo convinti che si misuri sulla capacità di raggiungere un obiettivo politico, di comunicarlo e farlo percepire come praticabile a livello di massa. Quasi un anno fa, il 14 dicembre, scontrarsi con chi difendeva un despota e un palazzo corrotto era un obiettivo politico che in tanti hanno sentito proprio. Nessuno ha avuto la sensazione di essere stato sovradeterminato da pochi manifestanti quel giorno, perché era chiaro a tutti da dove veniva e dove voleva arrivare quella rabbia. Sabato questo non è successo. Siamo scesi in piazza con le nostre tende, per rimanerci, per occupare una piazza e aprire uno spazio pubblico di mobilitazione permanente. Un bisogno che abbiamo ritrovato nei volti delle centinaia di persone che abbiamo incontrato sabato con le tende in spalla.
La piazza San Giovanni che avevano in mente una parte degli organizzatori non era quello che secondo noi serviva, non superava l’inutile ritualità, non avrebbe messo in campo elementi realmente utili alla costruzione del movimento necessario. Allo stesso modo però, non è stato utile nemmeno quanto accaduto da via Cavour a via Merulana, quando azioni in classico stile minoritario hanno cambiato il volto di un’intera manifestazione. Per questo abbiamo proposto altro, quell’altro che si sta dando ovunque tranne che in Italia. Una proposta di mobilitazione permanente che ci appare la più radicale, perché inedita, perché permanente, perché riproducibile, perché democratica!Chiaramente è differente il nostro giudizio su quanto accaduto a Piazza San Giovanni, dove migliaia di persone, soprattutto giovani, hanno resistito e si sono opposti alle cariche scellerate e criminali delle forze dell’ordine, che non hanno esitato a caricare con mezzi blindati ed idranti un’intera piazza.
Ovviamente dal giorno dopo è subito partito il massacro mediatico che porta inevitabilmente alla divisione fra buoni e cattivi. Il dividi et impera, insomma, era annunciato!
I giornali chiedono condanne e denunce pubbliche dei violenti. Una denuncia pubblica la vogliamo fare: polizia, carabinieri e finanza hanno tenuto un comportamento criminale, con le cariche e i caroselli di blindati su una piazza composita ed eterogenea, dimostrando la volontà di colpire indiscriminatamente l’intero movimento.
Per questi motivi non abbiamo dubbi nell’esprimere la nostra piena solidarietà a chi da giorni sta subendo irruzioni e perquisizioni in casa, a chi viene sbattuto in prima pagina e consegnato al massacro mediatico, a chi è stato arrestato e subirà la violenza di un sistema sempre più repressivo.Ci opporremo con tutte le nostre forze alle proposte di Maroni su nuove leggi speciali contro le manifestazioni e contro chi manifesta. Come al solito si vuole ridurre un problema sociale, frutto della crisi economica e della crisi della rappresentanza politica, ad un problema di ordine pubblico. Come al solito la ricetta parla di repressione e di limitazione degli spazi democratici e di dissenso.
Da oggi vogliamo chiudere il capitolo 15 ottobre e guardare avanti. Vogliamo ripartire dalle centinaia di migliaia di persone scese in piazza e che hanno dimostrato che in Italia è presente una larghissima opposizione sociale.
Questo movimento ha bisogno di potersi incontrare, di discutere liberamente, di condividere forme e contenuti. Questo movimento ha bisogno di poter sedimentare lentamente teorie e pratiche nuove e non di ripeterne di precostituite.
Questo movimento deve legittimarsi e non imporsi. Deve riuscire a catalizzare la rabbia e l’indignazione sociale in un percorso condiviso, ampio e partecipato, in un soggetto che sappia contrastare, contestare e sconfiggere ogni giorno le politiche capitaliste e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Questo movimento va dunque costruito.Ripartiremo dalle nostre facoltà, dai luoghi di studio e di lavoro. Ripartiremo dalle alleanze sociali che in questi anni hanno visto scendere in piazza gli studenti al fianco dei lavoratori, dei movimenti per i beni comuni, dei migranti, delle donne, dei precari.Siamo scesi in piazza gridando “Noi il debito non lo paghiamo”. Vogliamo trasformare questo slogan in realtà e far pagare la crisi a chi l’ha provocata!

AteneinRivolta - Coordinamento Nazionale dei Collettivi

17 ottobre 2011

15 ottobre: il nodo è l'autodeterminazione dei movimenti

Nota dell'Esecutivo Nazionale di Sinistra Critica

Si possono utilizzare sguardi e criteri diversi per descrivere quello che è accaduto a Roma il 15 ottobre e posizionarsi di fronte agli accadimenti. A noi interessa poco il dibattito sui “violenti” o sul “complotto”, sui “cattivi” a cui si contrappongono i “buoni”. Il nostro sguardo e il nostro punto di vista si colloca decisamente dentro al movimento che vogliamo costruire e si preoccupa delle sue potenzialità, della sua crescita, della sua efficacia e, soprattutto, della sua possibilità di decidere democraticamente. Di autodeterminarsi. Questo è il punto che vogliamo mettere al centro di questa riflessione perché, allo stesso tempo, questa possibilità è la grande sconfitta della giornata del 15 ottobre.

