29 febbraio 2012

Come si continua?


Al movimento No Tav arrivano offerte di dialogo da tutte le parti ma con l'obiettivo di ottenere la resa. Il rischio è quello dell'isolamento e dello scontro isolato con lo Stato. Servirebbe uno sforzo collettivo, in tutta Italia

di Salvatore Cannavò

www.ilmegafonoquotidiano.it

In serata è finito il blocco della Tangenziale di Torino, forse l'azione più incisiva della giornata insieme al blocco dell'A32. E' stata una giornata di iniziative prese di istinto sull'onda della rabbia per quanto accaduto a Luca Abbà - caduto dal traliccio durante l'intervento della polizia per espropriare i terreni su cui va costruita l'Alta velocltà - ma anche per aver dovuto subire l'ennesima pressione subito dopo la grande manifestazione di sabato scorso. Però nel dibattito di queste ore si percepisce anche l'esigenza di guardare più avanti.«Dobbiamo continuare a resistere ma dobbiamo organizzarci meglio dice, ad esempio, Alberto Perino, forse il leader No Tav più riconosciuto, durante l'assemblea al presidio di Chianocco). «Non è possibile - ha spiegato in assemblea trasmessa in diretta streaming sul web - avere dei momenti in cui siamo 300 persone e altri in cui siamo in 20. Bisogna cercare di organizzarci e esserci in numero sufficiente nell'arco delle 24 ore». Perino ha specificato che questa «è l'occupazione più lunga che abbiamo mai fatto». Poi il leader No Tav ha sottolineato che il movimento sta organizzando altri metodi di lotta «che qui ovviamente non diciamo. Faremo delle azioni improvvise che renderanno la vita difficile a chi vuole considerarci un parco giochi o degli indiani da spremere». Queste persone, ha concluso «non hanno capito niente di noi o della Val di Susa».
Le dichiarazioni di Perino giungono dopo che per tutta la giornata si sono sentite le profferte di dialogo da parte dei vertici istituzionali a partire dal ministro dell'Interno, Cancellieri (a cui risponde nel merito il Legal Team No tav, nel testo che pubblichiamo qui sotto).
"Dialogo" e "rasseneramento degli animi" sono le parole d'ordine ma dietro la proposta del dialogo - da qualunque parte arrivi, Bersani compreso - c'è di fatto la richiesta al movimento di deporre le armi e di accettare la costruzione della linea ferroviaria. A dirlo con chiarezza è il ministro competente, Corrado Passera, secondo cui il dialogo è necessario "ma i lavori devono continuare come previsto". Appunto.

Intanto continuano in tutta Italia le iniziative di solidarietà come il blocco del treno ad "alta velocità" a Lecce e altre manifestazioni sparse. Ma come si continuerà? Con azioni simboliche, o più concrete, fatte a macchia di leopardo con l'obiettivo di fare danni concreti alle ferrovie e, in generale, a tutti coloro che hanno grandi interessi privati nell'affare Tav? E' una strategia che può consentire di allargare la mobilitazione e di reggere uno scontro così duro? Perchè ormai è chiaro che il governo e il Parlamento, non sono disposti a fare un passo indietro sotto la pressione di una mobilitazione e di un movimento popolare. Lo spiegava stamattina con chiarezza su Repubblica un editorialista, democratico e progressista, come Giorgio Galli secondo cui in questo momento politico non si può consentire uno smacco delle decisioni prese nelle istituzioni democratiche nazionali. Se vince la Valle, è la conseguenza implicita, possono vincere decine e decine di altre rivendicazioni "corporative". Perché la resistenza della Val di Susa è equiparata, nell'establishment dell'era Monti, alle richieste delle categorie corporative e alle rivendicazioni di bassa lega che non vedono "l'interesse generale". Anche il gesto di Luca Abbà è visto come una "cretinata" che non merita biasimo - si vedano le campagne di Libero e Giornale - e non come il gesto, magari disperato, di chi si è abbarbicato alla propria terra che rappresenta la propria vita. La democrazia abita anche in quella Valle e pervade quel movimento. Ma questo non fa parte del dibattito.
E allora bisognerebbe davvero avere un respiro più generale. Non abbiamo ricette o proposte e non spetta a noi darle. Ma trovare il modo efficace per dire davvero che "La valle non è sola" è forse oggi il modo più utile per difendere questo movimento, impedire che si avviti nel corpo a corpo solitario con lo Stato e per dare alla lotta contro Tav e Grandi opere quel respiro generale che si merita.

Sulle dichiarazioni del ministro Cancellieri

Il Ministro Cancellieri, sul grave incidente che ha colpito il Sig. Abbà ha comunicato che “è un fatto molto grave e triste perché tocca una giovane persona: su questo ci vuole una forte riflessione e molto dialogo, ma bisogna anche tenere conto delle scelte fatte con assoluta coscienza e attenzione”.

Bene, sulla dichiarazione “scelte fatte con assoluta coscienze ed attenzione” siamo a replicare che ciò non è vero.

l’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici ha constatato l’effettivo “caos” in riferimento alla normativa applicabile. In molti atti ed in particolare lo stesso Ministero delle Infrastrutture, con documento del 2007, ha indicato, quale procedura da seguire, la legge ordinaria e non la legge obiettivo. Sul tema una delibera del CIPE del 2009, avente ad oggetto le opere strategiche di cui alla legge obiettivo, ha escluso l’applicabilità della predetta legge all’opera della NLTL.
Non è esistita alcuna coscienza ed attenzione nella ricomposizione dell’Osservatorio, ipotetico luogo di confronto e partecipazione, in quanto la Comunità Montana Valle di Susa ne è stata esclusa con un DCPM …. motivando tale esclusione con la circostanza che la Comunità Montana “non ha la sensibilità politica ed istituzionale atta a rappresentare la comunità della Val di Susa”.
Non è stata svolta alcuna gara d’appalto nonostante nella richiesta di finanziamento del 2007 fosse espressamente prevista.
il CUP attribuito (J41C07000000001) nella delibera cipe n. 68/2010 (tunnel Chiomonte) è identico al CUP della AV/AC Milano Verona che nulla c’entra con la NLTL
la LTF non ha alcun rispetto della giurisdizione italiana e avanti al TAR Piemonte ha opposto di non essere soggetta alla giurisdizione predetta. Sul punto il Tar (sentenza Tar Piemonte n. 113/2012) ha così risposto all’eccezione di LTF: “…La tesi propugnata da parte resistente pare presupporre una sorta di non prevista immunità di LTF in relazione ad attività di certa rilevanza pubblicistica e procedimentale nell’ambito del territorio nazionale ed è quindi infondata…”

Come sempre disponibili ad inviare gli atti comprovanti queste brevi osservazioni.

28 febbraio 2012

La Grecia si ribelli alla Trojka! Deve sospendere il pagamento del debito!


di Eric Toussaint*

Come contraddistingue la fase che stanno attualmente attraversando paesi dell’Unione Europea, ad esempio la Grecia, con enormi indebitamenti pubblici?

Volendo fare un confronto storico, si trovano nelle stesse condizioni dell’America Latina nella seconda metà degli anni Ottanta.

Perché?

La crisi del debito, in America Latina, è esplosa nel 1982. La crisi delle banche private è scoppiata negli Stati Uniti e in Europa nel 2007-2008 e si è trasformata, a partire dal 2010, in una crisi dello stesso debito sovrano, in quanto sono state socializzate le perdite delle banche private trasferendole ai vari Tesori pubblici in Europa. Perciò, a vari anni dall’esplosione della crisi in entrambi i casi, ci troviamo nella situazione in cui i creditori riescono a imporre ai governi le proprie condizioni. Fanno pressione perché accentuino politiche di drastica ristrutturazione liberista: tagli della spesa pubblica, riduzione del potere d’acquisto della popolazione. Questo porta le economie in condizioni di recessione permanente.

Neanche nel momento peggiore della sua crisi, tuttavia, l’America Latina ha raggiunto i livelli di indebitamento in cui si trovano oggi i paesi dell’eurozona, che superano il 100% del PIL (Prodotto Interno Lordo).

Il livello del debito europeo è impressionante. Nel caso della Grecia arriva al 160% del PIL, e vari paesi dell’UE hanno debiti che raggiungono o superano il 100% della loro produzione. Durante la crisi latinoamericana, invece, il debito si aggirava intorno al 60% o all’80% del PIL. È evidente che esistono differenze fra le due crisi, ma nel confronto che faccio il livello di indebitamento non è l’elemento essenziale.

Intende dire che il suo confronto si incentra sulle conseguenze politiche di entrambe le crisi.

