30 novembre 2011

Rifiutarsi di pagare


di Salvatore Cannavò

La formazione del debito pubblico italiano è una biografia del paese, evidenzia i meccanismi di un funzionamento specifico del capitalismo in cui i benefici fiscali per le grandi imprese e i più ricchi si sposano all’utilizzo della macchina pubblica per una gestione centralizzata e classista della spesa sociale. Discutere del suo annullamento, o congelamento o default negoziato come hanno proposto diversi interventi del manifesto e come propongono alcune campagne in corso (Campagna per il congelamento del debito o Rivolta il debito) è del tutto pertinente. Alcuni di questi interventi, tra tutti Guido Viale, hanno fatto riferimento alla possibilità di un Audit pubblico sul debito per definire la parte di debito legittimo, da pagare, e quella illegittima da annullare. E’ attorno a questa proposta che una campagna sul debito può trovare una ampia unità e permettere al dibattito di fare significativi passi in avanti.

La galleria fotografica della Prima Repubblica che costella l’ascesa delle percentuali di debito sul Pil supporta l’interpretazione secondo la quale il debito è frutto di una scellerata politica clientelare propria del “regime” democristiano. Ovviamente c’è del vero in questa affermazione. Ma c’è dell’altro.

La spesa sociale in rapporto al Pil, infatti, è aumentata in linea con le entrate fiscali tra il 1980 e il 1990 e poi addirittura si è ridotta (dal governo Amato del ’92 a oggi, le manovre finanziarie hanno operato tagli per circa 500 miliardi di euro). Negli stessi anni abbiamo assistito invece a una miriade di finanziamenti a pioggia, di incentivi, defiscalizzazioni rivolte alle imprese in un ginepraio di intrecci e conflitti di interesse difficile da definire con precisione. Marco Cobianchi autore del saggio “Mani bucate”, ha calcolato in 30-40 miliardi di euro l’anno i trasferimenti “a pioggia” dello Stato alle imprese: la metà di quanto si spende per interessi.

Poi c’è la questione fiscale. Secondo Eurostat, dal 2000 al 2010 la pressione fiscale dell’Europa a 27 è passata dal 44,7 al 37,1 per cento con una riduzione del 7,6 per cento. Le imposte sui redditi delle società sono passate dal 31,9 al 23,2 con una riduzione dell’8,7 per cento. In Italia la pressione fiscale sui redditi delle società è passata dal 41,3 per cento al 31,4 con una riduzione del 9,9 per cento. Da queste politich\e deriva un allarme che giustifica politiche di austerità durissime e annuncia un default di fatto, almeno sul piano sociale.

E’ giusto quindi chiedere l’annullamento della parte illegittima del debito, cioè quello realizzato per sostenere i profitti, per garantire la speculazione delle grandi banche e per sorreggere un’economia capitalistica in crisi di sbocchi, e quindi di margini di profitto, e bisognosa di una bolla finanziaria in grado di garantire l’attività. Come è giusto contestare la legittimità di un debito contratto per applicare politiche sociali ingiuste, in violazione dei diritti economici, sociali, culturali e civili dei popoli. E’ quanto ha sostenuto per anni il Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo (Cadtm) che ormai si occupa dei debiti del “nord del mondo” e le cui idee sono state pubblicate nel volume “Debitocrazia” in uscita con Alegre. Argomenti analoghi utilizza François Chesnais nel suo “I debiti illegittimi” pubblicato da DeriveApprodi.

Si tratta del primo passo necessario a costituire un rapporto di forza adeguato per raffreddare la stessa tensione finanziaria. La moratoria sul debito esige un Audit, fondamentale per radiografare il debito e per il quale è essenziale la partecipazione di cittadini e cittadine, dei movimenti, delle associazioni, dei sindacati. Ovviamente, un simile obiettivo richiede una forte mobilitazione sociale perché non esiste, oggi, un governo in grado di accettare una simile proposta. Allo stesso tempo, questa proposta può aiutare a selezionare un governo possibile del paese: chi davvero abbia a cuore il futuro della popolazione, dei lavoratori e delle lavoratrici, dei giovani e dei pensionati, dei vari strati sociali colpiti dalla crisi non dovrebbe che sposare una simile tesi e voltare le spalle agli interessi delle grandi banche e delle società finanziarie.

La moratoria unilaterale servirebbe anche a rinegoziare tassi di interesse e tempi di rimborso per il debito considerato legittimo o legale considerando che la quota del bilancio statale da consacrare a tale spesa non dovrebbe superare una percentuale accettabile: ad esempio il 5 per cento delle entrate, come propone il Cadtm, mentre a fine 2010, in Italia, quel rapporto era del 9,7 per cento.

Tra le obiezioni fondamentali alla moratoria e al congelamento degli interessi ve ne sono alcune che provengono da sinistra.

  1. il “default” sarebbe pagato dalla popolazione e da lavoratori e pensionati. Il problema sarebbe però ovviato da un atto, sovrano, di moratoria – e non di “default” – da cui sarebbero esplicitamente esclusi quei settori da proteggere proprio in virtù degli interessi della collettività.
  2. Dopo la moratoria uno Stato farebbe una fatica immensa a finanziarsi di nuovo sui mercati interni e internazionali: nessuno gli farebbe più credito. I casi di Argentina o Ecuador – in cui si è realizzato un vero Audit pubblico con ampi benefici per quello Stato - mostrano il contrario, dipende dalle situazioni. In ogni caso, per l’Italia, si tratta di riequilibrare il ricorso al prestito “interno” facendo leva su una ricchezza finanziaria netta altissima (circa 3700 miliardi di euro).
  3. Un default significa uscire dall’euro e scontrarsi con una forte svalutazione con il crollo del potere di acquisto dei salari. L’andamento dei salari degli ultimi dieci anni, quelli in cui è vigore l’euro, non autorizza a parlare di mantenimento del potere di acquisto. L’Europa può imboccare una strada diversa, quella dell’Europa Sociale che rifiuti la dittatura delle banche.

L’appello per un Audit pubblico in Francia è stata lanciata da una serie di forze sociali e intellettuali (www.audit-citoyen.org pubblicato in italiano su www.rivoltaildebito.org) e ha già superato le 40 mila adesioni. Tra i promotori forze sindacali come la Cgt, l’Union syndacal Solidaires, Attac, il Cadtm, economisti come François Chesnais e Michel Husson, filosofi come Etienne Balibar, altermondialisti come Susan George. Forse si potrebbe fare anche qui in Italia.