1) Le potenzialità del 15 ottobre sono evidenti dai numeri di una manifestazione in grande parte autorganizzata sia pure dal contributo di molte organizzazioni. Organizzazioni, però, che non sono quella “potenza politica” che c’è stata in altri tempi e quindi il numero di coloro che in vario modo hanno sfilato a Roma – 200mila ci sembra la cifra più credibile – dimostra una forza d’urto che è importante registrare e valorizzare. Il contrasto alle politiche messe in campo dai governi liberisti – di centrosinistra e di centrodestra, poco importa – in questo paese continua a essere importante anche se politicamente si colloca in forme diverse o, forse, non si colloca affatto. C’è una massa critica che resiste che costituisce l’anomalia italiana, il segno di un paese che non si è anestetizzato nonostante 17 anni di berlusconismo e, sottolineiamo, di antiberlusconismo deteriore. Da qui occorre ripartire.

2) Cosa ci facciamo con questa potenzialità, cosa avremmo potuto fare se il 15 ottobre fosse andato diversamente? Come si trasforma la disponibilità a lottare in mobilitazione permanente? Questa domanda è importante porsela subito perché aiuta a dare un giudizio non impressionista sui fatti del 15. Una buona componente della manifestazione, tra cui noi con molta determinazione, aveva proposto di chiudere il corteo con una grande accampata: una forma politica che smentisse la ritualità della sfilata e non seguisse facili avanguardismi. A cosa serviva l’accampata? A compiere un atto simbolico di contrapposizione al potere dominante – sia esso il governo o la Banca d’Italia o anche lo stesso Quirinale – a definire uno spazio pubblico di dibattito e autorganizzazione e, quindi, a predisporre i primi meccanismi per la nascita di un movimento vero: organizzato dal basso, autodeterminato, dotato di un programma avanzato. Tutti questi ingredienti, infatti, oggi non esistono. C’è un umore generale, un’incazzatura diffusa, la disponibilità a venire a Roma ma, poi, nei territori, nei luoghi di lavoro, di studio, nei luoghi del non lavoro, nei luoghi migranti manca ancora la densità specifica e tipica di un movimento di massa. Per noi, il 15 ottobre serviva a far germogliare tutto questo.

3) Serviva anche, quella giornata, a offrire uno spazio d’azione utile a coloro che dovrebbero essere i veri protagonisti di un movimento di massa duraturo e efficace: i soggetti reali, gli operai, gli studenti, i precari, le donne, i migranti, i comitati per i beni comuni e così via. Anche qui, se oggi ci sono segnali importanti in questa direzione, quelle soggettività sono troppo spesso rappresentate solo dalle organizzazioni di riferimento: sindacali, qualche volta sociali, in parte partitiche. I soggetti reali non sono ancora i protagonisti e questa resta una priorità di fase che ci porta, con questo spirito, a diffidare della solita forma “parlamentare” di direzione del movimento con riunioni di intergruppi che, se forse andavano bene dieci anni fa a Genova, oggi non riescono a interpretare la fase. Per la natura diversa, a volta contrapposta, dei soggetti in questione, per alcune coazioni a ripetere indigeste e per una forma che pensa di assemblare il molteplice con una dimensione che non rappresenta più tutto quello che si muove. Il 15 è anche una sconfitta di quella dimensione e questo va tenuto in considerazione.

4) L’azione portata avanti dai settori che hanno animato gli scontri costituisce una proposta politica molto chiara e, anche per questo, attrae una porzione di giovani in gran parte precari che non va banalizzata. Tanti giovani si sono uniti agli scontri spesso solo per esprimere la frustrazione che proviene dalla crisi. Ma, appunto, la proposta politica è in larga parte questa: offrire una sede scenica per dare sfogo alla frustrazione. Inscenare scontri e un conflitto a uso delle telecamere per poi farlo rappresentare da un migliaio di giovani "incazzati" non ci sembra però una proposta in grado di reggere nel tempo se non con imprevedibili, quanto controproducenti, escalation. Escalation che abbiamo già visto e che tra i tanti guasti prodotti hanno comportato l'affossamento dei movimenti di massa.

5) La decisione di forzare la situazione ha contraddetto quelle che ci sembrano le priorità fondamentali: la costruzione di un movimento, la sua crescita ed efficacia, la sua autodeterminazione. Il movimento non è riuscito a nascere sabato in piazza, non avrà maggiore facilità a crescere e soprattutto è stato determinato da soggettività che non rispondono a nessuno.

6) In realtà, quello cui abbiamo assistito è stata la stanca replica di un film troppe volte visto negli ultimi decenni. La nascita di un movimento è scambiata per le forme e il gesto estetico di cui si dota; l’autodeterminazione di massa, paziente e complessa, viene aggirata tramite una scorciatoia praticabile da pochi; viene assolutamente minimizzata la difficoltà a riportare su scala locale, sul posto di lavoro, di studio o quant’altro, la dinamica che si sviluppa a livello centrale; il passaggio democratico che richiede tempo e orizzontalità viene bypassato da una scelta elitaria, avanguardista, verticalizzata e, facciamo notare, fondamentalmente maschile.

7) Per questo pensiamo che quanto avvenuto il 15 ottobre, con gravi responsabilità della polizia per il modo irresponsabile con cui è intervenuta in piazza San Giovanni, si ritorce contro il movimento e lo spinge all’indietro, tutto sulla difensiva e in balia di quei settori moderati ed elettoralisti – presenti in forze al suo interno e pronti ad approfittare del 15 ottobre – che in questo contesto recuperano forza e centralità.

8) Noi non ci riconosciamo in queste forme ma solo in quelle che vengono espresse dalla maturità e dalla consapevolezza dei soggetti sociali autodeterminati. I mezzi e il fine vanno accordati e l’unico modo per farlo, l’unica “moralità” che si può riconoscere all’azione politica e quella che proviene dalla democrazia del movimento, dalla sua autodeterminazione e quindi dalla sua autorganizzazione.