Sì. Confrontando l’odierna Europa con l’America Latina della seconda metà degli anni Ottanta intendo dire che i creditori nel caso europeo, e cioè le banche europee, rappresentate dalla Trojka (FMI, BCE, CE) stanno imponendo alla Grecia, ad esempio, un piano di riscatto del debito molto simile al Piano Brady imposto ai paesi dell’America Latina alla fine degli anni Ottanta.

Può spiegarlo in maniera più dettagliata?

Al termine degli anni Ottanta, i creditori dell’America Latina – Banca Mondiale, FMI, il Club di Parigi, il Tesoro nordamericano e il Club di Londra (i banchieri) riuscirono a fissare l’agenda, imponendo le loro condizioni. I creditori privati trasferirono i loro crediti alle multinazionali e agli Stati tramite la titolarizzazione, vale a dire trasformando i crediti bancari in buoni, e in questo ha svolto un ruolo importante il Piano Brady.

Il Piano di recupero greco è molto simile: si riduce il valore dello stock creditizio, ci sarà un cambiamento di titoli delle banche creditrici, sostituendoli con altri nuovi, come nel caso Brady, a tasso fisso. La Grecia è costretta ad acquistare buoni dei paesi forti dell’UE. Si parla di “buoni a cedola zero” [che non pagano interessi periodici ma solo all’atto del loro ammortamento - ndt] della Gran Bretagna, del Lussemburgo o di altri paesi, così come il Piano Brady costrinse paesi quali il Perù e l’Ecuador ad acquistare analoghi buoni del Tesoro nordamericano, a garanzia dei nuovi buoni emessi e venduti alle banche con uno sconto e un tasso del 5% e 6%.

Hanno anche costretto i nostri paesi a ridurre salari, pensione, spesa sociale e ad assolvere religiosamente il pagamento del debito.

Per questo dico che ci troviamo nella stessa situazione nella periferia europea. Però, questa non si è estesa all’intero continente, ma soltanto agli anelli più deboli, come la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda, l’Italia, la Spagna, l’Ungheria, la Romania e la Bulgaria. Presi insieme, però, questi paesi rappresentano quasi 200 milioni di abitanti, su una popolazione di 500 milioni nell’intera UE.

In America Latina, la conseguenza politica della crisi del debito è stata la fondazione dello Stato Neoliberista. Anche in Europa si va nella stessa direzione?

Sì, è questo l’obiettivo del FMI, dei governi che rappresentano le classi dominanti, delle grandi banche e delle grandi imprese industriali. Il loro scopo e portare a conclusione il lavoro intrapreso da Margareth Thatcher nel 1979-1980 in Gran Bretagna, estesosi poi progressivamente in Europa, compresa la Spagna con il governo di Felipe Gonzales, che anche lui negli anni Ottanta applicò una politica neoliberista.

In Europa, però, è rimasto il Welfare State.

Hanno cominciato un lavoro di smantellamento del patto sociale e delle conquiste popolari della fase 1945-1970. È ciò che ha iniziato a fare la Thatcher. Dopo la seconda guerra mondiale, per trent’anni le popolazioni europee hanno accumulato conquiste, affermando il Welfare, con un sistema di protezione sociale: contratti collettivi, legislazione del lavoro, ecc. a protezione dei lavoratori, e riducendo in maniera significativa la precarietà del lavoro. La Tatcher è riuscita a distruggere tutto questo, anche se, dopo trent’anni di politica neoliberista, quest’opera non è ancora completata in Europa, c’è ancora qualcosa che resta.

E la crisi del debito in Europa costituisce l’occasione per consolidare ciò che ha avviato la Thatcher.

È l’occasione per applicare la strategia “d’urto”, come la chiama Naomi Klein. La crisi permette una terapia d’urto, così come hanno fatto negli anni Ottanta i creditori e le classi dominanti in America Latina.

In Perù lo hanno fatto nell’agosto del 1990.

Siamo nella fase che include anche la privatizzazione delle imprese pubbliche. In Europa si apprestano a privatizzare le imprese pubbliche che ancora rimangono.

E si promuoverà inoltre la teoria securitaria instaurata in America Latina, dove sindacato è sinonimo di terrorismo?

In Europa stanno aumentando le misure autoritarie dell’esercizio di governo. È evidente: negli ultimi anni hanno incrementato leggi per far fronte ai movimenti sociali, leggi antiterrorismo. C’è una repressione crescente, anche se ancora per il momento non assume la forma dei massacri sociali che si sono perpetrati in America Latina. Non siamo arrivati a quel punto, ma c’è una forte repressione contro chi sciopera, contro i movimenti sociali.

E i parlamenti nazionali europei come reagiscono di fronte a tutto questo?

I parlamenti, in Europa, sono messi ai margini, poiché il FMI all’interno della Trojka dice ai governi: “Se volete crediti, dovete promuovere misure di aggiustamento e non c’è tempo per delibere in Parlamento”, e quest’ultimo è costretto ad adottarle nel giro di 24 ore.

Come abbiamo visto in Grecia…

Si, è quanto è appena accaduto in Grecia. La Trojka ha preteso un piano. Alla fine ha ottenuto l’approvazione da parte del Parlamento greco domenica scorsa, a tarda notte. Tuttavia, il giorno successivo, il commissario europeo per gli affari economici ha detto che mancavano ancora 325 milioni di euro di tagli aggiuntivi e ha dato per questo due giorni di tempo. Significa che il Parlamento greco non sta deliberando.

La cosa ha scatenato una terribile protesta.

Non solo in Grecia, ma anche in Portogallo, in Spagna, in Francia e in Italia, ci sarà con forza, magari con minore intensità. Abbiamo mobilitazioni in Europa, Gran Bretagna inclusa. Nel mio paese, il Belgio, abbiamo avuto il primo sciopero generale il mese scorso, dopo 18 anni. L’economia belga e i trasporti sono stati completamente paralizzati.

Cosa deve fare la Grecia per uscire da questa situazione?

La Grecia deve smettere di sottostare ai diktat della Trojka, deve cioè sospendere unilateralmente il pagamento del debito per costringere i creditori a trattare in condizioni per loro sfavorevoli. Se la Grecia sospende il pagamento, come ha fatto l’Ecuador nel novembre 2008, è chiaro che, in altre condizioni, tutti i detentori di buoni li venderebbero al 30% del loro valore nominale. Questo indebolirebbe chi possiede buoni e darebbe maggior forza al governo greco, anche se in una situazione di grande difficoltà.

L’Ecuador ha sospeso il pagamento complessivo dei buoni, dopo un processo di audit, ma non nelle condizioni della Grecia, L’Argentina lo ha sospeso nel 2001 in una situazione simile a quella greca.

Si, il confronto vale piuttosto con l’Argentina, che non aveva liquidità per pagare. Ha sospeso il pagamento e ha ottenuto di non farlo per 3 anni (dal dicembre 2001 al marzo 2005) con i mercati finanziari e la proroga (di più di dieci anni) con il Club di Parigi, riuscendo al tempo stesso a crescere economicamente e a imporre ai creditori un cambiamento dell’entità del debito con uno sconto del 60%.

Questo però le è costato il prezzo di rimanere finora tagliata fuori dal mercato finanziario mondiale.

Evidentemente, ma l’Argentina, pur essendo tagliata fuori dai mercati finanziari da dieci anni, e senza pagare niente al Club di Parigi per lo stesso periodo, cresce a un ritmo annuo dell’8%, il che dimostra che un paese può ottenere fonti di finanziamento alternative ai mercati finanziari. Anche l’Ecuador sta emettendo nuovi buoni e registra una crescita.

Ma si sta indebitando con la Cina a tassi superiori…

Sì, bisogna trovare forme che consentano di mantenere la sovranità con queste nuove fonti.

Tornando alla Grecia, molti analisti, lei compreso, sostengono che gran parte del debito greco è illegittimo.

Certamente.

Ma lo si può dimostrare solo con un audit.

Parte del movimento sociale europeo ha ricavato la lezione dell’esperienza latinoamericana. Noi siamo intervenuti con la proposta dell’audit pubblico del debito, che è riuscita ad avere un’enorme risonanza. Abbiamo audit pubblici dal basso in sette paesi europei, Grecia compresa anche senza l’appoggio del governo.

Crede che alla fine si concluderà con un audit ufficiale, soprattutto nel caso della Grecia’

Vedremo. Questo richiederebbe un cambiamento di governo, cioè un movimento sociale così forte da farla finita con le soluzioni governative favorevoli ai creditori, e che si passasse a un governo alternativo. All’America Latina sono serviti vent’anni per arrivarci.