Un Audit sul debito

di Guido Viale
Agli storici del futuro (se il genere umano sopravviverà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di dittatura dell'ignoranza, di egemonia di un pensiero unico liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: «La società non esiste. Esistono solo gli individui», cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e «Il governo non è la soluzione ma il problema», cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan). Il liberismo ha di fatto esonerato dall'onere del pensiero e dell'azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Anzi, "i mercati"; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un'attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell'auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un'inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostra vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell'Olimpo (Marco Bersani); ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra. Questa delega ai "mercati" ha significato la rinuncia a un'idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra - quella "vera", come la vorrebbero quelli di sinistra - è tutta qui.
Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados, gioventù araba in rivolta, e i tanti Occupy. Poco importa che non abbiano ancora "un vero programma" (come gli rinfacciano tanti politici spocchiosi): sanno che cosa vogliono.
Mentre i politici spocchiosi non lo sanno: vogliono solo quello che "i mercati" gli ingiungono di volere. È il mondo, e sono le nostre vite, a dover essere ripensati dalle fondamenta. Negli anni il liberismo - risposta vincente alle lotte, ai movimenti e alle conquiste di quattro decenni fa - ha prodotto un immane trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale: mediamente, si calcola, del 10 per cento dei Pil (il che, per un salario al fondo alla scala dei redditi può voler dire un dimezzamento; come negli Usa, dove il potere di acquisto di una famiglia con due stipendi di oggi equivale a quello di una famiglia monoreddito degli anni sessanta). Questo trasferimento è stato favorito dalle tecnologie informatiche, dalla precarizzazione e dalle delocalizzazioni che quelle tecnologie hanno reso possibili; ma è stato soprattutto il frutto della deregolamentazione della finanza e della libera circolazione dei capitali. Tutto quel denaro passato dal lavoro al capitale non è stato infatti investito, se non in minima parte, in attività produttive; è andato ad alimentare i mercati finanziari, dove si è moltiplicato e ha trovato, grazie alla soppressione di ogni regola, il modo per riprodursi per partenogenesi. Si calcola che i valori finanziari in circolazione siano da dieci a venti volte maggiori del Pil mondiale (cioè di tutte le merci prodotte nel mondo in un anno, che si stima valgano circa 75 mila miliardi di dollari). Ma non sono state certo le banche centrali a creare e mettere in circolazione quella montagna di denaro; e meno che mai è stata la Banca centrale europea (Bce), che per statuto non può farlo (anche se in effetti un po' lo ha fatto e continua a farlo, per così dire, "di nascosto"). Se la Bce è oggi impotente di fronte alla speculazione sui titoli di stato (i cosiddetti debiti sovrani) è perché lo statuto che le vieta di "creare moneta" è stato adottato per fare da argine in tutto il continente alle rivendicazioni salariali e alle spese per il welfare. Una scelta consapevole quanto miope, che forse oggi, di fronte al disastro imminente, sono in molti a rimpiangere di aver fatto. A creare quella montagna di denaro è stato invece il capitale finanziario che si è autoriprodotto; i "mercati". E lo hanno fatto perché tutti i governi glielo hanno permesso. Certo, in gran parte si tratta di "denaro virtuale": se tutto insieme precipitasse dal cielo sulla terra, non troverebbe di fronte a sé una quantità altrettanto grande di merci da comprare. Ciò non toglie che ogni tanto - anzi molto spesso - una parte di quel denaro virtuale abbandoni la sfera celeste e si materializzi nell'acquisto di un'azienda, una banca, un albergo, un'isola; o di ville, tenute, gioielli, auto e vacanze di lusso. A quel punto non è più denaro virtuale, bensì potere reale sulla vita, sul lavoro e sulla sicurezza di migliaia e migliaia di esseri umani: un crimine contro l'umanità.
È un meccanismo complicato, ma facile da capire: in ultima analisi, quel denaro "fittizio" - che fittizio non è - si crea con il debito e si moltiplica pagando il debito con altro debito: in questa spirale sono stati coinvolti famiglie (con i famigerati mutui subprime; ma anche con carte di credito, vendite a rate e "prestiti d'onore"), imprese, banche, assicurazioni, Stati; e, una volta messi in moto, quei debiti rimbalzano dagli uni agli altri: dai mutui alle banche, da queste ai circuiti finanziari, e poi di nuovo alle banche, e poi ai governi accorsi in aiuto delle banche, e dalle banche di nuovo agli Stati. E non se ne esce, se non - probabilmente - con una generale bancarotta.
In termini tecnici, l'idea di pagare il debito con altro debito si chiama "schema Ponzi", dal nome di un finanziere che l'aveva messa in pratica negli anni '30 del secolo scorso (al giorno d'oggi quell'idea l'hanno riportata in vita il finanziere newyorchese Bernard Madoff e, probabilmente, molti altri); ma è una pratica vecchia come il mondo, tanto che in Italia ha anche un santo protettore: si chiama "catena di Sant'Antonio". In realtà, tutta la bolla finanziaria che ci sovrasta non è che un immane schema Ponzi. E anche i debiti degli Stati lo sono. Il vero problema è sgonfiare quella bolla in modo drastico, prima che esploda tra le mani degli apprendisti stregoni dei governi che ne hanno permesso la creazione. Nell'immediato, un maggiore impegno del fondo salvastati, o del Fmi, o gli eurobond, o il coinvolgimento della Bce nell'acquisto di una parte dei debiti pubblici europei potrebbero allentare le tensioni. Ma sul lungo periodo è l'intera bolla che va in qualche modo sgonfiata.
Prendiamo l'Italia: paghiamo quest'anno 70 miliardi di interessi sul debito pubblico (che è di circa 1900 miliardi). L'anno prossimo saranno di più, perché gli interessi da pagare aumentano con lo spread. Negli anni passati a volte erano meno, ma a volte, in proporzione, anche di più. Quasi mai sono stati pagati con le entrate fiscali dell'anno (il cosiddetto avanzo primario); quasi sempre con un aumento del debito. Basta mettere in fila questi interessi per una trentina di anni - da quando hanno cominciato a correre - e abbiamo una buona metà, e anche più, di quel debito che mette alle corde l'economia del paese e impedisce a tutti noi di decidere come e da chi essere governati. Perché a deciderlo è ormai la Bce. Ma la vera origine del debito italiano è ancora più semplice: l'evasione fiscale. Ogni anno è di 120 miliardi o cifre equivalenti: così, senza neanche scomodare i costi di "politica", della corruzione o della malavita organizzata, bastano quindici anni di evasione fiscale - e ci stanno - per spiegare i 1900 miliardi del debito italiano. Aggiungi che coloro che hanno evaso le tasse sono in buona parte - non tutti - gli stessi che hanno incassato gli interessi sul debito e il cerchio si chiude. La spesa pubblica in deficit ha la sua utilità se rimette in moto "risorse inutilizzate": lavoratori disoccupati e impianti fermi. Ma se alimenta evasione fiscale e "risparmi" che vanno solo ad accrescere la bolla finanziaria, è una sciagura.
Altro che pensioni da tagliare (anche se le ingiustizie da correggere in questo campo sono molte)! E altro che scuola, e università, e sanità, e assistenza troppo "generose"! Siamo di fronte a cifre incomparabili: per distruggere scuola e Università è bastato tagliare pochi miliardi di euro all'anno. E da una "riforma" anche molto severa delle pensioni si può ricavare solo qualche miliardo di euro all'anno. Dalla svendita degli immobili dello Stato e dei servizi pubblici locali non si ricava molto di più. Dalla liquidazione di Eni, Enel, Ferrovie, Finmeccanica, Fincantieri e quant'altro, come improvvidamente suggerito nel luglio scorso dai bocconiani Perotti e Zingales (l'economista di riferimento, quest'ultimo, di Matteo Renzi; ma anche di Sarah Palin!), si ricaverebbe non più di qualche decina di miliardi una volta per sempre, trasferendo in mani ignote (ma potrebbero benissimo essere quelle della mafia) le leve dell'economia di un intero paese. Mentre interessi ed evasione fiscale ammontano a decine di miliardi ogni anno e il debito da "saldare" si conta in migliaia di miliardi. Per questo il rigore promesso dal governo potrà fare male ai molti che non se lo meritano, ma non ha grandi prospettive di successo: affrontare con queste armi il deficit pubblico, o addirittura il debito, è un'impresa votata al fallimento. O una truffa. Per questo è urgente effettuare un audit (un inventario) del debito italiano, perché tutti possano capire come si è formato, chi ne ha beneficiato e chi lo detiene (anche per poter prospettare trattamenti diversi alle diverse categorie di prestatori).
L'altro inganno che domina il delirio pubblico promosso dagli economisti mainstream - e in primis dai bocconiani - è la "crescita". A consentire il pareggio del bilancio imposto dalla Bce e tra breve "costituzionalizzato", cioè il pagamento degli interessi sul debito con il solo prelievo fiscale, e addirittura una graduale riduzione, cioè restituzione, del debito dovrebbe essere la "crescita" del Pil messa in moto dalle misure liberiste che i precedenti governi non avrebbero saputo o voluto adottare: liberalizzazioni, privatizzazioni, riforma del mercato del lavoro (alla Marchionne), eliminazioni delle pratiche amministrative inutili (ben vengano, ma bisognerà riparlarne) e le "grandi opere" (in primis il Tav). Ma per raggiungere con l'aumento del Pil obiettivi del genere ci vorrebbero tassi di crescita "cinesi"; in un periodo in cui l'Italia viene ufficialmente dichiarata in recessione, tutta l'Europa sta per entrarci, l'euro traballa, gli Stati Uniti sono fermi e l'economia dei paesi emergenti sta ripiegando. È il mondo intero a essere in balia di una crisi finanziaria che va ad aggiungersi a quella ambientale - di cui nessuno vuole più parlare - e allo sconvolgimento dei mercati delle materie prime (risorse alimentari in primo luogo) su cui si riversano i capitali speculativi che stanno ritirandosi dai titoli di stato (e non solo da quelli italiani). Interrogati in separata sede, sono pochi gli economisti che credono che nei prossimi anni possa esserci una qualche crescita. Molti prevedono esattamente il contrario; ma nessuno osa dirlo. Questa farsa deve finire. È ora di pensare - e progettare seriamente - un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza "crescita". Semplicemente valorizzando le risorse umane, il patrimonio dei saperi, le fonti energetiche e le risorse materiali rinnovabili, gli impianti e le attrezzature che già ci sono; e rinnovandoli e modificandoli solo per fare meglio con meno. Non c'è niente di utopistico in tutto questo; basta - ma non è poco - l'impegno di tutti gli uomini e le donne di buon senso e di buona volontà.

27 novembre 2011

26 novembre: I movimenti per l'acqua pubblica di nuovo in piazza. Per la democrazia, contro la Bce e il governo Monti


Sembra sia passato chissà quanto tempo da quando si era tutti in piazza, il 13 Giugno, a festeggiare la vittoria dei SI per i Referendum contro il nucleare e per l'acqua pubblica. D'altronde, la casta del centrodestra come quella del centrosinistra, con l'aiuto delle grandi testate giornalistiche, hanno fatto di tutto per oscurarla. Una vittoria insperata, nata dal basso e quindi ingovernabile perchè capace di ribaltare la logica per cui il bene ultimo deve essere sempre il profitto. E' questo che ha spaventato! Ha spaventato questa voglia di partecipazione, questa voglia di rimettere in discussione la democrazia delegata, questa determinazione a mettere uno stop a un sistema economico pronto a far diventare merce beni necessari per la sopravvivenza. C'è stata una consapevolezza diffusa per cui col referendum non era in gioco solo la critica ad un governo di centrodestra, ma la possibilità di anteporre a logiche speculative il proprio futuro, la propria vita.
Il dibattito politico invece ha ripreso immediatamente il suo stanco rituale autoreferenziale fatto di polemiche e gioco delle parti. E' stata necessaria la pubblicazione della lettera della BCE all'Italia per tornare a parlare di quella che è la reale partita in gioco: la crisi, le sue conseguenze e quindi come si intende ripianare il debito dei vari stati europei. Anche su questo centrodestra e centrosinistra hanno inscenato un gioco delle parti vergognoso. Nessuno dei due schieramenti si è posto minimamente il problema di essere credibile nei confronti di chi questa crisi la sente sempre più pesante e insopportabile. Si è invece assistito ad una corsa a dimostrarsi più credibile nei confronti dei diktat della BCE. Della serie: le regole dell'economia vengono prima della democrazia. Su questo è caduto il Governo Berlusconi e su questo è nato il governo Monti. Ma cosa prevederebbe oggi il Governo Monti rispetto ai servizi pubblici locali? Ovviamente la stessa ricetta di questi ultimi dieci anni: privatizzazione. Privatizzare definitivamente servizi come i rifiuti, i trasporti e perchè no anche l'acqua. Alla faccia del referendum e della Costituzione.
Per questo i movimenti per l'acqua pubblica possono e devono rimanere un argine, come lo sono stati finora, nei confronti di una crisi economica che le grandi multinazionali intendono superare proprio con l'aggressione dei beni comuni e dell'ambiente.
La manifestazione indetta il 26 Novembre per cui non dovrà limitarsi ad esigere il rispetto dell'esito referendario di Giugno. Dovrà saper parlare a coloro che il 15 Ottobre a Roma, come nel resto del mondo hanno manifestato la propria indignazione e rabbia verso un sistema economico profondamente ingiusto e anti-democratico. Un sistema economico più attento a salvare le banche che i posti di lavoro e i diritti sociali. Un manifestazione che sappia innescare la costruzione dell'opposizione sociale e politica al Governo Monti, al Governo di Banche e Vaticano.
Provare a vincere definitivamente per garantire l'acqua pubblica a tutti può significare in modo pratico che noi il debito di questa crisi non lo paghiamo. Anzi che vogliamo costruire un mondo dove non sia l'1% a decidere per il resto del 99%.