9) Questo è il punto che vogliamo proporre davvero alla discussione. L’unico modo per uscire da questa impasse e dalla frustrazione che si registra a livello generalizzato. Il movimento deve saper affrontare le proprie scadenze avendo deciso cosa fare nelle piazze e come difenderlo politicamente, socialmente e materialmente. Per fare questo occorrono modalità che in Italia raramente si sono date visto che la grammatica dei movimenti è stata in larga parte monopolizzata dalla svalorizzazione e dal burocratismo della sinistra istituzionale e dal sostituzionismo di forze "antagoniste" che, a quanto pare, continuano a riproporre lo stesso schema già fallimentare.

10) Proponiamo, dunque, di ripartire dall’indignazione dei soggetti reali, dagli studenti, dai lavoratori, dai precari, dai migranti, dalle donne. Ci impegniamo soprattutto nella costruzione di movimenti reali a partire da questi soggetti Solo questa dimensione può fare davvero la differenza.

11) Rilanciamo l’idea dell’accampamento, ovviamente da reinventare, in forme non estemporanee né calate dall’alto ma come espressione delle lotte di soggetti reali.

12) Pensiamo che la lotta contro la crisi e la sua declinazione politica vada condotta rafforzando l’autorganizzazione, il movimento di massa, la sua disponibilità al conflitto sulla base della capacità di dotarsi di una vera piattaforma di lotta che dica che il debito non lo paghiamo e che per farlo proponiamo un’altra agenda: moratoria unilaterale sul debito pubblico, realizzazione di una banca pubblica nazionale, tassazione fortemente progressiva di rendite e patrimoni, salario minimo, reddito sociale per giovani e precari, riduzione dell’orario di lavoro, riduzione drastica delle spese militari, difesa dei beni comuni contro grandi opere come la Tav, abolizione del legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro per i migranti, estensione della democrazia diretta.

13) Siamo scesi in piazza al grido di “a casa non si torna”. Questo slogan, dopo il 15 ottobre, è ancora più attuale.

Esecutivo Nazionale Sinistra Critica - Organizzazione per la Sinistra Anticapitalista

Il vero volto di Di Pietro...


Approvata il 22 maggio 1975 la legge Reale fornisce disposizioni a tutela dell'ordine pubblico. E accresce notevolmente i poteri e le immunità delle forze dell'ordine. In particolare, l'articolo 14 amplia i casi in cui è legittimo l'uso delle armi da parte della polizia. Esso autorizza l'agente a sparare non solo "quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all'autorità", ma più specificatamente "per impedire delitti di strage, naufragio, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata, sequestro di persona", come oggi è previsto dall'articolo 53 del codice penale.
L'articolo 3 della legge chiarisce che, "anche fuori dei casi di flagranza, quando vi è il fondato pericolo di fuga, gli ufficiali e gli agenti della polizia giudiziaria o della forza pubblica possono fermare le persone nei cui confronti ricorrano sufficienti indizi di delitto concernenti le armi da guerra o tipo guerra". Dunque, anche quando non si è colti sul
fatto a utilizzare armi durante manifestazioni pubbliche ma sussiste il pericolo di fuga di chi ne ha fatto e potrebbe farne uso, le forze dell'ordine sono autorizzate a intervenire. Tra le armi "proibite" figurano i fucili a canna mozza, le loro munizioni e altro materiale esplosivo. Inoltre le forze dell'ordine possono trattenere i fermati per il tempo necessario ai primi accertamenti. Entro 48 ore la notizia del fermo deve essere comunicata all'autorità giudiziaria, la quale, dopo l'interrogatorio del fermato, entro ulteriori 48 ore, deve procedere alla convalida del fermo con un decreto motivato.

L'articolo 4 indica che "in casi eccezionali di necessità e urgenza che non consentono un tempestivo provvedimento dell'autorità giudiziaria" le forze dell'ordine possono procedere "all'identificazione e alla perquisizione sul posto, al fine di accertare l'eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione" di coloro il cui atteggiamento o presenza non appaia giustificabile in relazione alle circostanze di tempo e luogo. Insomma, alle prime azioni ritenute inopportune e ingiustificabili, gli agenti di polizia e carabinieri sarebbero autorizzati a intervenire, anche perquisendo sul posto le eventuali persone coinvolte.
L'articolo 5 vieta di prendere parte a manifestazioni pubbliche "facendo uso di caschi protettivi o con il volto del tutto o in parte coperto mediante l'impiego di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona". Niente caschi dunque, nè passamontagna, cappucci o maschere antigas per chi vuole scendere in piazza. Chi non rispetta questo principio è punito con l'arresto da uno a due anni e con l'ammenda da 1.000 a 2.000 euro. Alla norma in passato si è più volte fatto riferimento nei casi delle donne musulmane che indossano burqua e niqab nei luoghi pubblici e che, come recita l'articolo 5, renderebbero difficile il loro riconoscimento.

14 ottobre 2011

Rivolta il debito, la campagna!