Significa che ci vuole ancora parecchio perché muti l’orientamento di governi europei come quello della Grecia?

Sì, continueremo a conoscere una crisi destinata a durare dieci, quindici anni. Stiamo nella prima fase di resistenza. Sarà molto dura.

Intervista a Carlo Alonso Bedoya, pubblicata dal quotidiano peruviano La Primera il 19 febbraio scorso.



* Eric Toussaint, dottore in Scienze politiche, leader del Comitato per l’Annullamento del Debito del Terzo Mondo (CADTM, ex membro della Commissione dell’Audit Integrale del Debito pubblico in Ecuador (CAIC) - che è approdata alla sospensione del pagamento di parte del debito di quel paese - nonché tra i principali esponenti del movimento altermondialista, si esprime con chiarezza sul problema greco: a suo avviso, la Grecia deve sospendere il pagamento del debito e ribellarsi alla Trojka (BCE – Banca Centrale Europea; FMI – Fondo Monetario Internazionale; CE – Commissione Europea), altrimenti precipiterà stabilmente nella recessione.

(L’intervista à stata rilasciata il 16 febbraio 2012 a Carlo Alonso Bedoya e pubblicata dal quotidiano peruviano La Primera il 19 febbraio scorso).

9 marzo; per uno sciopero generale e generalizzato!


Appello per la generalizzazione dello sciopero Fiom del 9 marzo

La Grecia non è lontana. Se Atene piange…Roma non ride!

GIU’ LE MANI DALL’ART.18!
Non un diritto non un posto di lavoro deve essere perso

Si parla ogni giorno della crisi e delle ricette per uscirne. Eppure questa crisi la stiamo pagando principalmente noi lavoratori dipendenti, precari, donne, immigrati, disoccupati e pensionati a basso reddito che per anni abbiamo ingrassato col nostro lavoro flessibile, nocivo e malpagato le tasche di imprenditori, amministratori e speculatori.

È ormai evidente che nemmeno questo governo farà pagare la crisi a chi l’ha provocata, ma anzi cancellerà i nostri residui diritti e aumenterà l’insicurezza del futuro per salvare unicamente banche e imprese sostenendo i diktat della lettera della BCE.

In Grecia queste ricette stanno già provocando da mesi scioperi veri che bloccano il paese e una rivolta sociale contro i licenziamenti di massa, la disoccupazione alle stelle e la miseria crescente. Ma anche in Italia arriveremo presto a quelle condizioni con le manovre del governo Monti.

Con l’ultima controriforma delle pensioni lavoreremo fino alla soglia dei 70 anni mentre il 30% dei giovani è oggi senza lavoro e l’80% delle nuove assunzioni sono con contratti atipici. Come se non bastasse il nuovo governo vuole ora concedere alle imprese la libertà di licenziare per tre anni anche quei pochi neoassunti o stabilizzati che avranno un contratto a tempo indeterminato.

Così il governo Monti aprirà la strada alla cancellazione dell’articolo 18, preparerà la strada allo smantellamento del contratto nazionale (già attaccato dall’accordo del 28 giugno e dall’articolo 8 dell’ultima finanziaria di Berlusconi), procederà all’eliminazione degli ammortizzatori sociali come cassa integrazione (ordinaria straordinaria in deroga) e mobilità…e già si parla di introduzione della mobilità nel pubblico impiego!

QUESTO GOVERNO SPIANERA’ LA STRADA ALLE IMPRESE PER AVERE MANO LIBERA SUI LICENZIAMENTI DI MASSA

Siamo quindi noi lavoratori flessibili e generazioni precarie gli unici che andranno veramente in “default” se continueranno ad essere applicate le politiche di austerity della BCE, i tagli e la cancellazione di diritti da parte del governo Monti e le controriforme della Confindustria!

Bene ha fatto la Fiom a proclamare lo sciopero generale di categoria per il 9 marzo per difendere l’art. 18 ed il contratto nazionale, contro le deroghe e per estendere le tutele a tutto il mondo del lavoro.

Ma la libertà di licenziamento riguarderà tutte le categorie e settori del lavoro!
Se cancellano un diritto a uno, lo tolgono a tutt*!

Tutti saranno coinvolti! Le lavoratrici ed i lavoratori pubblici e della scuola, del commercio e dei trasporti, i chimici ed i tessili, delle tlc o dei call center, delle cooperative e dell’edilizia…

Facciamo appello quindi che lo sciopero del 9 marzo sia generalizzato a tutte e tutti dai sindacati di base con proprie piattaforme, da tutte le categorie della Cgil e dalle RSU di ogni settore.

Dobbiamo scendere in piazza e aprire una mobilitazione permanente fino al ritiro delle manovre di Monti e di qualunque delegazione sindacale dal tavolo di confronto con il Governo che ha il solo compito di affossare art.18 e ammortizzatori sociali.


Per sottoscrivere l’appello:

adesioni@scioperogenerale.org

http://www.scioperogenerale.org/

SIAMO TUTT@ NO TAV!


Dopo gli arresti, le denunce e le cariche ieri mattina la repressione contro il movimento No Tav ha raggiunto il suo picco più elevato.
Luca Abbà , uno degli attivisti più noti e proprietario di uno dei terreni da espropiare, è attualmente ricoverato al Cto di Torino. Luca era salito su un traliccio dell'alta tensione, inseguito dai gloriosi “Cacciatori di Calabria”, una specie aggressiva di carabinieri, è stato obbligato a salire più in alto ed è caduto da una decina di metri dopo essere stato folgorato. Tutto questo è avvenuto poco dopo che la polizia in assetto antisommossa è uscita dalle reti ed ha circondato la Baita Clarea intimando ai No Tav di andarsene.
La repressione contro il movimento No Tav è ormai parte integrante della strategia di questo governo. E’ evidente che lo “stato di eccezione” in cui più volte viene inquadrato l’agire del governo Monti comprende in primis l’esercizio senza limiti della repressione dei movimenti e in particolare di un movimento, come quello della No Tav, che sta opponendo una resistenza efficace al progetto di distruzione del proprio territorio e che, soprattutto, gode di un consenso ampio non solo in Val di Susa ma in tutta Italia, come dimostrano i presidi che sono stati fatti ieri in moltissime città. E ormai evidente che la repressione che si sta attuando in Val di Susa fa parte di una strategia ben precisa di un governo che non tollera nessuna forma di dissenso ed è un chiaro avvertimento per tutti i movimenti e le lotte che hanno nella No Tav un punto di riferimento.
Sinistra Critica continuerà ad appoggiare ed a partecipare a tutte le iniziative che verranno promosse da movimento No Tav.
Siamo vicini alla famiglia, agli amici e ai compagn@ di Luca.
Siamo tutt@ No Tav!

Esecutivo Nazionale Sinistra Critica

23 febbraio 2012

Il conflitto non si arresta

Quello che sta accadendo in questi giorni in Grecia è l'esempio più significativo delle politiche dell'Unione europea e della gestione della crisi da parte del sistema capitalista: l'imposizione di misure draconiane contro lavoratrici e lavoratori, pensionate/i, giovani disoccupate/i e precari/e; il commissariamento della «democrazia» formale e il passaggio dei poteri a esecutivi «tecnici» chiamati ad applicare decisioni dall'alto; la repressione e l'indifferenza nei confronti di una mobilitazione di massa di donne e uomini che si rifiutano di pagare una crisi provocata da altri.
Un esempio che parla a tutti gli altri paesi europei, e che ci riguarda da vicino: anche in Italia infatti il governo «tecnico» Monti-Napolitano ha fatto approvare da un Parlamento addomesticato e servile misure che colpisco salari e pensioni, che sostengono i profitti privati contro l'interesse e il bene pubblico, e si appresta a portare il colpo definitivo alle garanzie contrattuali per lavoratrici e lavoratori, attraverso la cancellazione di fatto dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la costruzione di un mercato del lavoro di serie B nel quale inserire giovani e meno giovani avviati/ri-avviati al lavoro.
Non manca nemmeno in Italia l'arroganza del potere, con le dichiarazioni di Monti e vari ministri contro il posto fisso e con la derisione di chi ha meno; e non mancano i provvedimenti repressivi contro il conflitto sociale - l'esempio più eclatante è quello degli arresti contro i manifestanti NoTav che vuole colpire il movimento che più di tutti oggi denncia e smaschera il sostegno della politica alle imprese e ai profitti privati attraverso l'impiego di denaro pubblico per grandi opere inutili e costosissime ed evidenzia l'incompatibilità di queste opere e della loro gestione con la democrazia e la partecipazione popolare.