Esecutivo nazionale Sinistra Critica

Tahrir non si arrende, no all'ancien regime


Il premier incaricato Ganzuri ha iniziato le consultazioni ma questo non è servito a fare tacere la piazza simbolo della rivoluzione che chiede con forza l’uscita di scena dei militari ancora al potere.

Il Cairo, 26 novembre 2011, Nena News – “Sono andato a letto mentre diventava primo ministro un collaboratore del vecchio rais e mi sono risvegliato a piazza Tahrir il 25 gennaio (giornata nella quale è scoppiata la rivolta ndr ) ”, ha scritto un attivista egiziano non appena ha raggiunto Tahrir, la piazza centrale del Cairo che ieri è stata nuovamente riempita da decine di migliaia di manifestanti. “Ganzuli (il nuovo primo ministro ndr) è stato riciclato dalla spazzatura del vecchio regime” si legge su un cartello esposto in una strada del centro. “Non vogliamo tornare agli anni ’90 ( quando Ganzuli era a capo dell’esecutivo, ndr)” recitava un striscione dove era attaccata una fotografia di Habib el Adly, l’ex ministro degli interni attualmente in carcere, già membro della prima squadra di governo di Ganzuli.
Ufficialmente i militari hanno annunciato una tregua e il primo ministro ha iniziato le consultazioni per la creazione di un nuovo esecutivo che annuncerà non prima di lunedì, ma questo non è servito a fare tacere gli scontenti che hanno risposto all’appello di quanti li avevano invitati a scendere in strada per ricordare i martiri di quest’ultima settimana di violenza e continuare a chiedere l’uscita di scena dei militari. Tahrir ieri si è riempita anche se i sostenitori di Tantawi, il generale a capo del Consiglio delle Forze Armate, hanno partecipato una contromanifestazione davanti il Ministero della difesa e il movimento della Fratellanza Musulmana ha organizzato una marcia alternativa. “E’ l’ennesimo tradimento degli islamisti ” dice un manifestante che ricorda che questo movimento aveva già boicottato il sit iniziato martedì scorso. “Hanno a cuore solo le elezioni e sanno che ogni giorno che passa perdono voti” conclude. A lanciare un appello ai vertici militari sono stati anche i suoi più generosi finanziatori oltre oceano. Imbarazzati a vedere che il loro patner sparava e lanciava lacrimogeni – per altro made in Usa – sui manifestanti, gli Stati Uniti avevano spinto l’esercito a scusarsi con le famiglie delle vittime, a nominare un nuovo premier e a garantire lo svolgimento delle elezioni. Le richieste americane sono aumentate e il portavoce della Casa Bianca ha domandato all’esercito di uscire di scena il piú presto possibile e di trasferire immediatamente il potere a un nuovo esecutivo civile che sia capace di rispondere alle richieste degli egiziani.
Tra poche ore, lunedi’, si apriranno le porte dei seggi elettorali eppure al Cairo sono pochi quelli che parlano di questo tanto atteso appuntamento con la storia. Molti credono che per iniziare una nuova era bisogna prima mettere una pietra sopra quella precedente. Per mantenere l’unità nazionale, diversamente dal solito, a Tahtir non erano stati montati i palchi da cui solitamente parlano i rappresentanti dei diversi partiti. “Il consiglio supremo delle Forze Armate vuole risuscitare il regime di Mubarak. Adesso il dovere di tutti è restare uniti per salvare la rivoluzione” scrive Ala al Aswani, scrittore del bestseller Palazzo Yacubian e a lungo oppositore del vecchio regime. “In questi mesi la giunta militare è riuscita a sottomettere gli egiziani e a seminare discordia tra le forze rivoluzionarie. Le divisioni politiche devono essere rimandate a vantaggio dell’unità: Solo così si riuscirà a formare una coalizione di governo rivoluzionaria che possa portare all’elezione di un’autorità civile”.

23 novembre 2011

Assoluzione per De Gennaro: "Sentenza politica"


Annullata senza rinvio, dalla Cassazione, la condanna all'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e all'ex capo della Digos di Genova Spartaco Mortola con riferimento all'accusa di aver istigato alla falsa testimonianza l'ex questore del capoluogo ligure Francesco Colucci. Si è concluso cosí, con una smentita delle conclusioni di colpevolezza cui erano arrivati i magistrati della Corte di Appello di Genova dopo il verdetto assolutorio emesso dal gip in primo grado, il primo filone processuale approdato al vaglio della Suprema Corte e nato dalle inchieste successive alle violenze del G8 del 2001.
De Gennaro, dopo l'assoluzione, "è molto sollevato e soddisfatto: ci teneva molto al riconoscimento della correttezza del suo operato", ha detto il professor Franco Coppi che ha difeso anche in Cassazione l'attuale capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. "Le cose sono state rimesse a posto in modo molto perentorio ed è stata cancellata l'amarezza della sentenza di appello", ha aggiunto il legale.
La decisione è stata emessa dalla Sesta sezione penale - con la formula ampiamente liberatoria "perchè i fatti non sussistono" - ed è stata aderente alla richiesta del sostituto procuratore generale della Cassazione Francesco Mauro Iacoviello che aveva chiesto di annullare senza rinvio la sentenza di secondo grado emessa il 17 giugno del 2010. Probabilmente i supremi giudici - ma questo lo si saprà con certezza entro un mese, quando saranno depositate le motivazioni estese dal consigliere Giacomo Paoloni - hanno ritenuto che i fatti addebitati a De Gennaro e Mortola non "avessero portata offensiva", ovvero non abbiano avuto alcuna incidenza sul corretto svolgimento del processo per le violenze alla Diaz.
Sia il Pg - che ha ricordato come a suo avviso al G8 siano stati ben altri gli avvenimenti di rilievo come i pestaqgi e la morte di Carlo Giuliani - sia le arringhe dei difensori, avevano battuto il tasto sulla non rilevanza delle diverse versioni inerenti, in definitiva, la catena di comando responsabile dell'irruzione delle forze dell'ordine alla Diaz. Coppi ha spiegato che "De Gennaro non ha assolutamente preso le distanze da quanto accaduto dal momento che ha autorizzato, per questa vicenda, l'intervento di un battaglione dei carabinieri: figuriamoci se voleva fare pressioni su Colucci per chiamarsi fuori!". Il legale ha poi aggiunto che l'addetto alle relazioni esterne Sgalla, "arriva alla Diaz quando tutto si era ormai consumato e c'erano le ambulanze e i feriti: arriva lí dopo aver cenato e sono circa le 23.30 di sera, con tutto comodo. Non è immaginabile che sia stato allertato da De Gennaro per poi arrivare quando tutto era concluso". Comunque, per Coppi, come già aveva indicato il Pg, "‚ irrilevante chi abbia preso la decisione di mandare Sgalla alla Diaz, anche se sembra piú credibile che sia stato Colucci a prendere quell'iniziativa".
Di diverso parere sono stati gli avvocati delle parti civili che si sono battuti per la conferma delle condanna. "Il problema della falsa testimonianza non è irrilevante - ha detto l'avvocato Francesco Romeo, legale di uno dei giovani pestati alla Diaz dagli agenti - perchè incide sul processo per le violenze alla Diaz. E ci sono le prove dirette sia a carico di De Gennaro che di Mortola: intercettazioni, interrogatori, la lettera dello stesso De Gennaro e la testimonianza del questore Andreassi". Anche l'Associazione dei giuristi democratici, rappresentata dall'avvocato Rebotti, aveva chiesto la convalida del verdetto di appello.(ANSA).

G8, Malabarba (Sinistra Critica): PER DE GENNARO SENTENZA POLITICA
"L'assoluzione di Gianni De Gennaro dal reato di istigazione alla falsa testimonianza nel processo per la 'macelleria messicana' alla scuola Diaz è una sentenza politica, che nega paradossalmente l'esistenza della catena di comando che ha deciso la repressione durante il G8 di Genova e i chiari tentativi di depistaggio accertati dalla magistratura genovese in appello".
Lo dichiara Gigi Malabarba di Sinistra Critica, testimone al processo e senatore membro del Copaco all'epoca dei fatti. "Le intercettazioni di De Gennaro e Mortola hanno messo in luce responsabilità inequivocabili che solo una precisa volontà politica di togliere dai guai l'ex capo della polizia e attuale direttore del Dis ha potuto vanificare. L'attuale situazione politico-sociale del paese esige la cancellazione di qualsiasi ombra sull'operato di chi dirige tutti gli apparati di sicurezza e una condanna del più alto in grado avrebbe sicuramente provocato un terremoto incontrollabile" prosegue Malabarba. "Ora per De Gennaro si spianano le possibilità persino per nuovi incarichi, con sostegno bipartisan, a livello istituzionale e, perchè no?, anche per 'rimettere ordine' nella tangentata Finmeccanica, suo antico sogno. Staremo a vedere. Ma tutto ciò è un messaggio inquietante non solo perchè allontana la verità sul G8, ma per la stessa democrazia" conclude Malabarba.