Tutto quello che volete sapere sul debito e su come non pagarlo.
http://www.rivoltaildebito.org/
Servirebbe una bella botta, una rivoluzione. Mario Monicelli Siamo lavoratori e lavoratrici, studenti, precari, attivisti e attiviste dei movimenti sociali, di difesa dei beni comuni, delle donne, lgbt, della solidarietà internazionale, convinti che occorra sollevarsi contro il capitalismo e la sua crisi. Ci sentiamo parte del Movimento spagnolo 15M, della rivolta greca, delle rivoluzioni arabe, dei movimenti americani e di tutti coloro che hanno deciso di prendere parola, di mettersi in gioco, di sollevarsi contro l’ingiustizia.
La crisi economica globale è una crisi del capitalismo, dei suoi politici e delle caste che lo difendono, dei suoi meccanismi interni di funzionamento: massimizzazione del profitto e compressione dei diritti sociali, distruzione ambientale, guerra e povertà.
Noi pensiamo che le nostre vite valgono più dei loro profitti.
Rivolta il debito è più di uno slogan, è campagna nel movimento che vuole ribaltare il tavolo su cui giocano banchieri e capitalisti per far pagare a noi questa crisi.
Rivolta il debito è una iniziativa aperta, virale, contagiosa, fatta di azioni dirette e dibattiti, approfondimenti e manifestazioni, partecipata da tutti e tutte coloro che la condividono e vogliono utilizzarla per organizzare la rivolta!
Vogliamo costruire una grande campagna per l’annullamento del debito e ci sentiamo parte della grande assemblea del 1 ottobre nata sull’onda dell’appello “Dobbiamo fermarli”. Facciamo riferimento all’esperienza internazionale del Cadtm, il movimento per l’Annullamento del debito del terzo mondo che ormai si è concentrato sui debiti dei paesi del “nord” del mondo.
Ma vogliamo andare ancora oltre: puntiamo a un grande movimento di massa, plurale, democratico e soprattutto, autorganizzato come metodo decisivo dell’azione politica.
Rivoltare il debito per attraversare, suscitare e mettere in rete tutti i nodi dello scontro sociale e dei movimenti, come premessa indispensabile per difendere i diritti del lavoro, spezzare la precarietà, affermare i diritto allo studio, garantire la dignità e i diritti delle donne, la libertà sessuale, garantire i territori dall’assalto del profitto. Vogliamo costruire un movimento generale per la trasformazione del nostro paese e di un mondo che sembra non reggere più il peso delle proprie contraddizioni.
Vogliamo un altro mondo fondato sui bisogni e non sui profitti. Vogliamo un'altra società, alternativa al capitalismo, al suo sfruttamento unito ad autoritarismo e corruzione. Una società fondata sulla democrazia radicale, la partecipazione e in cui a ciascuno sia dato secondo i suoi bisogni e da ciascuno provenga a seconda delle proprie capacità. “Servirebbe una bella botta, una rivoluzione” ha detto il grande Monicelli. Noi vogliamo esserne parte.

Il 15 ottobre scendiamo in piazza per rimanerci! OccupyRome!


"Il 15 ottobre è necessario andare oltre un corteo rituale, oltre una semplice sfilata che si concluda a San Giovanni. Vogliamo scendere in piazza per rimanerci, accamparci e porre un problema al potere, fino a quando questo governo non se ne sarà andato."
Editoriale di AteneinRivolta verso il 15 ottobre

Era fine settembre dell'Anno 2008 quando la crisi dei mutui Subprime partendo dagli U.S.A. ha travolto il resto del globo. Non c'è voluto molto prima che la crisi economica venisse a bussare alla porta del "bel paese" chiedendo il conto (salato) di anni di sprechi, di speculazioni, di sfruttamento, di politiche scellerate che da sempre svendono i diritti dei cittadini per i profitti di pochi (soliti noti).

La storia non cambia, il metodo è sempre lo stesso: a pagare sono sempre i soliti, chi lavora, chi produce, chi rivendica una vita libera e dignitosa, ed ecco tagli all'università con la legge 133 del 2008 e successiva riforma Gelmini, ecco l'attacco di Marchionne ai diritti degli operai, ecco le solite facilonerie nei confronti degli impiegati della funzione pubblica.

"Niente di nuovo sul fronte occidentale" direbbe Erich Maria Remarque, ma è davvero tutto come sempre? Nient'affatto! non contenti i signori dell'economia mondiale si sono buttati a capofitto - sempre con i soldi dei cittadini - nei mercati finanziari, ed ecco l'imminente catastrofe dinnanzi ai nostri occhi: l'Europa è a rischio default, a cominciare dalla Grecia, la cosiddetta "crisi del debito" si sta espandendo a macchia d'olio, e così anche l'Italia è entrata nell'esclusivo club dei P.I.I.G.S. (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda).

Sono anni ormai che subiamo la retorica del debito, “abbiamo speso troppo”, “bisogna stringere la cinghia”, “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e poi il più eloquente “bisogna tagliare!”. Noi studenti li conosciamo bene questi tagli: in tre anni l’università (triennio 2008 – 2011) ha visto una decurtazione del FFO pari al – 12.95%, scompaiono le borse di studio - se mai ci fossero davvero state - i servizi vengono tagliati, le tasse aumentano, per non parlare di quello che accade al di fuori del mondo accademico. L’ultima manovra finanziaria varata quest’estate ha tolto dalle tasche dei cittadini 43 miliardi di euro! E, ovviamente, questi soldi andranno tutte alle banche e in maniera indiretta alle multinazionali. Ci troviamo a pagare doppiamente un debito che non abbiamo contratto noi: lo paghiamo una volta perché ogni anno fette di P.i.l. sempre più ampie vengono sottratte a chi produce per fare gli interessi dei banchieri e lo paghiamo una seconda volta perché ora, dopo che questi ultimi hanno creato la bolla di speculazioni finanziarie, hanno deciso di salvarsi con soldi che non gli appartengono.