Contro queste politiche serve una forte mobilitazione politica e sociale fino ad un vero sciopero generale e generalizzato per bloccare i provvedimenti del governo Monti-Napolitano e porre i contenuti dell'alternativa, a partire dal rifiuto del pagamento del debito pubblico da parte delle classi popolari, la difesa dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la cancellazione delle norme che costringono alla precarietà milioni di lavoratrici e lavoratori, la garanzia di un reddito sociale per tutte/i.

Per questo:
*partecipiamo alla manifestazione NoTav del 25 febbraio in Val di Susa, per la liberazione di tutti gli arrestati e per ribadire il No al progetto devastante del Tav;
* sosteniamo lo sciopero generale dei metalmeccanici dichiarato per il 9 marzo dalla Fiom, convinte/i che debba essere generalizzato anche per le altre categorie e debba essere esplicitamente contro il governo e le sue politiche;
* contribuiremo a rilanciare le iniziative contro il pagamento del debito e per un audit di cittadine/i sul debito pubblico - con la nostra partecipazione alla campagna «Rivolta il debito» - e a tutte le mobilitazioni contro il governo e le politiche dell'Unione eurpea.

Esecutivo Nazionale di Sinistra Critica

Né Pound né Barbarani – Il fascismo non è poesia


Presidio antifascista giovedi 23 febbraio ore 20.00 in Piazza Isolo - Verona

Giovedì 23 febbraio p.v. alle ore 21 nel Palazzo Da Lisca in piazza Isolo Blocco studentesco renderà omaggio alla poesia di Berto Barbarani. Lo farà con la partecipazione di un poeta dialettale veronese e dell'assessore all'edilizia pubblica, ai rapporti con i veronesi nel mondo, al turismo sociale e alle pari opportunità Vittorio Di Dio, non si sa in quale veste. Per la ghiotta occasione i muri dell'università sono stati tappezzati di manifesti che pubblicizzano l'incontro con in bella vista il nome dell'assessore del Comune di Verona. Non sono una novità le affissioni a tappeto di Casa Pound e Blocco Studentesco che prive di qualunque autorizzazione, stazionano per settimane senza alcun intervento di rimozione.
Immaginiamo che l'assessore Di Dio si farà carico personalmente del pagamento delle multe che fioccheranno sui firmatari dei manifesti o forse come per tutte le ordinanze, i regolamenti e i divieti dell'epoca Tosi vige un principio di grande discrezionalità. Discrezionalità che ha caratterizzato anche la concessione della sala del palazzo Da Lisca: negata ai facinorosi di “Naturalmente Verona” perché priva dei requisiti di sicurezza per gli incontri pubblici ma concessa senza problemi ai teneri ragazzotti del Blocco. Casa Pound e Blocco Studentesco godono del resto a Verona di grande tolleranza e dichiarati sostegni.
Dall’indegna pagliacciata dentro l'università con sventolio di orrendi bandieroni neri dello scorso dicembre alle strette di mano tra il suddetto assessore e la prima fila dei novelli squadristi fuori dall’università lunedì mattina, le complicità sono evidenti. Il deserto che è oggi piazza Isolo rende difficile immaginare quello che è stata: un centro vivo nel quartiere di Veronetta con la stazione delle corriere, il mercato della frutta e del pesce, i bar e poi nei locali forzatamente abbandonati in vista di uno dei tanti dissennati progetti di “riqualificazione”, la nascita di esperienze politiche e sociali, il rifugio di migranti e senza casa, la rete di solidarietà e accoglienza che intorno a loro si era creata.

La piazza e i dintorni sono dunque un luogo fortemente simbolico che, fermo restando che i vecchi e i nuovi fascisti devono rimanere a fare le loro iniziative nelle proprie sedi, non va insozzato con certe inquietanti presenze.

Gli/le antifascisti/e veronesi provvederanno quindi, giovedì 23 febbraio, a ripulire il quartiere da tutti i manifesti fascisti e leghisti, tra l’altro abusivi. L’appuntamento è alle 19 all’università.

Si recheranno quindi in piazza Isolo dove, dalle 20 in poi, parteciperanno ad una veglia-presidio-reading per l’estinzione del fascismo, vecchio, nuovo, sociale che sia.

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Promemoria – Per non dimenticare la storia di piazza Isolo

Nel 1998, in piazza Isolo, sotto la pensilina della stazione degli autobus che adesso non c’è più, oltre alla libreria di Giorgio Bertani, c’erano gli uffici della Brec Viaggi, occupati dal Kollettivo Porcospino nella primavera di quell’anno e diventati il c.s.o.a. Isola, e il circolo anarchico “La Pecora Nera”. Fuori, sotto i portici, vivevano una quindicina di migranti, europei dell’est e maghrebini, con cui gli occupanti dell’Isola avevano fatto amicizia, dando loro la possibilità di dormire al copertio e di utilizzare i servizi igienici. Una situazione durata pochi mesi, nonostante l’interessamento di Bertani, allora consigliere in prima circoscrizione, e la presenza della Ronda della Carità.

In maggio l’amministrazione comunale, sindaca Sironi e numerosi assessori nazionalalleati, sgombera il centro sociale e fa murare gli ingressi. I migranti tornano fuori, esposti alle ripetute aggressioni di elementi appartenenti all’estrema destra e agli interventi della polizia municipale e dell’Amia che sequestrano loro le coperte e lavano con l’acqua il pavimento del portico (su questi episodi ci fu un’interrogazione parlamentare di Tiziana Valpiana). Nel frattempo l’emergenza “igienica” allarma l’opinione pubblica più dell’emergenza freddo e solo l’operato di Bertani, aiutato dai ragazzi del Porkospino e dalla Ronda, limita i danni.

Nell’inverno 1998-1999 il circolo “La Pecora Nera” decide di aprire i propri locali per ospitare i senzatetto. In primavera i senzatetto tornano a dormire all’aperto. Nella notte tra il 16 e il 17 aprile 1999 una decina di camerati appartenenti a gruppi diversi dell’estrema destra locale, muniti di ombrelli e bastoni, effettuano un raid punitivo contro i senzatetto, ferendone uno in modo grave. Saranno poi fermati grazie alle testimonianze di alcuni passanti.

Intanto si ha notizia del progetto relativo alla costruzione di un parcheggio sotto piazza Isolo con l’abbattimento della pensilina. Il circolo anarchico “La Pecora Nera” riceve la notifica di sgombero. Nell’autunno del 1999 gli anarchici lasciano spontaneamente i locali, poi sigillati dai vigili urbani.

Torna l’inverno, gli ingressi vengono riaperti e i migranti tornano nei locali sotto la pensilina. Ci resteranno, tra alterne vicende e minacce di sgombero, fino all’estate del 2000. Inutili le pressioni di Giorgio Bertani, che sollecita in circoscrizione la realizzazione di un’uscita di sicurezza, mentre l’imprenditore Paolo Favale, che dall’autunno del 1999 garantisce una sostanziosa colazione a quanti la richiedano, promette di aprire un centro di prima accoglienza in borgo Roma, cui si opporranno strenuamente Alleanza nazionale e Lega Nord, con l’attuale sindaco di Verona in testa. In settembre lo sgombero sembra imminente ma la notte del 14 un incendio divampa nei sotterranei e “Cezarro”, l’immigrato polacco Cesar Karaboskji o Karwoskji perde la vita.