22 novembre 2011

Mozione finale del Coordinamento nazionale di Sinistra Critica - 20 novembre 2011

La caduta del governo Berlusconi rappresenta indubbiamente una modifica sostanziale del quadro politico, al di là della stessa natura e del profilo programmatico del governo Monti-Napolitano. La crisi del governo Lega-Pdl era cominciata da tempo, inizialmente legata a differenti visioni sulle risposte necessarie alla crisi economica, ai protagonismi di una parte della destra di governo, alle difficoltà di rappresentare in maniera adeguata i diversi interessi che rappresentavano la base politica e sociale del governo.

Le manifestazioni contro il governo dei mesi scorsi (in particolare quelle del febbraio di “Se non ora quando”), la sconfitta elettorale della destra in grandi città come Milano e Napoli, il grande successo referendario del 12 giugno hanno accelerato la crisi politica, senza produrre un'immediata modifica istituzionale - che avviene oggi per volontà diretta della borghesia italiana ed europea - ma creando i primi scossoni elettorali e le crepe nella maggioranza. A far cadere il governo Berlusconi, infine, è però la tenaglia costituita dagli interessi delle grandi banche, dei cosiddetti mercati finanziari spalleggiati dai governi di Francia e Germania e dai circoli forti della borghesia italiana.

Il governo Monti-Napolitano nasce così come governo politico, prodotto della scelta della maggioranza dei partiti istituzionali di provare a uscire dalla loro crisi e rispondere alle esigenze del capitale europeo e italiano attraverso un “temporaneo” affidamento delle responsabilità di governo a “tecnici” che siano abbastanza autorevoli da applicare i provvedimenti richiesti dalla Bce e dai governi europei – e che risponde agli interessi di Marchionne, della Confindustria e del Vaticano. Dopo l’approvazione – garantita da tutti i gruppi parlamentari – di una “Legge di stabilità” che rappresenta l’ennesimo provvedimento di macelleria sociale, i primi interventi del governo Monti delineano un coerente programma politico-economico con l’obiettivo di sostenere le imprese italiane in Europa attraverso il rigore di bilancio, politiche di contenimento della spesa pubblica, il rilancio delle Grandi opere e delle infrastrutture, una politica fiscale più leggera per le imprese stesse (con il contemporaneo aumento delle imposte indirette sul consumo) e la riforma del mercato del lavoro.

Un programma liberista – nel senso di salvaguardia del primato del profitto privato sull’interesse pubblico – condito dall’abituale sostegno pubblico del mercato e delle imprese. Un programma che possa guadagnare il favore dei mercati internazionali e che sia considerato credibile dagli investitori esteri, affinché il debito sia gradualmente ripagato senza rotture. Le parole d’ordine di Monti sono allora rigore di bilancio, crescita ed equità: il rigore di bilancio come forma di compressione e controllo della spesa pubblica; la “crescita” come fattore di rilancio della credibilità internazionale e di sostegno dei profitti; l’equità come specchietto per le allodole e ideologia del “siamo tutti sulla stessa barca”, chiamando ancora una volta chi ha già pagato a fare nuovi sacrifici (questa volta però “equi”). Chiedere a chi è stato derubato di contribuire al risarcimento insieme a chi lo ha derubato non è equità, è un truffa!

La novità rappresentata dalla caduta di Berlusconi e dalla nascita del governo Monti-Napolitano mette in fibrillazione l'intero quadro politico istituzionale e non:

* nel PdL si accentua la crisi di leadership - in previsione di una successione a Berlusconi - e di tenuta complessiva, anche se non è ancora la fine di Berlusconi e del berlusconismo

* il PD riafferma il suo ruolo di “partito naturale di governo” praticando l'ennesima versione di governo di unità nazionale che rende ancora più chiara la natura di questo partito

* il cosiddetto terzo polo ha finalmente l'occasione di rilanciare un progetto di grande centro che sia il perno insostituibile di qualsiasi coalizione e maggioranza

* la Lega Nord cerca di rifarsi una verginità nelle zone di maggiore presenza collocandosi all'opposizione e provando in questo modoa presentarsi come unica opposizione al “governo delle banche”.

La nuova fase politica provoca un profondo smottamento anche a sinistra. Il progetto di SEL è quello che entra maggiormente in crisi: si allungano i tempi delle eventuali primarie e si accentua la volontà del PD di una coalizione rivolta al centro, che renderebbe il protagonismo di Vendola più complicato fino al fallimento del suo progetto politico. La Federazione della Sinistra, invece, si divide tra chi (il Pdci) valuta positivamente la “discontinuità” rappresentata da Monti, il Prc che in questa fase sceglie l’opposizione al governo anche se ha impostato il congresso sull'alleanza con il Pd, e una terza posizione che comunque ribadisce la scelta strategica di lavorare per la coalizione di centrosinistra.

Le modalità della sostituzione del governo Berlusconi danno il segno di un grave “difetto di democrazia”: non solo non esistono veri spazi di partecipazione e decisione collettiva (pensiamo per esempio ai tentativi di affossamento dei risultati referendari) ma si afferma un protagonismo del Presidente della Repubblica che se resta formalmente interno alle norme della Costituzione, in realtà opera una forzatura fattuale di questa ponendosi come garante degli equilibri del sistema politico-economico europeo, delle richieste di BCE e governi UE e delle esigenze dei mercati internazionali. Anche la pervicace volontà di evitare il passaggio elettorale è il segno di una legittimazione che si ricerca solamente all’esterno e sulla testa degli elettori.

La caduta di Berlusconi – che non significa ancora la sua scomparsa politica – rappresenta un’occasione anche perché potrebbe definitivamente mettere fuori gioco l’antiberlusconismo vissuto come alibi per non affrontare i contenuti delle sue politiche. I provvedimenti già annunciati dal governo Monti-Napolitano richiedono urgentemente la costruzione di un'iniziativa convergente di tutte le forze politiche e sociali disponibili all'opposizione al governo e chi lo appoggia. Un'iniziativa che contenda una possibile risposta della destra estrema e della Lega - che potrebbero presentarsi come uniche “legittime opposizioni” al “governo delle banche"; un fronte ampio che non sia semplicemente la riunione delle forze politiche che non appoggiano il governo, ma che abbia un forte carattere sociale e sia in grado di mobilitare e suscitare conflitto e opposizione di massa alle politiche del governo.

Sinistra Critica si fa interprete di questa esigenza e di questa proposta impegnandosi direttamente in questa direzione e invitando tutte le forze politiche e sociali contrarie al governo Monti-Napolitano e alle sue politiche a prendere in tutte le città urgenti iniziative aperte di dibattito, di denuncia e di protesta. Due momenti estremamente importanti in questa direzione saranno:

* la manifestazione nazionale dei comitati per l'acqua del 26 novembre, che oltre alla difesa dei risultati del referendum dovrebbe assumere il carattere di contestazione dei progetti di rilancio delle privatizzazioni dei beni comuni e delle grandi opere (con un maggior ruolo dei privati) già annunciati da Monti;

* l'assemblea del “Comitato no Debito” del 17 dicembre, che proponiamo diventi un appuntamento più largo, aprendolo all’organizzazione di tutte le forze politiche e sociali disponibili all'opposizione al governo, facendone in questo modo un primo momento di dibattito e di uscita pubblica del fronte ampio di opposizione.

In questo quadro di necessaria costruzione della più ampia e diffusa opposizione al governo, Sinistra Critica ribadisce la sua priorità politica di fase nella campagna per il non pagamento del debito aderendo alla campagna lanciata da Rivolta il Debito (www.rivoltaildebito.org) a partire dalla richiesta di un audit pubblico; valorizzando la proposta di Referendum contro le politiche di austerità come espressione di un ampio fronte unitario. Opposizione al governo Monti, costituzione di un'alleanza politico-sociale la più ampia possibile, campagna contro il debito sono i passaggi immediati che contribuiscono a rafforzare la nostra opzione di una nuova sinistra anticapitalista.


21 novembre 2011

Italia, la base della vergogna


di Luca Galassi
www.peacereporter.net

Decimomannu, Sardegna, 19
novembre 2010. Nel corso dell'operazione di addestramento chiamata 'Vega', un pilota israeliano compie una manovra altamente pericolosa. Dopo il decollo dalla base sarda, secondo quanto riporta il blog di Davide Cenciotti, che ha ripreso la notizia dal sito JewPI.com, un F16 del 106° squadrone della IAF (Israeli Air Force) esegue una rotazione di 360 gradi (un 'tonneau', nel gergo dell'aviazione acrobatica). L'evoluzione è stata compiuta "senza motivo né vantaggio": con queste parole un tribunale militare israeliano ha condannato il pilota a sette giorni di carcere e un anno di sospensione dal volo. "La rotazione del velivolo - scrive Cenciotti nel suo blog - lungo il suo asse longitudinale è una manovra acrobatica che deve essere compiuta all'interno di aree specifiche e ad altitudini di sicurezza". Il sito JewPI riporta che l'aereo ha anche oltrepassato il muro del suono, causando un 'bang sonico' non autorizzato e al di sotto delle altitudini consentite. Della manovra altamente pericolosa, del 'bang sonico', dell'arresto e della sospensione del pilota nessun organo di stampa italiano ha mai parlato.

La pratica degli F16 israeliani del 'sonic boom' a basse altezze è diventata frequente nella Striscia di Gaza dopo la rimozione degli insediamenti ebraici nel 2005. Da allora, i piloti si esercitano sulla popolazione civile palestinese, producendo boati assordanti paragonabili a quelli di una bomba o di un terremoto. A volte, secondo quanto riporta il quotidiano britannico Guardian (http://www.guardian.co.uk/world/2005/nov/03/israel), lo spostamento d'aria è talmente forte da far sanguinare il naso. A Decimomannu si addestrano tali piloti. Non è escluso che alcuni di loro abbiano bombardato la Striscia durante 'Piombo Fuso', provocando la morte di oltre mille civili.