Questo debito non l’abbiamo contratto noi e dunque IL LORO DEBITO NON LO PAGHIAMO! Con questo spirito ci accingiamo ad affrontare le giornate di mobilitazione che abbiamo davanti! Si comincia il 12 ottobre davanti la Banca d’Italia in occasione del convegno internazionale "L'Italia e l'economia mondiale, 1861-2011" al quale parteciperanno il Presidente della Repubblica Napolitano e Mario Draghi, per restituire al mittente la lettera firmata da Draghi-Trichet e contestare la manovra finanziaria dettata dalla BCE.

Si continua il 15 ottobre nella giornata internazionale contro il debito, riprendendoci le strade e facendo sentire la nostra voce contro la dittatura finanziaria imposta dalla Troika formata da BCE, FMI e Commissione Europea.

Pensiamo che queste date siano solo un inizio di mobilitazione che dovrà necessariamente andare oltre, innescare una dinamica di mobilitazione permanente imparando dagli esempi greci e spagnoli.

Per questo il 15 ottobre è necessario andare oltre un corteo rituale, oltre una semplice sfilata che si concluda a San Giovanni. Vogliamo scendere in piazza per rimanerci, accamparci e porre un problema al potere, fino a quando questo governo non se ne sarà andato. Oggi scegliamo di non lanciare un luogo e un orario per l’accampamento perché vogliamo che questa non sia una proposta di parte né un accampamento di qualcuno.

Ne siamo consapevoli, non basterà una giornata di lotta per ribaltare la logica del debito e dell'usura a cui tutti e tutte noi siamo sottoposti. Sentiamo la necessità di costruire spazi pubblici larghi e di movimento che puntino a intrecciare i conflitti e le vertenze, quelle già in campo e quelle che si apriranno, in un'ottica radicale di ribaltamento dei ricatti che subiamo da troppo tempo. Per farlo dobbiamo superare i tentativi troppe volte praticati di semplici sommatorie di organizzazioni sociali o politiche.

Il tempo delle scorciatoie è finito! Davanti a noi non abbiamo i 100 metri ma una maratona, un percorso politico e sociale tutto da inventare!

Noi siamo il 99%, loro solo l'1%!
Noi il loro debito non lo paghiamo!

AteneinRivolta - Coordinamento Nazionale dei Collettivi

11 ottobre 2011

Verona, giovedì 20 ottobre "Capitalismo tossico"


Libreria Pagina 12 corte Sgarzerie 6/a
Verona


Giovedì 20 ottobre ore 18.30

presentazione del libro

"Capitalismo tossico. Crisi della competizione e modelli alternativi"


di Marco Bertorello e Danilo Corradi, Edizioni Alegre, 2011

Il problema è che a questa crisi, che ha posto in luce con straordinaria chiarezza l'incapacità di autoregolazione del capitalismo, non ha corrisposto un riequilibrio dei poteri dal privato verso il pubblico: lo Stato ha accettato di fare il maggiordomo. È stata così possibile quella che Slavoj Zizek chiama "la spoliticizzazione della crisi": le scelte di violenta ristrutturazione delle imprese, e adesso di drastica riduzione dei servizi offerti dallo Stato, vengono così presentate non come scelte di classe, ma come risposte tecniche e necessarie. Ma è proprio questo assunto che deve essere rovesciato praticamente. In che modo? Facendo emergere "nuove rigidità con cui quelle dominanti dovranno fare i conti", ricostruendo un pensiero e una volontà popolare radicalmente antagonistici. È un compito difficile. Ma - come ci ricorda Riccardo Bellofiore nella preziosa postfazione che chiude il volume - "o la sinistra recupera il senso dell'utopia, il senso della possibilità contro il senso della realtà, o è un morto che cammina".

(recensione di Vladimiro Giacchè, Liberazione del 21/07/2011)

Sarà presente l'autore Marco Bertorello

Università popolare: "Non paghiamo il loro debito. Loro la crisi, noi la rivolta"


Laboratorio di autoformazione, proposte e azioni su crisi e lavoro.

Università popolare - dal 19 ottobre 2011 al 25 gennaio 2012


La crisi più profonda del capitalismo dal 1929 ha dimostrato l'insostenibilità dell'ideologia su cui si è basato il sistema negli ultimi trent'anni: il mercato e le sue presunte capacità di autoregolamentazione, l'egoismo dispensatore e generatore di ricchezza diffusa. In realtà le disuguaglianze sono sempre più insostenibili, aumentano i profitti e le rendite mentre le condizioni lavorative e di vita della maggior parte delle persone peggiorano continuamente. Per queste ragioni è urgente sperimentare delle ipotesi programmatiche che provino a inceppare i meccanismi di questo sistema, lanciando una sfida al capitale e a chi lo gestisce.

Su questi temi Sinistra Critica propone un percorso di autoformazione per il quale non sono previsti dei relatori che tengano delle esposizioni frontali, ma dei “facilitatori” che introducano e seguano il corso della discussione. A partire da “La crisi del capitale” (collana “I quaderni di Erre”, ed. Alegre, 2011), verrà messo a disposizione del materiale in modo che per ogni incontro la discussione sia quanto più partecipata.

Questi workshop sono totalmente autofinanziati e verrà quindi richiesto un contributo simbolico di 2 € a incontro per le spese. Ai fini organizzativi si richiede di far pervenire l'adesione ai contatti sotto indicati.