Antifascisti/e veronesi

Il diritto del più forte

di Giuliana Sgrena
il manifesto 22/02/2012
La questione dei due marò italiani arrestati in India con l'accusa di aver ucciso due pescatori viene sostanzialmente ridotta a una questione di giurisdizione. Hanno ucciso in acque indiane o internazionali? In quest'ultimo caso sono sotto giurisdizione italiana. Vista la reazione delle autorità italiane questo si può tradurre facilmente in impunità. Ancora una volta si parla di avvertimenti, quali avvertimenti (luci, spari in aria) e contro chi? Avvertimenti che se anche ci fossero stati non sarebbero nemmeno stati compresi da pescatori che nulla avevano a che fare con logiche militari in acque non abituate ad atti di pirateria.
Per di più, non esistono regole d'ingaggio codificate per i militari a bordo delle navi commerciali, mentre la responsabilità dovrebbe essere dello stato, in questo italiano, invece la nave è sotto il controllo di civili e quindi del comandante, che però non può dare ordini ai militari.
Il problema della pirateria in mare ha indotto l'Onu a emanare una convenzione che però non prevede l'uso della forza. Tocca dunque ai singoli stati derimere la questione, permettere, come ha fatto l'ex-ministro La Russa, l'imbarco sulle navi battenti bandiera italiana di militari - d'élite come i marò - oppure, come hanno scelto altri paesi, contractors. Come sempre i contractors sfuggono ancora più facilmente a qualsiasi regola.
Il caso dei marò è di estrema gravità perché sancisce il diritto di uccidere chiunque venga sospettato di poter essere un pirata: la guerra si trasferisce dai paesi sotto occupazione alle acque più o meno internazionali, poco importa. Importa solo se c'è uno stato che intende far valere la propria territorialità. Come sempre l'uso delle protezioni armate non esclude i pericoli e aumenta l'uso indiscriminato della forza.
Su questi temi esiste un complesso dibattito a livello internazionale, che non sembra tuttavia infervorare l'Italia se non quando ad essere coinvolti sono i nostri militari. Anche perché siamo fin troppo abituati a rinunciare alla nostra sovranità quando a colpire sono i militari di un paese più forte (soldati Usa nel caso del Cermis, Mario Lozano nel caso Calipari). Ma nei confronti dell'India ci consideriamo noi i più forti e quindi pronti a far valere l'obsoleta consuetudine dello zaino o della bandiera (un militare risponde solo al paese di provenienza) e considerare danno collaterale la morte di due pescatori indiani disarmati e senza nessuna velleità piratesca, del resto disarmati non lo eravamo anche noi, a bordo della Toyota Corolla quella notte del 4 marzo 2005, nei confronti dei soldati americani? Se ci siamo permessi di lasciare impunita l'uccisione di Nicola Calipari perché non dovremmo farlo nei confronti di due poveri, sconosciuti pescatori indiani?

21 febbraio 2012

La Grecia siamo noi


di Guido Viale
A due anni dalla denuncia dello stato comatoso delle sue finanze (ma gli interessati, in Germania e alla Bce, lo sapevano da tempo: erano stati loro a nasconderlo) la Grecia, sotto la cura imposta dalla cosiddetta Troika (Bce, Commissione europea e Fmi) presenta l'aspetto di un paese bombardato: un'economia in dissesto; aziende chiuse; salari da fame; disoccupazione dilagante; file interminabili al collocamento e alle mense dei poveri; gente che fruga nei cassonetti; ospedali senza farmaci; altri licenziamenti in arrivo; tasse iperboliche sulla casa e sfratti; beni comuni in svendita. E ora anche una città in fiamme. Ma a bombardare il paese non è stata la Luftwaffe, bensì il debito contratto e confermato dai suoi governanti di ieri e di oggi nell'interesse della finanza internazionale. Con la conseguenza che, a differenza di un paese uscito da una guerra, in Grecia non c'è in vista alcuna "ricostruzione", o "rinascita", "ripresa"; ma solo un fallimento ormai certo - e dato per certo da tutti gli economisti che l'avevano negato fino a pochi giorni o mesi fa - procrastinato solo per portare a termine il saccheggio del paese e, se possibile, il salvataggio delle banche che detengono quel debito; o di quelle che lo hanno assicurato. Le armi però c'entrano eccome. All'origine di quel debito, oltre alla corruzione e all'evasione fiscale, ci sono le Olimpiadi del 2004 (costate oltre un decimo del Pil) e l'acquisto di armi, che la Grecia è costretta a comprare e pagare a Francia e Germania come contropartita della "benevolenza" europea, per importi annui che arrivano al 3 per cento del Pil. Quattro fattori, armi (come F135), Grandi eventi (Olimpiadi o Expò, o Mondiali, o G8), evasione fiscale e corruzione che accomunano strettamente Grecia e Italia. Ma non solo.
Nel pacchetto, il quinto in due anni, delle misure imposte alla Grecia - liberalizzazioni di tariffe, mercati e lavoro, privatizzazioni dei servizi pubblici, blocco delle assunzioni, definanziamento di scuole, ospedali, Università, servizi sociali - c'è pari pari il programma del governo Monti (anch'esso cucinato da Bce e Commissione europea). La Grecia è solo un anno più avanti di noi sulla strada del disastro e Monti è il Papademos italico incaricato di accompagnarvi l'Italia spacciandosi per il suo salvatore e garantendone il saccheggio.
Aggiungi il patto di stabilità (Fiscal Compact) che impone di riportare il debito di entrambi i paesi, ormai chiaramente in recessione, al 60 per cento del PIL in regime di parità di bilancio, e avrete i termini di una politica senza ritorno imposta da una classe al potere senza un'idea di futuro che non sia la propria perpetuazione. Per loro contano solo i bilanci: tutto il resto crepi! Quando l'Unione europea avrà tagliato gli ormeggi alla Grecia per abbandonarla alla deriva, avrà messo il vascello in condizioni di non poter più navigare per decine di anni.
Nessuno degli economisti entusiasti degli "sforzi" di Monti ha la minima idea di come si possano raggiungere gli obiettivi del Fiscal Compact. E allora? Il fatto è che per loro "non c'è alternativa"; perché non sanno immaginare un futuro diverso dal presente: all'Università non lo hanno studiato e non si sono dotati di strumenti per concepirlo (tranne che per le loro carriere). "Non esiste un piano B per la Grecia, ha detto Draghi. Ma nemmeno per l'Italia. Per questo Monti non è la soluzione, ma il problema.
Ma un "piano B" per l'Europa va messo a punto, e in fretta; perché quello "A" è un strada senza uscita; e non si fa politica, né opposizione, senza un'idea sul da farsi appena il contesto la renda plausibile. E quel momento potrebbe essere vicino, perché il mondo sta cambiando in fretta. Ma l'Italia non è la Grecia, ripetono i supporter di Monti. E perché mai? Perché l'Italia ha un tessuto industriale robusto e perché è "troppo grande per fallire". Due tesi per lo meno parziali. Neanche la Grecia era priva di un tessuto industriale, anche se fragile, che le manovre deflattive imposte dalla Troika hanno mandato in pezzi. Una vicenda attraverso cui erano già passati anni fa - e per decenni - molti paesi dell'America Latina presi per la gola dal FMI. Quanto all'Italia, un inventario dei danni prodotti dal ventennio berlusconiano, non solo sullo "spirito pubblico" - e non è poco - ma anche sul tessuto industriale non è ancora stato fatto. Ma accanto ad alcune medie imprese che si sono ristrutturate ed esportano, tre dei maggiori gruppi industriali (Fiat, Finmeccanica e Fincantieri) sono alle corde e nel tessuto industriale residuo chiude una fabbrica al giorno. "Non si produce più niente" ripetono coloro che guardano la realtà senza lenti deformanti. Ma non è che tra un mese o tra un anno (o anche due) quelle fabbriche riapriranno, gli operai ritorneranno al loro posto di lavoro e le aziende riprenderanno a produrre come prima. Un enorme patrimonio di esperienze, di professionalità, di knowhow, di attitudine all'innovazione e al lavoro di gruppo viene disperso e scompare per sempre. Né ci sono in vista iniziative imprenditoriali in grado di mettere al lavoro, avviandole dal nulla, nuove produzioni, nuovi addetti e risorse gestionali in grado di riempire quei vuoti. E quanto agli investimenti stranieri, sono bloccati dall'articolo 18, dalla mancanza di infrastrutture come il Tav Torino Lione, dalle tasse troppo alte che nessuno paga, o dalla corruzione e dalla burocrazia che il governo Monti si è tirato in casa? BCE e governo Monti sono destinati a imprimere una accelerazione decisiva al lungo declino dell'economia italiana.
In secondo luogo, se l'Italia è troppo grande per fallire, è anche - come ci viene ripetuto spesso - "troppo grande per essere salvata". Qui sta la sua forza e la sua debolezza. La debolezza è quel continuo richiamo a fare "i compiti a casa" (un'espressione da deficienti) e a "cavarsela da sola" (sulla base, però, dei diktat di altri). Un compito impossibile, che i governi greci hanno già provato a svolgere nonostante la sua palese assurdità. La forza sta nel fatto che se il governo Italiano non sarà in grado di azzerare il deficit e dimezzare il debito, o anche solo di rifinanziarlo, perché il suo PIL precipita, "salta" anche l'euro - il che, forse, è già stato messo in conto. O verrà messo in conto tra poco - ma salta anche, probabilmente, l'Unione europea e con essa l'economia di mezzo mondo. E forse anche quella dell'altra metà. Non siamo più negli anni '30, quando la partita si giocava tra cinque o sei Stati. Il circuito finanziario ha ormai coperto e avviluppato l'intero pianeta.
Un piano B per l'Europa deve innanzitutto evitare un default disordinato (come ormai viene chiamata la prossima bancarotta degli Stati a rischio di insolvenza; e non sono pochi) e promuovere un "concordato preventivo": cioè un accordo che dimezzi in modo selettivo i debiti pubblici che non possono essere ripagati o che ne sterilizzi (con una moratoria delle scadenze) una buona metà. Il che trasferirebbe l'insolvenza sulle banche, costringendo anche la BCE e gli Stati più forti e arroganti a correre in loro soccorso: con nazionalizzazioni, "bad bank" e separando finalmente il credito commerciale dal pozzo senza fondo degli investimenti speculativi. Quanti più saranno gli Stati a rischio che si impegnano su questa strada, tanta maggiore sarà la forza per imporla.
Certamente, sia che l'euro venga conservato, sia che si torni alle vecchie divise, il caos economico che incombe sul paese e sull'Europa è spaventoso; ma non minore di quello in cui ci sta trascinando il tentativo di rinviare giorno per giorno una resa dei conti. In tempi di crisi valutaria, ciò con cui bisognerà fare i conti, a livello nazionale e locale, saranno gli approvvigionamenti: innanzitutto quelli energetici e alimentari. L'unica risorsa a cui attingere a piene mani nel giro di pochi mesi e pochi anni sono risparmio ed efficienza energetica.
La condizione di paese bombardato apparirà allora in tutta evidenza: spente le luminarie che non servono per vedere ma per farsi vedere; auto ferme e mezzi pubblici strapieni (scarseggerà il carburante); orari cambiati per garantire il pieno utilizzo dei mezzi durante tutto l'arco della giornata; conversione in tempi rapidi - come all'inizio di una guerra - delle fabbriche compatibili con la produzione di impianti per le fonti rinnovabili o di cogenerazione, di mezzi di trasporto collettivi o condivisi a basso consumo; interventi sugli edifici per eliminarne la dispersione energetica. ecc. Giusto quello che si sarebbe dovuto fare - e ancora potrebbe essere fatto - in questi anni, con esiti economici certo migliori. Lo stesso vale per l'approvvigionamento alimentare: occorrerà restituire a ogni territorio la sovranità alimentare con un'agricoltura meno dipendente dal petrolio e un'alimentazione meno dipendente da derrate importate: una operazione da mettere in cantiere con una nuova leva di giovani da avviare a un'attività ad alta intensità di innovazione e di lavoro che potrebbe cambiare l'aspetto del paese. Analogamente occorrerà intervenire sul patrimonio edilizio inutilizzato, sul ciclo di vita dei materiali (risorse e rifiuti), su scuola, università, sanità con interventi che riducono gli sprechi e producono occupazione di qualità. Ma soprattutto ci vorrà una revisione generale degli acquisti quotidiani: spesa condivisa, rapporti diretti con il produttore e Km0 (i GAS), riduzione degli imballaggi e del superfluo, ricorso all'usato e alla riparazione e alla condivisione dei beni: tutti campi in cui il sostegno di un'amministrazione locale conta molto. E tante altre cose simili su cui occorre riflettere: sono tutti interventi da concepire, programmare e gestire a livello locale - con la partecipazione diretta della cittadinanza attiva - che potranno essere agevolati anche da un circuito parallelo di monete garantite dalle autorità locali, come era avvenuto con successo in molti paesi occidentali - compresa la Germania nazista - durante la grande crisi degli anni '30. Fantascienza? Forse; comunque un programma meno irrealistico dell'idea di affidare alla liberalizzazione dei servizi e dei rapporti di lavoro la ripresa di una crescita che sottragga l'Italia al cappio del debito; e magari anche alla crisi ambientale - ah! questa sconosciuta! - che investe il pianeta.