La base di Decimomannu dista pochi chilometri dall'abitato. Una decina di giorni fa si è conclusa l'edizione 2011 dell'operazione Vega, che ha visto centinaia di apparecchi da guerra europei - decine gli israeliani - e mezzo migliaio di militari prendere parte a esercitazioni di electronic warfare. L'operazione Vega rientra nella cooperazione militare Italia-Israele, stabilita dalla Legge 17 maggio 2005, e nel "Programma di cooperazione individuale" con Israele, ratificato dalla Nato il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell'attacco israeliano a Gaza. Esso comprende una vasta gamma di settori in cui "Nato e Israele cooperano pienamente": aumento delle esercitazioni militari congiunte; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; allargamento della "cooperazione contro la proliferazione nucleare". "Ignorando che Israele - scrivono il Manifesto nell'edizione sarda il 22 novembre 2010 e il Manifesto nell'edizione nazionale il 4 novembre 2011 - unica potenza nucleare della regione, rifiuta di firmare il Trattato di non-proliferazione ed ha respinto la proposta Onu di una conferenza per la denuclearizzazione del Medio Oriente". La base è infatti fornita dei più sofisticati apparecchi e dei sistemi per l'addestramento al tiro. E' inoltre l'aeroporto con il più alto numero di decolli e atterraggi presente in Europa, con una media di circa 60mila movimenti annui, pari a circa 450 movimenti giornalieri.

Il sito non ufficiale di Decimomannu (http://www.awtideci.com) riporta: "In pochi minuti di volo sono raggiungibili diverse aree adibite a poligoni aria-aria, aria-terra e bassa navigazione". Tra queste, la tristemente nota Quirra e Capo Frasca, ultima propaggine dell'area naturalistica del Sinis. Le aree coprono buona parte della Sardegna meridionale. Non è noto sapere quali armamenti siano stati usati per la dotazione degli F-15 ed F-16 israeliani impegnati nelle esercitazioni (così come di nessuno degli aerei di tutte le forze Nato che periodicamente si esercitano sui cieli sardi). Mentre l'Aeronautica diffonde la versione di una guerra esclusivamente ‘elettronica', sempre il sito non ufficiale riferisce che, nella zona di Capo Frasca, "operazioni principali sono il bombardamento al suolo e l'uso di cannoni o mitragliatrici di bordo. Il poligono offre una serie di bersagli adatti allo scopo. Apposite torri di controllo gestiscono il traffico aereo impegnato nelle sessioni di addestramento". In particolare, per Capo Frasca, designato con la sigla R59 nella mappa radar, "le operazioni sono bombardamento al suolo e uso di mitragliatrici di bordo. Il poligono offre una serie di bersagli utili allo scopo". In definitiva, gli aerei, Nato e non, decollano da Decimomannu, sorvolano aree civili, spesso con manovre 'altamente pericolose e scaricano il loro potenziale distruttivo in aree paesaggisticamente intatte, contaminando l'ecosistema, la biodiversità e - come si è visto per Quirra, e da poco anche per Capo Frasca - anche gli esseri umani. In quest'ultimo poligono sono stati testati i missili teleguidati AIM dell'Eurofighter prima dell'entrata in servizio. Come per il poligono di Quirra, anche qui cominciano a emergere storie di malattie oncologiche, ematiche o linfatiche, come ben esemplifica la vicenda del maresciallo Madeddu, riportata dal quotidiano 'Unione Sarda' il 30 maggio 2011.

Decimomannu ha un lungo bollettino di incidenti aerei. Dalla fine della Seconda Guerra mondiale 64 aerei hanno subito danni, sono precipitati al suolo o in mare, in località che abbracciano tutta la Sardegna meridionale: Capo Frasca, stagno di Cabras, Capo Carbonara, Orroli, Capo Ferrato, Alghero, Arborea. Ventitré piloti sono morti, e numerosi aerei o pezzi di aereo sono andati perduti. L'aeroporto è stato e continuerà ad essere un pericolo per gli abitanti della Sardegna. A dispetto del motto che campeggia beffardo sul sito ufficiale della base: Decimomannu, dove gli aviatori del mondo libero si addestrano per mantenere la pace.

16 novembre 2011

26 Novembre - In piazza per l'acqua, i beni comuni e la democrazia



PER IL RISPETTO DELL'ESITO REFERENDARIO, PER UN'USCITA ALTERNATIVA DALLA CRISI

Roma, ore 14.00 - Piazza della Repubblica


12 e 13 giugno scorsi la maggioranza assoluta del popolo italiano ha votato per l'uscita dell'acqua dalle logiche di mercato, per la sua affermazione come bene comune e diritto umano universale e per una gestione pubblica e partecipativa del servizio idrico.

Un voto netto e chiaro, con il quale 27 milioni di donne e uomini, per la prima volta dopo decenni, hanno ripreso fiducia nella partecipazione attiva alla vita politica del nostro paese e hanno indicato un'inversione di rotta rispetto all'idea del mercato come unico regolatore sociale.

Ad oggi nulla di quanto deciso ha trovato alcuna attuazione: la legge d’iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua continua a giacere nei cassetti delle commissioni parlamentari, gli enti locali - ad eccezione del Comune di Napoli - proseguono la gestione dei servizi idrici attraverso S.p.A. e nessun gestore ha tolto i profitti dalla tariffa.

Non solo. Con l’alibi della crisi e dei diktat della Banca Centrale Europea, il Governo ha rilanciato, attraverso l’art. 4 della manovra estiva, una nuova stagione di privatizzazioni dei servizi pubblici locali, addirittura riproponendo il famigerato”Decreto Ronchi” abrogato dal referendum.

Governo e Confindustria, poteri finanziari e lobbies territoriali, resisi conto che il popolo ha votato contro di loro, hanno semplicemente deciso di abolire il popolo, producendo una nuova e gigantesca espropriazione di democrazia.

IL RISULTATO REFERENDARIO DEVE ESSERE RISPETTATO E
TROVARE IMMEDIATA APPLICAZIONE

Per questo, il movimento per l’acqua si prepara a lanciare la campagna nazionale “Obbedienza civile”, ovvero una campagna che, obbedendo al mandato del popolo italiano, produrrà in tutti i territori e con tutti i cittadini percorsi auto organizzati e collettivi di riduzione delle tariffe dell’acqua, secondo quanto stabilito dal voto referendario.

Quello che avviene per l’acqua è solo il paradigma di uno scenario più ampio dentro il quale si colloca la crisi globale. Un sistema insostenibile è giunto al capolinea. I poteri forti invece di prenderne atto invertendo la rotta, ne hanno deciso la prosecuzione, attraverso la continua restrizione del ruolo del pubblico a colpi di necessità imposte dalla riduzione del debito e dai patti di stabilità, la consegna dei beni comuni al mercato, tra cui la conoscenza e la cultura, lo smantellamento dei diritti del lavoro anche attraverso l'art. 8 della manovra estiva, la precarizzazione dell’intera società e la conseguente riduzione degli spazi di democrazia.

Indietro non si torna. Dalla crisi non si esce se non cambiando sistema, per vedere garantiti: il benessere sociale, la tutela dei beni comuni e dell’ambiente, la fine della precarietà del lavoro e della vita delle persone, un futuro dignitoso e cooperativo per le nuove generazioni.

Un altro modello di società è necessario per l’intero pianeta. Insieme proveremo a costruirlo anche nei prossimi appuntamenti internazionali, come la conferenza sui cambiamenti climatici di Durban di fine novembre e a Marsiglia nel Forum Alternativo Mondiale dell'acqua a Marzo 2012.
Siamo vicini ai popoli che subiscono violenze, ingiustizie e vengono privati del diritto all’acqua come in Palestina, di cui ricorre il 29 novembre la Giornata internazionale di solidarietà proclamata dall’Assemblea della Nazioni Unite.

Per tutti questi motivi il popolo dell’acqua tornerà in piazza il prossimo 26 novembre e invita tutte e tutti a costruire una grande e partecipata manifestazione nazionale.

Vogliamo che sia il luogo di tutte e di tutti, da qui l’invito a costruirlo insieme, come sempre è stata l’esperienza del movimento per l’acqua. Un movimento che ha sempre praticato la radicalità nei contenuti e la massima inclusione, con modalità condivise, allegre, pacifiche e determinate nelle forme di mobilitazione, considerando le une inseparabili dalle altre.

Per questo, nel prepararci a costruire l’appuntamento con la massima inclusione possibile, altrettanto francamente dichiariamo indesiderabile la presenza di chi non intenda rispettare il modo di esprimersi di questa ricchissima esperienza.

Vogliamo costruire una giornata in cui siano le donne e gli uomini di questo paese a riprendersi la piazza e la democrazia, invitando ad essere presenti tutte e tutti quelli che condividono questi contenuti e le nostre forme di mobilitazione, portando le energie migliori di una società in movimento, che, tra la Borsa e la Vita, ha scelto la Vita.

E un futuro diverso per tutte e tutti.