Tutti gli incontri si terranno presso la "Sala Elisabetta Lodi" via San Giovanni in Valle 13/b - Verona zona piazza Isolo


Lo sviluppo del capitale negli ultimi 40 anni (1970-201)

mercoledì 19 ottobre ore 20.45 Il neoliberismo come modo di gestione del capitalismo

Facilitatore: Marco Bertorello (Sinistra Critica - Filt Cgil, autore di "Capitalismo tossico" ed. Alegre, 2011)

mercoledì 9 novembre ore 20.45 Crisi e debito pubblico: appunti per la campagna contro il pagamento del debito


Capitalismo, crisi economica e sfruttamento

mercoledì 30 novembre ore 20.45 Merce, denaro, tempo. Le contraddizioni del capitale

Facilitatore: Fabrizio Valli (Sinistra Critica - Attac)

mercoledì 14 dicembre ore 20.45 Profitto e caduta tendenziale del saggio di profitto

Facilitatore: Fabrizio Valli (Sinistra Critica – Attac)


Per un programma anticapitalista

mercoledì 11 gennaio 2012 ore 20.45 In difesa dell'occupazione: lotta per il reddito e difesa dei salari

Facilitatore: Luigi Malabarba (Sinistra Critica)

mercoledì 25 gennaio 2012 ore 20.45 Sciopero generale, movimenti, autorganizzazione

Facilitatore: Roberto Firenze (Sinistra Critica - USB)


INFO e CONTATTI:

Cristiano 347 5308104

Marco 347 2592560

scverona@gmail.com

Afghanistan 2001-2011, un triste bilancio

di Enrico Piovesana
www.peacereporter.net

Secondo le stime ufficiali (Onu, Nato, Crocerossa, Human Rights Watch) dieci anni di guerra in Afghanistan hanno provocato finora la morte di almeno 67 mila esseri umani: 15mila civili afgani (almeno il doppio secondo stime indipendenti, di fatto è impossibile un calcolo realistico), 38mila guerriglieri talebani, 10mila militari afgani, 2.600 soldati Nato (e 20mila feriti e mutilati) e 1.800 contractors.

L'agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) ha calcolato che i combattimenti in Afghanistan hanno provocato solo negli ultimi cinque anni 730mila sfollati, pari a una media di 400 al giorno. Ad oggi sono ancora sfollate oltre 350mila persone.

Nonostante 40 miliardi di dollari di aiuti versati dalla comunità internazionale dal 2001 a oggi, le condizioni di vita della popolazione afgana non solo non sono migliorate, ma sono peggiorate rispetto all'inizio della guerra: la povertà assoluta è salita dal 23 al 36 per cento della popolazione, l'aspettativa di vita è scesa da 46 a 44 anni (Italia: 81 anni), la mortalità infantile è aumentata dal 147 al 149 per mille (Italia: 3 per mille), il tasso di alfabetizzazione è sceso dal 31 al 28 per cento (Italia:98 per cento).

Come denunciato da innumerevoli inchieste, rapporti ufficiali ed esperti del settore - non ultimo da Pino Arlacchi, vice presidente della delegazione del Parlamento europeo per le relazioni con l'Afghanistan - la quasi totalità degli aiuti internazionali è finita nelle tasche dei corrotti governanti di Kabul o è tornata indietro sotto forma di profitti alle aziende occidentali di sicurezza e consulenza e di stipendi degli operatori stranieri delle organizzazioni internazionali e delle Ong. Alla popolazione afgana sono arrivate solo le briciole.

Non stupisce che dopo dieci anni gli afgani, inizialmente ben disposti nei confronti degli stranieri e del governo da essi finanziato e difeso, siano oggi completamente disillusi e apertamente contrari sia all'occupazione straniera (a causa dei crimini di guerra e degli abusi delle forze Usa e Nato), sia al regime di Karzai (dominato da signori della guerra e della droga che sono saliti al potere con sfacciati brogli e che lo esercitano in maniera mafiosa e autoritaria).

In dieci anni di occupazione, la produzione di oppio in Afghanistan ha surclassato quella dell'epoca talebana. Quando il Mullah Omar bandì la coltivazione nel 2000 erano coltivati a papavero 82mila ettari. Nel 2007 erano saliti 193 mila; oggi sono 123mila (un calo da sovrapproduzione imposto dalle regole di mercato). Oggi inoltre l'Afghanistan esporta direttamente eroina (400 tonnellate l'anno) e la consuma (350mila tossicodipendenti e conseguente esplosione dell'Aids). Il business mondiale dell'eroina vale 70 miliardi di dollari l'anno.

L'Italia schiera sul fronte di guerra afgano 4.300 soldati. Finora i caduti italiani sono stati 45, centinaia i feriti. La missione militare in Afghanistan costa ogni anno circa 800 milioni di euro, pari a oltre 2 milioni al giorno. Dal 2001 a oggi la guerra in Afghanistan è costata agli italiani quasi 4 miliardi di euro.
Per la cooperazione allo sviluppo dell'Afganistan l'Italia ha speso molto molto meno: 160 milioni di euro negli ultimi cinque anni pari al 6 per cento di quanto speso nello stesso periodo per la missione militare.