ilmanifesto 17/02/2012

19 febbraio 2012

Siria: contro il regime di Assad, contro ogni intervento militare

di Piero Maestri
Domenica 19 febbraio a Roma ci sarà una manifestazione organizzata dal “Consiglio Nazionale Siriano – Italia”, che si propone – esplicitamente con la piattaforma fatta circolare “La cessazione immediata delle violenze in Siria; le dimissioni del presidente Assad e del suo staff...; Elezioni libere; il rifiuto totale di qualsiasi intervento militare in Siria; la difesa anche internazionale dei civili....” Questa sarebbe una piattaforma per noi condivisibile, ma nasconde posizioni che l’organizzazione proponente in realtà afferma nelle sue prese di posizioni internazioni.
Il Cns-Italia è infatti un diretto riferimento del Cns interno alla Siria, del quale è espressione anche l’”Esercito dei Siriani liberi”) che si contrappone militarmente alle forze armate del regime (con metodi spesso decisamente condannabili per il coinvolgimento di civili), e il Cns non rifiuta l’intervento militare esterno, anzi lavora per facilitarlo e sollecitarlo.
Per questo non possiamo aderire alla manifestazione – che consideriamo legittima, in quanto espressione di una parte dell’opposizione siriana, che rappresenta una fetta dei cittadini siriani anche in Italia.
Ma allo stesso tempo rifiutiamo la falsa alternativa per cui chi aderisce al corteo (come la Tavola della Pace) rappresenterebbe il “pacifismo con l’elmetto”), mentre chi si è dissociato (sulla base dell’appello promosso da Peacelink) rappresenterebbe il “pacifismo radicale” che coerentemente rifiuta qualsiasi intervento militare.
Non abbiamo alcun motivo per difendere la scelta di chi ha deciso di partecipare – e nemmeno ci interessa più di tanto criticarne la scelta, viste le prestazioni per noi negative mostrate in questi anni dalla Tavola della Pace - ma troviamo altrettanto sbagliato continuare a mettere sullo stesso piano le “violenze del regime” e le violenza e della “cosiddetta” opposizione, e considerare un passo verso l’intervento la richiesta di dimissioni di Assad.
La caduta di Assad e del suo regime è la condizione per una nuova Siria,
che naturalmente non è scontato nasca dalle attuali opposizioni, ma che non potrà vedere la luce fino a quando continuerà il dominio del partito Baath. Se Assad se ne fosse andato un anno fa, il popolo siriano si sarebbe risparmiato altri lutti e violenze.
Condividiamo la posizione del “Coordinamento Nazionale Siriano per il Cambiamento Democratico” - nato nel mese di giugno in Siria e composto dalla maggior parte delle forze politiche laiche e intellettuali con una lunga storia di opposizione al regime – e i suoi 4 No: no alla violenza, no alla repressione, no al settarismo, no all’intervento militare esterno. Non possiamo però decidere noi quali forme debba assumere la lotta dell’opposizione siriana.
Pur non aderendo alla manifestazione, abbiamo deciso di essere presenti con l’appello che molte/i di noi hanno promosso: “Basta con la repressione in Egitto e in Siria, libertà per i popoli arabi; Contro ogni intervento militare straniero diretto e indiretto nella regione” .
In questo modo vogliamo aprire il confronto con i siriani in Italia che si oppongono al regime di Assad e affermare con forza anche con loro il nostro rifiuto di ogni intervento militare esterno e di una (probabile più che eventuale) partecipazione delle forze armate italiane.
Esprimiamo anche la nostra solidarietà ai giovani siriani che la scorsa settimana hanno tentato di occupare l’Ambasciata siriana di Roma – che subiranno un processo per direttissima in marzo: il loro è un gesto di opposizione non violenta che va considerato tale e non un reato.

* Portavoce di Sinistra Critica

18 febbraio 2012

Ristrutturare, rivedere o cancellare il debito?

Dichiarazione dell'OKDE-Spartacos sezione greca della Quarta Internazionale


Tratto da http://www.internationalviewpoint.org del febbraio 2012


Traduzione di Francesco Cannarozzo


Sin dall' inizio della crisi del debito pubblico greco, tre diverse richieste sono state avanzate dai movimenti della sinistra e dei lavoratori: quelle di ristrutturare (e quindi ridurre), di rivedere, o di cancellare il debito. Questa non è solo una questione di slogan, ma implica anche differenti strategie politiche. OKDE-Spartakos, così come ANTARSYA, hanno optato per la terza scelta, nonostante le contraddizioni da questa implicate.

La prima richiesta è stata presentata dal Synaspismos (e quindi dalla maggiorparte di SYRIZA) e, in una versione più conservatrice, dalla sinistra democratica di Fotis Kouvelis. Il concetto è quello di negoziare con i creditori in modo di cancellare parte del debito, così che questo possa diventare ancora una volta sopportabile. Nondimeno, ciò è all'incirca quello che sta succedendo proprio ora, su iniziativa del governo e dell'unione europea, essendo ovvio che l' intero debito non potrà mai essere risanato. Per questo, i creditori preferiscono perdere parte del loro profitto che perderlo tutto, simultaneamente venendo ricompensati con nuove e più benevole condizioni per futuri investimenti (bassi stipendi, rapporti di lavoro deregolati, eccetera). Questo tipo di negoziato è un progetto esplicitamente borghese, ed è il solo vero processo di “ristrutturazione”. Per questo la proposta di ristrutturare il debito ha presto perso credibilità come componente di una risposta favorevole ai lavoratori, ed ha posto i partiti che ne erano a favore in una situazione piuttosto imbarazzante.