Promuove: Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua

Aderiscono: Alternativa Ribelle/Ribalta, Alternativ@Mente, Ass. Altraladispoli, Ass. Altramente, Ass. BETA-L.E.E.S., Ass. Federata di Tutela degli Utenti e Consumatori - USICONS, Ass. Fratelli dell'Uomo, Ass. Logout Lab, AteneinRivolta - Coordinamento Nazionale dei Collettivi, CGIL Padova, Coordinamento Lavoratori Autoconvocati, Ecologisti Civici e Verdi, Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio/Salviamo il Paesaggio, Difendiamo i Territori, Italia Nostra Castelli Romani, Liberacittadinanza - Rete dei girotondi e movimenti, Meetup 607 Amici di Beppe Grillo di Cuneo, Movimento Nazionale Stop al Consumo di Territorio, Osservatorio Europa, PeaceLink, Rete@Sinistra, Rete Commons - Uniti per i beni comuni Benevento, Rete Zero Waste Lazio, Terracina Social Forum, Unione Inquilini, Unione Sindacale Italiana - USI, Verdi Ambiente e Società - VAS ONLUS

Sostengono: Comunisti Uniti, Comunisti Sinistra Popolare, Democratici per l'Acqua Pubblica, Federazione della Sinistra, Federazione dei Verdi, FGCI, Forum SEL "Beni Comuni" - Emilia Romagna, Laboratorio politico-culturale Alternativa, Movimento Cinque Stelle Portici (NA), Movimento Città Viva - Nola, Partito dei Comunisti Italiani, Partito della Rifondazione Comunista, Sinistra critica - Movimento per la Sinistra Anticapitalista, Sinistra Ecologia e Libertà,

Adesioni Enti Locali: Comune di Cassinetta di Lugagnano (MI)


La CGIL sostiene la manifestazione nazionale del 26 Novembre

Per info e adesioni scrivere a segreteria@acquabenecomune.org

14 novembre 2011

Addio a Berlusconi e al suo governo. Adesso opposizione al governo delle banche e della finanza europea


Le migliaia di donne e uomini nelle piazze in tante città italiane giustamente festeggiano le dimissioni di un personaggio che troppi danni ha fatto negli anni in cui è stato presidente del consiglio – e anche in quelli in cui è stato all’opposizione.

Non condividiamo di questi festeggiamenti la disattenzione per come è avvenuta la caduta di Berlusconi e per quello che succedera da questo momento.

Nemmeno condividiamo la gioia verso il presidente Napolitano, che è stato protagonista di questa caduta per rispondere alle esigenze del capitale e della leadership politica europea, che consideravano Berlusconi e il suo governo inadatti a portare a termine le politiche di austerità e di distruzione dello stato sociale che in tutta Europa sono l’unica “risposta” alla crisi.

Tantomeno possiamo dimenticare che la cronaca di un’austerità annunciata porta il nome di Mario Monti, commissario integerrimo che vietava qualsiasi aiuto di Stato, per favorire gli interessi delle grandi banche e per garantire la deregulation del sistema finanziario. Lo stesso Mario Monti che sul “Corriere della sera” esaltava le “riforme” di Gelmini e Marchionne. Può seriamente qualcuno a sinistra pensare che sia l’uomo giusto, che possa rappresentare qualcosa di “meglio”?

Non c’è un “dopo”, quindi, c’è invece un presente rappresentato da un governo pericoloso per gli interessi delle classi popolari e che ha come suo unico programma nuove e più pesanti manovre economico-finanziarie contro lavoratrici e lavoratori, per maggiori privatizzazioni dei beni comuni, per asservire ancora maggiormente le scelte interne alle esigenze del capitale europeo.

Un governo che vuole vendere la vecchia ideologia secondo la quale dalla crisi si può uscire solamente con ulteriori sacrifici dopo che il welfare, i salari, le pensioni fanno sacrifici da più di vent'anni.

Per lavoratrici e lavoratori, precari/e, giovani, migranti c’è solo una strada possibile: l’opposizione immediata e ferma al governo Monti-Napolitano – ricostruendo dal basso le ragioni e l’organizzazione necessarie per resistere a nuove manovre contro di loro e per costruire una rete che ponga le questioni dell’alternativa sociale e politica, facendo pagare la crisi a chi l’ha provocata.

Non ci sono scorciatoie istituzionali: l’unica via democratica non può che venire da elezioni immediate e da un confronto sulla politica e sui programmi che provi a far tesoro di quanto accaduto negli ultimi quattro anni – con una sinistra anticapitalista che rifiuti qualsiasi compromesso di “unità nazionale” o “tecnico” e organizzi l’opposizione sociale e politica.

Invitiamo tutte/i a costruire la più ampia unità delle forze che rifiutano il governo Monti per un’uscita da sinistra alla crisi. Noi ci saremo.

Esecutivo nazionale Sinistra Critica

09 novembre 2011

Via Berlusconi... e poi?


Piero Maestri*

Vogliamo essere chiari fin dall’inizio: la caduta, meglio la cacciata, del governo Berlusconi e la fine della carriera politica del presidente del consiglio sono obiettivi sacrosanti. Punto.
Questo governo rappresenta e ha rappresentato la faccia feroce e immorale delle politiche liberiste, un governo che non conosce le regole democratiche e ha costruito le fortune di imprese e personaggi amici sul taglio delle spese sociali e del livello di vita di milioni di donne e uomini. Per questo la sua caduta è una liberazione e un’occasione per le classi popolari e per la democrazia del nostro paese.
Ma…

Non ci interessa minimamente il dibattito sulla composizione istituzionale della crisi di governo: governo tecnico, governo “traghettatore”, governo di larghe intese e altre amenità…
Ci interessa molto, invece, comprendere cosa si sta preparando per lavoratrici e lavoratori, giovani,precarie/i di questo paese.
La crisi di governo non avviene sull’onda delle mobilitazioni di massa, che pure non sono mancate anche in Italia, ma è la conseguenza dell’incapacità di Berlusconi in prima persona e della sua maggioranza di mentecatti di dare piena soddisfazione alle esigenze dal capitale dominante in Europa - quindi alla Bce e ai suoi padroni franco-tedeschi, anche se alla guida c’è l’italiano Draghi – e alle necessità della Confindustria e delle banche di avere capitali freschi per permettere loro di uscire dalla crisi con maggiori profitti e poteri.

Per poter applicare fino in fondo questi provvedimenti il centrodestra al governo non è sufficiente: serve imbarcare nell’operazione anche una parte della cosiddetta “opposizione”, quella “responsabile” formata dal PD e dal fantomatico “terzo polo” (pensate al trio Casini, Fini, Rutelli…..). Opposizione così responsabile da condividere fino in fondo le ricette di Fmi e Bce e che quando critica Berlusconi sulla politica economica lo fa… da destra: nel senso che critica l’impresentabilità di Berlusconi, ma non le politiche di fondo.
Così responsabile da aver permesso che passassero le finanziarie (per discutere la sfiducia – dicembre 2010), la manovra di bilancio, la legge di stabilità….

Per dare una risposta adeguata alla crisi di governo, una risposta di sinistra, si deve affrontare con chiarezza e onestà un nodo chiave delle scelte politiche dei prossimi mesi: chi paga la crisI?
Non è sufficiente dire che si vogliono più risorse per il lavoro, i giovani, il welfare, la cultura ecc… se non si dice dove devono essere prese queste risorse.
E la risposta, come si deve dire, è una risposta di classe: paghi chi ha provocato la crisi; paghi chi non ha mai pagato; altro che “anche i ricchi paghino”: solo i “ricchi” devono pagare, gli altri (pensionate/i, precari/e,lavoratrici e lavoratori, migranti) hanno già pagato e ancora pagano.

La caduta del governo Berlusconi è un’occasione affinché la sinistra e i movimenti sociali prendano la forza di organizzarsi e perché lavoratrici e lavoratori, precari/e, studentesse e studenti, migranti diano vita ad una mobilitazione che ponga dal basso una piattaforma chiara: il debito illegittimo non si deve pagare; vanno tagliate le spese inutili e dannose (spese militari e grandi opere come Tav, Expo2015, Ponte di Messina…); vanno recuperati i miliardi regalati alle imprese con il cuneo fiscale di prodi ancora in vigore e con altri provvedimenti simili; vanno nazionalizzate le banche e difesa la gestione pubblica dei beni comuni – come hanno chiesto 27milioni di elettori ed elettrici il 12 giugno scorso.
Con queste risorse si potrà costruire una politica economica diversa, che finalmente risponda ai bisogni del “99%” – come dicono i manifestanti di “Occupy Wall Street” – e che ponga al primo posto la riconversione ecologica della produzione (e del territorio, così da evitare altri morti alla prossima pioggia o al prossimo terremoto).

Alla “società civile” che manifesta contro il governo Berlusconi e ne denuncia soprattutto gli aspetti più scandalosi/scandalistici, non chiediamo opinioni sul prossimo governo: chiediamo se è pronta a lottare per questi contenuti, se smette di ragionare di governi (o giunte regionali e comunali) amici, se è pronta a non permettere a qualsiasi di governo di fare politiche di guerra, contro i diritti dei lavoratori, contro le lassi popolari.
Insomma, di fare il suo mestiere: non più supporto esterno a governi amici, ma indipendenza e autonomia per costruire l’alternativa.
Noi ci proviamo – già dalle prossime settimane: dalle manifestazioni studentesche del 17 novembre alla manifestazione nazionale per la difesa di acqua e beni comuni del 26 novembre, nella speranza di uno sciopero generale vero (che probabilmente verrà fermato dalla “responsabilità” dei sindacati Conferderali di fronte ad un governo di larghe intese…).
* Portavoce di Sinistra Critica

06 novembre 2011

L’odore della morte non nasconde la puzza dei fiumi di denaro e profitti che l’hanno provocata.