09 ottobre 2011

Solidarieta agli antifascisti mantovani

appello di solidarietà per i 13 denunciati per la manifestazione contro Forza Nuova
www.articolozero.org

Il 23 settembre oltre sessanta cittadini/e antifascisti/e hanno preso parte ad un presidio per contrastare una iniziativa di Forza Nuova in cui era prevista la partecipazione del segretario Roberto Fiore, ex-appartenente alla destra stragista degli anni settanta, che l’amministrazione comunale ha autorizzato in una sala pubblica all’interno di un istituto scolastico della città; colpe evidenti ricadono sul Sindaco che non ha preso una posizione significativa né prima, né dopo gli accadimenti.
Da una parte c’era un sit-che ha avuto momenti di tensione solo quando sono arrivate le manganellate e dall’altra, basta guardare le foto dei quotidiani, esibizioni di saluti romani che da soli varrebbero denunce per apologia del fascismo.
La determinazione nel non voler e abbandonare il presidio improvvisato è costata ai manifestanti tre cariche e, come si è saputo dai media, tredici denunce. Balza all’occhio, per la composizione della manifestazione e le caratteristiche di Mantova, il fatto che questi provvedimenti abbiano colpito in gran parte giovani sotto i venticinque anni. Tredici denunce che pesano come un macigno a partire da una evidente “stretta” sul dissenso che si respira in tutta Italia.
Durante quella manifestazione c’erano, come detto, decine di cittadini diversi per età ed appartenenza politica per dire “mai più” a chi si considera erede e prosecutore delle idee e dei metodi del fascismo.
Mentre, complice il disastro economico, dilagano la guerra tra poveri, l’odio razziale e pulsioni autoritarie, movimenti neofascisti cercano di conquistarsi uno spazio politico nella crisi di una certa destra, simile a loro nelle parole ma un po’ meno nei fatti; pensiamo che “restare umani” significhi oggi smetterla di essere indifferenti e di trovare la forza di indignarsi, di prendere parte e di essere partigiani: facciamo appello ai singoli e alle forze sociali, culturali e politiche perché si apra una campagna di sensibilizzazione su queste tematiche e, da subito, un movimento spontaneo di solidarietà verso gli/le antifascisti/e denunciati/e.
Comitato Mantova antifascista e antirazzista
singoli,associazioni, movimenti, sindacati e partiti possono aderire
mandando una mail a: solidarieta.mn@gmail.com

Non paghiamo il loro debito!


Il debito pubblico oggi è il pretesto per giustificare un assalto senza precedenti al welfare europeo, ai diritti dei lavoratori, alla spesa sociale. Come avvenne all’inizio degli anni ‘80 nei confronti dei paesi del Sud del mondo che furono oggetto di “piani di aggiustamento strutturale” da parte del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale con uno spaventoso trasferimento di risorse dai popoli più poveri ai forzieri delle banche più ricche del mondo capitalista, anche oggi si sta realizzando un meccanismo analogo. Lo scoppio della crisi nel 2007-2008 ha trasferito un enorme debito privato ai debiti pubblici e oggi il conto viene fatto pagare al pubblico impiego, ai lavoratori, ai servizi sociali, ai diritti del lavoro. Il caso della manovra di agosto del governo Berlusconi è più che esplicito. Oggi i piani di aggiustamento strutturale in Europa sono portati avanti da una nuova “troika”: il Fondo monetario con l’ausilio determinante di Commissione europea e Banca centrale europea propongono dappertutto, in Grecia come in Spagna, in Portogallo come in Italia, le stesse ricette. Riduzione dei salari pubblici, licenziamenti o blocco del turn over, allungamento dell’età pensionistica, privatizzazioni.
Il motivo, chiaramente, è sempre lo stesso: non è possibile sostenere un deficit crescente del bilancio statale né un peso eccessivo dell’indebitamento pubblico. Eppure la dilatazione dei debiti è stata una precisa scelta delle politiche compiute in Europa negli ultimi 10-15 anni da tutti i governi, fossero di destra o di sinistra. Gli anni 1990-2000 hanno visto in Europa l’applicazione di politiche neoliberiste basate su ipotesi di riduzione della pressione fiscale con la diminuzione delle tasse verso gli strati più alti della società o verso le società private. Nel 2007, con la prima finanziaria del secondo governo Prodi l’Ires sulle imprese vide ridurre la propria aliquota dal 33 al 28% mentre l’Irap scendeva sotto il 4%. E se il governo Berlusconi nel 2005 ridusse l’aliquota Irpef più alta dal 45 al 43% il successivo governo di centrosinistra lasciò inalterata questa situazione; mentre con la riduzione del cuneo fiscale si regalavano in modo permanente 7 miliardi all’anno a imprese, banche e assicurazioni. Contestualmente sono aumentate le imposte indirette che si scaricano direttamente sui redditi fissi – si pensi a benzina o bollette – nonché un aumento generalizzato e costante del costo della vita.
A partire dal 2008 il salvataggio di una serie di banche sull’orlo del fallimento, in particolare nei paesi del Nord, meno in Italia, ha scaricato sui conti pubblici il costo delle grandi speculazioni finanziarie che hanno garantito profitti record a banche e società finanziarie. Questo dilatarsi del debito sovrano dei principali paesi occidentali ha ridotto le distanze con quei debiti, come quello italiano o giapponese, che da tempo rappresentavano una grandezza preoccupante. In Italia sono state salvate meno banche e c'è stato un intervento ridotto nell'economia reale, a causa dei già disastrati conti pubblici, ma ciò non ha impedito il sovrapporsi dei problemi contingenti causati dalla crisi a quelli strutturali. La tendenza generale a ridurre le tasse per imprese e redditi alti si aggiunge a una modesta pressione fiscale che ha radici lontane. Si pensi che già nel 1970 la pressione fiscale italiana in proporzione al Pil era inferiore a quella tedesca e francese di ben 10 punti. Nei cinque anni successivi la pressione fiscale in Italia rimaneva stazionaria, mentre nei due principali paesi europei aumentava per far fronte al crescere della spesa pubblica, approfondendo queste differenze. Nel 1975 in Francia e Germania, nonostante il maggior impegno di spesa profuso, si aveva un disavanzo primario pari rispettivamente al 1.2 e 4.2% del Pil, mentre in Italia saliva all'8.1. Quando si parla del debito che ereditiamo, come fosse un accidente che è capitato non si considera quali siano stati i soggetti che in particolare hanno beneficiato di queste politiche.
Il debito pubblico è la stratificazione delle politiche seguite finora, la leva di una politica economica che da oltre trent’anni sposta reddito dalle classi sociali più basse verso l’alto. Tale processo si è ulteriormente approfondito nel nuovo secolo. Tra il 2002 e il 2007 gli stipendi reggono a malapena l’aumento dell’inflazione mentre i profitti delle 1400 imprese più grandi crescono dell’89,5% e quelli di tutte le grandi imprese del 63,5%. Lo scarto è impressionante e non può essere sottaciuto quando si parla di debito: debito di chi verso chi? E chi è davvero in credito? In questo senso ha ragione il Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo quando chiede l’annullamento della parte illegittima del debito, cioè quello realizzato per sostenere i profitti, per garantire la speculazione delle grandi banche e per sorreggere un’economia capitalistica in crisi di sbocchi, e quindi di margini di profitto, e bisognosa di una bolla finanziaria in grado di garantire l’attività.
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People of Europe Rise Up! 15 ottobre 2011