C' è bisogno di discutere di più sulla richiesta di istituire una commissione di revisione, che dovrebbe controllare i contratti di debito, e dimostrare quale parte di esso è “odioso”. L' obbiettivo basilare di questo comitato sarebbe di rivelare alle masse che il debito che sono costrette a pagare non è né giusto né legittimo. Basandosi su questo concetto, un anno e mezzo fa alcuni economisti greci, assieme a dei politici provenienti dalla sinistra ed ex-membri del pasok (come il deputato Sofia Sakorafa) pubblicarono un' appello per la costituzione di una commissione per la revisione del debito (ele). Questa proposta è ad oggi in uno stato molto meno embrionale di quanto lo fosse, e sembra che qualche cosa sia stata fatta nella direzione di formare davvero tale comitato. Comunque, è sempre importante esaminare nel dettaglio l' idea basilare.


Un processo di revisione del debito potrebbe essere combinato o meno con la richiesta di cancellare il debito, ma non è a questa equivalente. Nel nostro caso, l' originale chiamata per l' ELE lasciava aperta questa domanda. Comunque, questo non è stato l' unico problema per questa iniziativa. La grande questione è da quale punto di vista partire: controllare se il debito è legittimo in accordo alle leggi nazionali e internazionali, e, se così, cancellare parte di esso? O, al contrario, rifiutare che i lavoratori lo paghino, che sia formalmente corretto o meno?


Ci sono 5 ragioni principali per cui contestiamo che la commissione greca per la revisione (ELE) possa essere la punta di diamante di una risposta anticapitalista alla crisi e appoggiamo invece la cancellazione del debito:

1. Il debito pubblico Greco non é dello stesso tipo di quello del terzo mondo. Economicamente, non è imposto da paesi stranieri imperialisti che saccheggiano il paese e traggono profitto da uno scambio diseguale dato dal differente tasso di produttività. Anche se uno scambio diseguale sicuramente gioca un suo ruolo. Il debito è il prodotto di una strategia di sviluppo scelta deliberatamente dalla classe borghese greca la quale è annoverabile peraltro tra gli imperialisti. Questa strategia molto aggressiva, che include un eccessivo prestito pubblico e l' invasione economica dell'Europa dell'est con l' aiuto del cambio favorevole dell'euro, ha fallito e viene punita dalla competizione inter-capitalista per chi deve sopportare il fardello della crisi. Inoltre, è sempre più ovvio che la crisi greca del debito non è data da un qualche tipo di specificità nazionale, ma è parte della crisi internazionale della struttura del capitalismo, una crisi di super-accumulazione in ultima analisi, che colpisce per primi (ma non esclusivamente) i nodi più deboli come la Grecia. Tecnicamente, non ci sono contratti che un ipotetica commissione potrebbe in pratica controllare, poiché il debito pubblico, a differenza di quanto accade nel terzo mondo, è stato portato avanti attraverso bond governativi, non attraverso prestiti (almeno prima del memorandum). Quindi, se c' è qualcosa da rivelare riguardo il debito, non sono certo scandali, ma la sua stessa struttura profondamente speculativa che funziona come un meccanismo che accentua lo sfruttamento di classe. In ogni caso, questo compito non è portato a termine dalla revisione, ma dall'analisi politica marxista, dal lavoro politico, e, ovviamente, dalla lotta.


2. Non è davvero un problema convincere i lavoratori e gli oppressi in Grecia che il debito è ingiusto. La maggior parte ne é già convinta, e la riluttanza dei partiti di sinistra nel parlare di cancellazione per non “spaventare” le masse è risultata essere insensatamente conservatrice, se non addirittura ipocrita. E' indicativo di questo il fatto che la proposta di smettere di pagare il debito immediatamente e di combattere per la sua cancellazione (eccetto per la parte costituita dai fondi pensione) è stata tra le prime ad essere votata nell'assemblea popolare di massa in piazza syntagma durante i movimenti degli “indignati”, anche se allora era stata proposta solamente dalla “sinistra estrema”(primariamente da ANTARSYA). Secondo sondaggi recenti, più di un terzo della cosiddetta opinione pubblica vuole la cancellazione del debito, una percentuale che è ovviamente molto più alta nella classe lavoratrice. Questi sono numeri molto importanti, data la brutale propaganda lanciata dal governo greco e dai mass media, che non smette mai di urlare che un default del debito pubblico significherebbe il disastro totale per tutti. A dimostrazione di questo c'è anche la vicenda del partito comunista che dopo aver screditato la proposta per più di un anno, ha ora cambiato la sua posizione e l' ha adottata, senza spaventare le masse o perdere la sua popolarità. Il vero problema non è spiegare alle masse che non dovrebbero pagare il debito (lo sanno già) ma indicarle come possono veramente evitare di pagarlo, come possono imporre la sua cancellazione e come possono difendersi dalla vendetta della borghesia internazionale e nazionale in caso riuscissero a cancellarlo.


Naturalmente le cose sono piuttosto diverse nell'ottica di una campagna internazionale di solidarietà. In questo caso potrebbe senza dubbio essere cruciale dimostrare quanto profittatore e disastroso è il debito per i lavoratori greci, in modo di convincere chi non ne è immediatamente vessato a essere solidale. Non serve a niente colpevolizzare i militanti che firmano per la commissione di revisione dall'estero – dal loro punto di vista questo potrebbe essere un valido modo di esprimere solidarietà .Nondimeno, come tattica all'interno del paese, una richiesta di revisione comporterebbe un sostanziale passo indietro.


3. Il caso greco è completamente diverso da quello Ecuadoregno, al quale ci si riferisce normalmente come un valido esempio dei risultati della revisione. In Ecuador è stato il governo progressista stesso a prendere l' iniziativa di formare una commissione di revisione e controllare i contratti riguardanti i prestiti pubblici – in quel caso esistevano tali contratti. Quel governo è stato il risultato di movimenti di massa e lotte di classe, anche se simultaneamente si è dimostrato lo specchio dei loro limiti. Al contrario, sia il governo presente “di unità nazionale” che il precedente governo PASOK in Grecia sono gli strumenti principali della brutale guerra che la borghesia ha dichiarato ai lavoratori. Questo governo sta agendo “in nome e per conto” del capitale con nessuna intenzione di accettare il minimo compromesso di classe. Sappiamo bene come lo stato ed i capitalisti greci siano determinati a garantire che i creditori non perdano il loro denaro. Un default sul debito minaccerebbe tutta la loro strategia di sviluppo, così come i loro interessi immediati, in quanto molti sono loro stessi creditori (più di un terzo del debito è trattenuto da banche greche). Quindi, è assurdo chiedere a un governo del genere di dare il suo permesso, o i “poteri necessari” come è espresso nel testo originale dell'appello ad una commissione di revisione, per controllare i contratti di debito. Questo implicherebbe avere una necessità comune con il governo, qualcosa come una “questione nazionale”, o una lotta nazionale contro stranieri “saccheggiatori” della nostra terra. Al contrario, il nostro obiettivo principale adesso è quello di provare alle masse in rivolta che il “nostro “ governo non deve essere solo incolpato di assoggettamento eccessivo ai banchieri stranieri, ma di essere uno snodo attivo fondamentale nell'attacco che stiamo subendo, e che per questo dovrebbe essere rovesciato. Del resto l' ammontare di denaro che il governo Coreano si è rifiutato di pagare in quanto debito odioso, rappresenta meno del 5% del debito pubblico greco attuale. Il sistema finanziario mondiale poteva tollerare quella perdita, ma non può nel caso della Grecia.


Se l' Ecuador non è appropriato al confronto con la Grecia, figuriamoci quanto può esserlo un altro esempio menzionato dagli economisti dell'ELE: La Russia del 1998. Non è davvero necessario spiegare che in quel caso la cancellazione di una parte del debito pubblico fu un progetto borghese al 100%, riguardante le rivalità interimperialiste e non il bisogno del popolo o gli interessi dei lavoratori russi.