A Genova e in Liguria, ormai ad ogni autunno, siamo di fronte ad alluvioni con tragiche conseguenze. A Genova, ancora lo scorso anno, con lo straripamento del Chiaravagna a Sestri Ponente, e oggi con l’esondazione del Bisagno e del Fereggiano, con un bilancio di ben 6 vittime. E solo pochi giorni fa la tragedia delle Cinque Terre, a Monterosso e Vernazza, con altri morti e interi paesi devastati.
Il profitto e la cementificazione del territorio sono le cause prime di questi colpevoli disastri. Interi quartieri genovesi, come ad esempio Quezzi, sono stati costruiti a stretto contatto dei torrenti e dei rivi, se non addirittura nel loro alveo. Si sono coperti interi tratti di torrenti e corsi d’acqua, ristretti gli alvei naturali. E’ quindi una ovvia conseguenza che, in presenza di piogge più forti, le acque si riprendano i loro spazi. Paradossalmente e senza alcuna vergogna, il presidente del Consiglio Berlusconi afferma che “si è costruito laddove non si doveva costruire”, come se i suoi governi non avessero varato due condoni edilizi nel 2003 e nel 2009, e ancora pochi giorni fa non si pensasse di riproporne un terzo all’interno dei provvedimenti economici e finanziari che il governo vuol mettere in atto.
Ma l’insieme delle compagini governative che si sono succedute in questi ultimi decenni, di destra come di centrosinistra, hanno pesanti responsabilità nel non aver progettato e finanziato ciò che occorrerebbe veramente: un grande progetto nazionale di messa in sicurezza e di manutenzione del territorio. Destra e centrosinistra, invece, sostengono in maniera bipartisan progetti e finanziamenti per “grandi opere” di ulteriori cementificazioni e sconvolgimenti ambientali, come la TAV, o come il Terzo valico o la Gronda autostradale per l’area genovese. A tutto ciò si sommano poi le scelte delle amministrazioni locali, anch’esse peraltro tutte sostenitrici di queste “grandi opere”.
Lo vogliamo dire utilizzando le parole usate dal geologo del CNR Mario Tozzi, conosciuto conduttore del programma televisivo “La gaia scienza”: “La Regione Liguria nel suo piano casa – il peggiore tra tutti – ha previsto di portare la distanza minima dagli alvei da dieci a tre metri. E’ una roba da criminali. Non si può far finta di nulla. E poi quando succede la disgrazia ti lamenti e vuoi la calamità naturale ... Ma lì non dovresti aggiungere nemmeno una pietra in più. Come al solito, si danno concessioni edilizie per fare cassa ... Siamo un paese medievale che brucia territorio inutilmente. Duecentomila ettari all’anno, mentre in Inghilterra solo diecimila. Questo è il vero spread.” E Tozzi si riferisce al piano casa varato dal Consiglio regionale della Liguria non chissà quanto tempo fa, ma nello scorso febbraio. Così come per il nuovo PUC (Piano Urbanistico Comunale), in corso di approvazione in questi giorni nel Consiglio comunale a Genova, con cui la destinazione d’uso di amplissime aree sarà lasciata alla “contrattazione” con i privati.
Ma alle critiche formulate da Legambiente, secondo cui “con questo Piano l’amministrazione persevera, in modo anche peggiore, con il sistema dell’urbanistica contrattata portata avanti dalla giunta Pericu-Gabrielli, con un’ulteriore cementificazione della città”, la sindaco Vincenzi ha risposto che “la vostra è un’idea di pianificazione che aveva la sinistra negli anni ‘80, noi abbiamo cercato di evolverci”. Ecco, la responsabilità politica della Giunta comunale, a nostro avviso, non si esaurisce certo nella polemica se era giusto o meno chiudere le scuole, né se a livello di strutture tecniche di prevenzione siano state date tempestivamente o meno previsioni e disposizioni preventive, ma stanno soprattutto nelle scelte strategiche di fondo che prediligono “grandi opere” e infrastrutture, piuttosto che cura del territorio, e che vengono appunto da tempi lontani e da sempre nuovi appetiti di grandi costruttori. E intanto, a Sestri Ponente, il palazzo costruito sul torrente Chiaravagna è sempre lì ...
Genova, 6 novembre 2011
Sinistra Critica – organizzazione per la sinistra anticapitalista Coordinamento provinciale – Genova

05 novembre 2011

La battagglia per l'acqua come risposta alla crisi


di Marco Bersani (Attac)

C’entra la battaglia per la ripubblicizzazione dell’acqua con la crisi e con le politiche monetariste della Banca Centrale Europea? Moltissimo e per diversi motivi.
Il primo dei quali ha a che fare con la risposta che Governo e poteri forti hanno dato alla vittoria referendaria dello scorso giugno. Consapevoli di aver perso il consenso sociale, preoccupati dell’evidente erosione della catena culturale che per più di due decenni ha legato le persone all’idea del pensiero unico del mercato, Governo e poteri forti hanno rilanciato una nuova stagione di privatizzazioni dei servizi pubblici locali, giustificandola con le risposte da dover dare all’Unione Europea in merito alla riduzione del debito pubblico. La stessa Unione Europea, nell’ormai famosa lettera-diktat, con la quale chiede addirittura modifiche della Costituzione al nostro Paese, rilancia le politiche liberiste proprionel senso della svendita del patrimonio pubblico e della messa sul mercato di tutti i beni comuni.
L’operazione ideologica, che sottende a questo perseverare in politiche che sono state la causa stessa della crisi globale, è quella che tenta di far credere, come se fossimo nell’antica Grecia, che esistano nuove divinità impalpabili e inconoscibili - i cosiddetti mercati – che tuttavia provano emozioni: possono dare e togliere fiducia, divenire euforici o collerici, turbarsi. E che alle popolazioni non resti altro che fare continui sacrifici in loro onore, sperando di ingraziarli per suscitare la loro benevolenza o per mitigarne la collera. Di conseguenza, il voto della maggioranza assoluta del popolo italiano a favore dell’uscita dell’acqua dal mercato e dei profitti dall’acqua non può essere considerato perché cause di forza maggiore, ed indipendenti dalle volotà umane, impongono altre strade e direzioni.
Il secondo motivo sta proprio nella radicalità della battaglia del movimento per l’acqua. Avendo scelto, con la legge d’iniziativa popolare e con la battaglia referendaria, l’obiettivo strategico di non limitarsi a contrastare le privatizzazioni selvagge cercando di ottenere una riduzione del danno, bensì di disegnare uno scenario di fuoriuscita totale dei beni comuni dalle gestioni attraverso SpA, il movimento per l’acqua apre nuovi scenari che parlano di nuovo ruolo della fiscalità generale, di necessità di una nuova finanza pubblica, di ridisegno radicale degli enti locali di prossimità, di cultura dellademocrazia come partecipazione. Tutti obiettivi che cozzano inevitabilmente con la costruzione di un’Unione Europea che, lungi dall’essere stata pensata come entità politica e culturale, è stata forgiata come spazio monetario con un unico scopo: il consolidamento dei dogmi liberisti, attraverso le politiche della Banca Centrale Europa, finalizzate esclusivamente alla stabilità dei prezzi, all’equilibrio di bilancio e allo stimolo della concorrenza e sottratte, attraverso la totale “indipendenza” dai Governi, a qualsivoglia controllo democratico dei cittadini.
La battaglia per la riappropriazione sociale dell’acqua e dei beni comuni contrasta inevitabilmente con il patto di stabilità esterno ed interno, perché è esattamente attraverso questo strumento che si impedisce agli Stati di poter esercitare un ruolo pubblico nell’economia e si costringono gli enti locali al drastico restringimento delle loro funzioni, fino al loro smantellamento definitivo. Significativa a questo proposito la norma contenuta nell’art. 4 della manovra finanziaria estiva che, nell’obbligare –nonostante il voto referendario- i Comuni a vendere tutti i servizi pubblici locali, prevede che i ricavi di tali vendite possano essere introitati dai Comuni stessi e spesi per opere che non verranno conteggiate nel patto di stabilità interno (come dire, se vuoi asfaltare una strada o costruire un asilo devi vendere l’acqua o il trasporto pubblico).
Nell’attuale contesto di crisi, ciò che sta succedendo è il trasferimento di un debito del sistema bancario e finanziario agli Stati e da questi ultimi ai cittadini; ovvero, si salvano le banche socializzandone gli oneri e poi si interviene per evitare il default degli Stati con misure di macelleria sociale che mandano in default i cittadini. Si tratta di una gigantesca trasposizione dal welfare, che aveva caratterizzato, seppur in forme differenti tra loro, tutti i paesi dell’Unione Europea della seconda parte del ‘900, come compromesso sociale tra il capitale e il lavoro, verso un sistema di bankfare, all’interno del quale il ruolo del pubblico diviene esclusivamente quello di sostenere, a spese dei cittadini, il sistema bancario e finanziario internazionale, causa prima della crisi in atto.
Il risultato è un circolo vizioso grazie al quale il debito degli Stati è notevolmente aumentato proprio grazie al fatto che i governi hanno deciso di accollarsi le perdite del capitale finanziario.
Ma l’idea di invertire la rotta non sfiora neppur lontanamente i poteri forti politico-economici, tant’è che la linea di “rigore” è stata recentemente rafforzata con alcune misure a livello comunitario, in primis attraverso le sei proposte legislative per il rafforzamento del patto di stabilità, così riassumibili: ulteriore controllo della spesa pubblica, ulteriori restrizioni nei parametri relativi a debito e deficit, obbligo di deposito cauzionale a garanzia del rispetto delle raccomandazioni, nuove regole di redazione dei bilanci, set di indicatori economici per valutare gli squilibri, ammende in caso di mancato rispetto. Sono tutte norme conseguenti al nuovo “Patto per l’Euro”, approvato dal Consiglio Europeo il 24-25 marzo 2011 e che prevede obiettivi comuni per tutti i governi, a partire dalla “sostenibilità” della finanza pubblica, con l’ unico scopo di riaffermare il primato dell’impresa e del mercato sui beni comuni, i diritti sociali e del lavoro.
Che fare, dentro questo quadro? E’ evidente che per il movimento per l’acqua, dopo la straordinaria vittoria referendaria, si aprono nuovi scenari di lotta. La realizzazione dei risultati referendari, con la ripubblicizzazione di tutte le gestioni dei servizi idrici e la loro gestione partecipativa e senza profitti è senz’altro il primo compito. Da questo punto di vista la mobilitazione per l’approvazione dellalegge d’iniziativa popolare da una parte e il lancio della campagna di “Obbedienza civile” per l’autorganizzazione della riduzione delle tariffe in obbedienza al voto del popolo italiano, sono gli obiettivi immediati. Ma possono essere portati a vero compimento solo se collocati in una mobilitazione più ampia che prenda di petto le politiche monetariste dell’UE e liberi un nuovo ruolo del pubblico nella finanza e nell’economia.
Un primo obiettivo non può che riguardare il debito. Un debito che va studiato ed esaminato attraverso la creazione di auditorie popolari che facciano l’anamnesi dello stesso, ne identifichino le responsabilità e ne propongano la drastica riduzione/ristrutturazione sino al suo non pagamento.
Un secondo obiettivo riguarda il controllo dei capitali finanziari
, a partire dall’approvazione della FTT, ovvero la tassa su tutte le transazioni finanziarie, sino alla costruzione di condivise politiche fiscali europee.
Un terzo obiettivo deve diventare l’apertura di un fronte per il superamento del patto di stabilità, cominciando a sottrarre allo stesso tutta la spesa rivolta all’accesso ai beni comuni naturali e sociali e all’erogazione e qualità dei servizi pubblici locali.
Infine, la riapertura di uno spazio nuova di finanza pubblica che preveda la risocializzazione del sistema bancario, a partire dalla ripubblicizzazione della Cassa Depositi e Prestiti, il cui capitale pubblico è immenso, ma tutto orientato alla valorizzazione finanziaria e all’investimento in dannose grandi opere.
Con la vittoria referendaria il movimento per l’acqua ha inserito un fortissimo granello di sabbia negli ingranaggi dell’economia liberista, ora si tratta di costruire percorsi, alleanze e intrecci a livello nazionale ed europeo per arrivare tutte e tutti assieme a ingripparne definitivamente il motore. La grande manifestazione nazionale a Roma del prossimo 26 novembre sarà il primo passo in questa direzione.