La giornata del 15 ottobre vedrà mobilitazioni in tutta Europa, nel Mediterraneo e in altre regioni del mondo, contro la distruzione dei diritti, dei beni comuni, del lavoro e della democrazia compiuta, con le politiche anticrisi, a difesa dei profitti e della speculazione finanziaria. Le persone non sono un debito. Anche in Italia è già stata raccolta da tanti soggetti organizzati, alleanze sociali, gruppi informali e persone che hanno dato vita al Coordinamento 15 ottobre . Non vogliamo fare un passo di più verso il baratro in cui l’Europa e l’Italia si stanno dirigendo e che la manovra del Governo continua ad avvicinare. Vogliamo un’altra economia, un’altra società e una democrazia vera. Il Coordinamento 15 ottobre si mette al servizio della riuscita della mobilitazione. Curerà unitariamente le caratteristiche, la logistica e l’organizzazione della manifestazione nazionale di Roma e ne definirà le sue parti comuni.

Il suo obiettivo è favorire la massima inclusione, convergenza, convivenza e cooperazione delle molteplici e plurali forze sociali, reti, energie individuali e collettive che stanno preparando e prepareranno la mobilitazione con i propri appelli, le proprie alleanze, i propri contenuti.

Ci impegniamo insieme a costruire una manifestazione partecipata, pacifica, inclusiva, plurale e di massa, il cui obiettivo è raccogliere e dare massimo spazio alla opposizione popolare, alle lotte e alle pratiche alternative diffuse nel nostro paese. La manifestazione partirà alle ore 14.00 da Piazza della Repubblica e arriverà a Piazza San Giovanni.

Sarà una tappa della ripresa di spazio pubblico di mobilitazione permanente, come si sta realizzando in tutta Europa e nel Mediterraneo, che è necessario mettere in campo per cambiare l’Italia e il nostro continente. Invitiamo i cittadini e le cittadine, nativi e migranti, le lavoratrici e i lavoratori, i soggetti organizzati, i gruppi, le reti formali e informali a partecipare attivamente al 15 ottobre, a coinvolgere le proprie comunità, a organizzare la partecipazione al corteo di Roma.

Il Coordinamento 15 ottobre invita a costruire in tutto il territorio la partecipazione italiana alla giornata europea e internazionale "UNITED FOR GLOBAL CHANGE" e a convergere nella giornata nazionale di mobilitazione a Roma.

MANIFESTAZIONE NAZIONALE sabato 15 ottobre
Partenza ore 14 - Piazza della Repubblica, ROMA

A Sud, Action, Altramente, Arci, Atenei in Rivolta, Attac Italia, CIB - Unicobas, Comitato 1° ottobre, Confederazione COBAS, Controlacrisi.org, CPU - Coord. Precari dell'Università, CUB - Confederazione Unitaria di Base, ESC, Fair Watch, Fed. Anarchica Italiana - Roma, Federazione della Sinistra, FGCI - Federazione Giovanile Comunisti Italiani, FIOM, Flare, Forum Diritti Lavoro, Giovani Comunisti, Gruppo Abele, Laboratorio Politico "Alternativa", Legambiente, Liberazione, LINK - Coordinamento Universitario, Osservatorio Europa, Partito Comunista dei Lavoratori, P. CARC, PDCI, Popolo Viola, PRC, Radio Vostok, R@P - Rete per l'Autorganizzazione Popolare, Rete 28 Aprile - CGIL, Rete dei Comunisti, Rete della Conoscenza, Rete Salernitana per il 15 ottobre, Rete Viola, RIBALTA - Alternativa Ribelle, Sinistra Critica, Snater, Terra del Fuoco, Tilt, UDS - Unione degli Studenti, Un ponte per, Unicommon, Uniti per l'Alternativa, USB

COORDINAMENTO 15 OTTOBRE
http://15ottobre.wordpress.com