4 novembre, no alle parate e alle spese militari!


Il 4 novembre ricorre l'anniversario della fine di uno dei più terribili massacri della storia, nulla di più lontanto dunque dall'idea di un festa delle forze armate. Anche quest'anno invece Verona offre piazza Brà per l'ennesima esibizione militare e così un sindaco leghista che fino a qualche tempo fa inneggiava con il suo partito alla seccessione, ora rifluisce nella più mite, ma non meno insopportabile, retorica patriottarda.
In particolare, in questo periodo di crisi profonda, ci parrebbe certamente più opportuna una politica che anziché versare retorica, tagliasse le spese militari (ad esempio 700 milioni di euro a semestre per la guerra in Afghanistan e per le altre missioni; 3,6 miliardi di euro per l'acquisto di 131 cacciabombardieri F-35; oltre un miliardo di euro spesi solo nei primi tre mesi della guerra in Libia) a favore di una spesa sociale in difesa dei posti di lavoro, dell'istruzione e della sanità pubbliche. .
Noi però non nutriamo alcuna fiducia né in questo governo, né nell'opposizione parlamentare quanto mai preoccupata di far rispettare i diktat liberisti e antidemocratici della Commissione Europea, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale, che in nome del pagamento del debito pubblico stanno costringendo anche l'Italia ad una vera e propria macelleria sociale.
Sinistra Critica è invece convinta della necessità di una mobilitazione sociale, in grado di praticare una democrazia diretta, che rivendichi il blocco delle misure economiche del governo, la rinegoziazione del debito pubblico e l'introduzione di misure (come la patrimoniale) che vadano a reperire i soldi da chi non ha mai pagato per investirli nella spesa sociale.
No alle parate e alle spese militari! No alla retorica patriottarda che nasconde la crisi economica! Che se ne vada tutta questa calsse politica! Non paghiamo noi la loro crisi ed il loro debito!
Sinistra Critica - Organizzazione per la sinistra anticapitalista

03 novembre 2011

Alemanno sperimenta le sue regole autoritarie: solidarietà a studenti/studentesse in piazza a Roma

Il sindaco/podestà Gianni Alemanno – dopo aver vietato illegittimamente e impunemente le manifestazioni nel centro di Roma – sperimenta oggi sugli studenti la repressione verso che coscientemente e legittimamente viola provvedimenti che vogliono impedire la libera espressione e le libere manifestazioni.
Prima l’avvertimento ai presidi affinché schedassero chi usciva dalle scuole per andare in corteo, poi i controlli all’interno delle scuole da parte delle “forze dell’ordine” (agli ordini di chi?), infine le cariche al corteo, il sequestro degli studenti in piazza e la costrizione alla schedatura in fila per uno. Scene cilene, o siriane che non possono essere tollerate.
Siamo incondizionatamente dalla parte delle studentesse e degli studenti che hanno deciso di manifestare a Roma e invitiamo tutte le forze democratiche a protestare e a organizzare una disobbedienza di massa alle “regole” di Alemanno.
È pericolosamente in atto un “strategia della provocazione” da parte degli esponenti della destra (Sacconi che grida al pericolo terrorista collegandolo al 15 ottobre, Alemanno che si comporta da podestà fascista, ecc....) per provare a delegittimare e fermare l’estendersi di una rivolta che potrà travolgerli e che consapevolmente chiede che si ponga fine alle politiche che vogliono far pagare la crisi a chi non l’ha provocata.
Non ci fermeranno, noi a casa non torniamo!

Dichiarazione di Flavia D’Angeli e Piero Maestri, portavoce di Sinistra Critica

02 novembre 2011

Il referendum che fa paura


La decisione greca di consultare i cittadini getta nel panico mezza Europa segno dello scarto tra tecnocrazie e democrazia. Eppure, il referendum e la possibilità di decidere è l'unica strada contro gli apprendisti stregoni
di Salvatore Cannavò
www.ilmegaonoquotidiano.it

Cosa c’è di meglio delle parole dell’agenzia di rating Fitch a proposito dell’eventualità di un referendum in Grecia sulle misure anticrisi, per capire cosa ci sta riservando l’Unione europea e quali fulmini si abbatteranno sui cittadini europei? “Il referendum greco – dice Fitch - mette a repentaglio la stabilità e la vitalità stessa dell'euro”. Terrore e panico sui mercati, le borse sprofondano, la politica europea va in subbuglio. La borsa italiana, ovviamente, scende più delle altre perché chi può pensare che un governo guidato da Silvio Berlusconi e dalla sua corte possa solo pensare di risolvere una crisi di questa portata?

Il punto, però, in questo caso non è tanto Berlusconi quanto l’opposizione feroce che viene fissata tra le esigenze del risanamento e la democrazia. E così scopriamo che Sarkozy si dice “costernato” per la decisione annunciata dal premier greco Papandreou, la Germania è terrorizzata e Francoforte perde il 3,8 per cento in una sola giornata. Secondo il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick il referendum greco è una “roulette russa” mentre il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Junker ipotizza il fallimento per Atene se si ricorrerà al voto dei cittadini. Sembra di risentire Sergio Marchionne quando avvertiva gli operai di Pomigliano sui rischi del referendum in fabbrica.

A questo punto non è più nemmeno tanto sicuro che il referendum si farà. Papandreou sta facendo dichiarazioni su dichiarazioni per assicurare che non succederà nulla mentre su diversi giornali internazionali si sottolinea il fatto che la Costituzione greca non consente referendum su materie fiscali. Insomma, non si deve votare né partecipare alle decisioni. Sembra che l’unica forma di consultazione dei cittadini sia quella del tacito consenso. In caso contrario si può sempre spaccare qualche vetrina, così si sfoga un po’ la rabbia ma nessuna borsa viene infranta.

Il punto, invece, è che bisognerebbe proprio poter decidere. Poter essere consultati proprio quando tutti gli schemi stanno saltando e con essi tutte le regole e anche le stesse leggi, immutabili, dell’economia liberista. Del resto, la Grecia dimostra che ci si muove su coordinate inedite. Si pensi alla decisione di svalutare i titoli del debito del 50 per cento in possesso delle banche, con il loro consenso. Come sempre avviene di fronte a ipotesi di fallimento, i creditori sono i primi a favorire la capacità di rimborso dei debitori anche se costretti a pagare qualche prezzo. Ma è sempre meglio incassare il 50 per cento che nulla anche perché i mercati hanno già scontato quella svalutazione. Però, se sono “gli indignati” a proporre una moratoria sul debito e una sua ricontrattazione, giudicando quale sia quello legittimo e quale, invece, quello da non rimborsare, scatta subito l’accusa di utopismo o di scarso senso della realtà.

Il problema è che se davvero si dovrà agire sul piano della riduzione consistente e visibile dei debiti pubblici le stangate saranno di una durezza impensabile. Se solo si pensa che il debito pubblico italiano è di circa 1900 miliardi di euro mentre il Pil non arriva a 1600 miliardi, si capisce che per arrivare a una percentuale del debito sul Pil, poniamo del 100 per cento, servirà, in assenza di crescita economica, una manovra da 300 miliardi. E non è un caso che circoli la cifra di 400 miliardi. Un governo di unità nazionale dovrà servire proprio a questo.

Mai come in questo momento servirebbe la presenza sulla scena politica di movimenti e cittadinanza in grado di dire la propria, di decidere cosa è possibile sacrificare e chi dovrebbe fare questi sacrifici. In un paese che, secondo i dati di Bankitalia, ha una ricchezza netta di circa 8600 miliardi di cui il 44 per cento è concentrato nelle mani del 10 per cento delle famiglie, noi non abbiamo dubbi su chi debba pagare il risanamento. Ma proprio per questo la più ampia discussione e, quindi, anche lo strumento del referendum, costituirebbe l’unica garanzia di procedere sulla giusta strada. Anche perché i vari capi di governo si sono rivelati finora dei perfetti apprendisti stregoni (e quello italiano, nemmeno apprendista).