4. l' ELE dovrebbe essere un comitato puramente scientifico e tecnocratico supportato da “personalità” universalmente conosciute: non è una campagna né un fronte, e non include né sindacati, né organizzazioni politiche e sociali (“sarà indipendente dai partiti politici”, come è detto nell'appello). Una prima obiezione sarebbe che questo è un concetto piuttosto burocratico, non essendo chiaro come questo comitato di esperti potrebbe essere controllato dal movimento di massa. Comunque, questo non è il solo problema. La costruzione politica di ELE, come espresso nell'appello originale, non è per niente “neutrale”, come sperato dai più radicali dei suoi firmatari. E' piuttosto molto social-democratica. Praticamente, il suo obiettivo primario è quello di trovare una via d'uscita della crisi senza rompere le regole del capitalismo, ma gestendo il sistema.

Secondo il testo:

L' obiettivo della commissione sarà di fare luce sul perché si è incorsi nel debito pubblico, i termini per i quali questo è stato contrattato, e gli usi per i quali fondi sono stati prestati.

Sulla base di queste considerazioni, la Commissione farà raccomandazioni appropriate per amministrare il debito, soprattutto il debito che si dimostra essere illegale, illegittimo od odioso. Lo scopo della commissione sarà quello di aiutare la Grecia a prendere tutte le misure necessarie ad affrontare il fardello del debito”.


Questo tipo di retorica rinforza un patriottismo ingannevole, facendo in modo di “salvare la Grecia”, non i lavoratori e gli strati sociali deprivati e oppressi. Comunque sia in questa crisi non c' è modo di salvare la Grecia in generale, poiché non c' è modo di salvare sia i capitalisti che i lavoratori. Solo gli uni possono essere salvati, a totale discapito degli altri.


5. Gli argomenti tecnici riguardanti il debito sono utili, ma secondari e complementari. Semplicemente, la crisi del debito pubblico Greco non è un problema tecnico o una questione di logistica, ma un dilemma fondamentale di classe: chi la paga la crisi? Chi si prende il fardello del processo distruttivo da questa azionato? Il debito che i lavoratori e gli oppressi sono obbligati a pagare non è ingiusto perché viola la legislazione, ma poiché viola brutalmente i loro interessi e diritti di base. Se la discussione si restringe a problemi tecnici, è ovvio che la classe borghese e il governo, con tutti i loro specialisti, esperti, mass media e apparati di propaganda, avranno un marcato vantaggio. Quello che importa è il cuore politico della richiesta di controllare il debito: il diritto dei lavoratori di accedere a dati contenenti le finanze dello stato, del bilancio e dei fondi, o, in altre parole, il controllo dei lavoratori. Noi sosteniamo questa esigenza. Ma è esattamente una esigenza di transizione, non esaudibile nell'ambito del sistema capitalistico e dello stato borghese. E, certamente, non è per niente d' aiuto chiedere “poteri di requisizione” ad un governo borghese allo scopo di lottare per un obbiettivo del genere.
Il nostro disaccordo sia con la commissione per la revisione del debito sia con i vari programmi di sinistra per la ristrutturazione di esso è strategica, ma allo stesso tempo coinvolge le nostre più immediate priorità all'interno del movimento di massa. Non dovremmo accettare la prospettiva di essere tutti di fronte a un problema risolvibile come nazione, non importa quanto “progressista” possa essere la soluzione proposta. I lavoratori e gli strati sociali sfruttati hanno come scopo primario non quello di convincere il resto della nazione, ma di ricattarla con la lotta, lo sciopero, i blocchi della produzione eccetera, in modo di imporre la cancellazione del debito - sia esso illegittimo, illegale, odioso o meno. Loro non hanno paura dei nostri argomenti, hanno paura del nostro potere di minacciare la dominazione della classe borghese.

12 febbraio 2012

Grecia, ecco il piano di austerità


da Atene
Margherita Dean - peacereporter.net
Inizia la discussione, al Parlamento, della legge che, in tre articoli, adotta il programma di ristrutturazione del debito con la partecipazione volontaria delle banche e investitori privati (Psi+), definisce le modalità di ricapitalizzazione delle banche greche e introduce le misure del nuovo pacchetto di austerità, necessario all’erogazione del prestito alla Grecia di 130 miliardi.

Il testo della legge, inoltre, conferma l’erogazione, decisa il 12 luglio del 2011, di 35 miliardi del Fondo salva-stati (Efsf).

Il Parlamento dovrà approvare domani il ddl a maggioranza semplice, per un numero di deputati comunque non inferiore a 120 dopo che, le defezioni di ieri alla compagine governativa, hanno ridotto la coalizione di maggioranza a due invece che tre partiti, il centro – destra di Nea Dimocratia e il centro – sinistra del Pasok.

Reso noto il testo dell’accordo che per settimane ha impegnato in trattative impossibili il governo greco con la c.d. troika di Fmi, Bce e Ue, lo stesso che sta causando tensioni politiche fortissime, si confermano i punti principali già noti.

Eppure, se possibile, il piano di austerità del periodo 2012 – 2015, è ancora più duro del previsto.

Stante che, per il 2012, il deficit primario non dovrà superare i 2 miliardi e 36 milioni, la troika impone alla Grecia:

- tagli alle spese farmaceutiche: 1 miliardo e 76 milioni nel 2012, attraverso la riduzione del margine di guadagno di farmacie, distribuzione e attraverso le prescrizioni elettroniche.

- tagli alla retribuzione degli straordinari dei medici ospedalieri: 50 milioni.

- tagli alle spese operative del governo ed elettorali: almeno 270 milioni.

- tagli ai vari sussidi dei residenti in aree remote: 190 milioni.

- tagli agli investimenti pubblici: 400 milioni.

- tagli alle pensioni, integrative e principali: 300 milioni e questo entro settembre 2012.

- sono da ricercare altri 325 milioni, d’accordo con FMI, Bce e Commissione. Questa è condizione per il versamento del prestito.

- entro giugno, il Governo deve procedere alla riduzione del 10 per cento delle indennità straordinarie del settore pubblico.

- privatizzazioni: 50 miliardi entro il 2015.

- incremento del 25 per cento sui biglietti dei trasporti pubblici (treni e autobus).

- riforma fiscale e semplificazione entro giugno.

- misure per la lotta all’evasione fiscale.

- conferma della regola, una assunzione ogni cinque allontanamenti nel settore pubblico.

- 150mila licenziamenti di statali (15mila entro il 2012, attraverso la c.d. mobilità).

- prima dello versamento del prestito il Governo greco, d’accordo con la troika, dovrà attuare una riforma delle pensioni integrative volta a garantire la sostenibilità del sistema.

- taglio del 10 per cento delle pensioni d’invalidità.

- le spese per la Salute non dovranno superare il 6 per cento del bilancio per tutta la durata del programma.

- tagli alle spese funzionali degli ospedali dell’8 per cento entro il 2012.

- il salario minimo garantito dalla contrattazione nazionale sarà ridotto del 22 per cento e del 32 per cento per gli under 25.

- sono sospesi gli aumenti salariali automatici.

- entro luglio, ci dovrà essere una riforma dello statuto dei lavoratori, per la quale il salario minimo non sia più definito attraverso la contrattazione nazionale con i sindacati ma attraverso la legislazione.

- riduzione del 5 per cento dei contributi alle casse previdenza e salute.

- piena liberalizzazione delle professioni entro il 31 marzo.

- una serie di semplificazioni burocratiche, per ciò che riguarda le imprese, la valorizzazione di immobili, le politiche di protezione ambientale.

- aumenti delle bollette della luce, perché rispecchino il prezzo all’ingrosso.

- implementazione della riforma scolastica e universitaria.

- riforma giudiziaria.

Ascanio Celestini ed i Poteri Forti

Il neoliberismo, stadio supremo?

di Michel Husson
L’affondare nella crisi è oggi manifesto. Il termine crisi è un po’ inflazionato e occorre qui distinguere tre tipi di crisi che ricorrono nel capitalismo: crisi periodiche, crisi di regolazione e crisi sistemica. La crisi attuale è evidentemente diversa da una crisi periodica: è evidentemente una crisi di regolazione, in altri termini una crisi della forma neoliberista del capitalismo. Ma questa crisi è abbastanza profonda da contenere gli elementi di una crisi sistemica.

Il tempo lungo del capitale

Parlare di crisi di regolazione è per facilità, ma non implica alcuna adesione alla teoria della regolazione, e comunque non alle sue implicazioni «armonicistiche».1 Sarebbe meglio parlare di crisi dell’«ordine produttivo» neoliberista, per riprendere il termine da Dockès e Rosier.2 Il concetto di base è che il capitalismo ridefinisce periodicamente un modo di funzionamento specifico, che deve rispondere a un certo numero di contraddizioni che si trova di fronte in permanenza ma che «gestisce» in modo diverso. L’idea essenziale è che il capitalismo ha una storia: i suoi meccanismi profondi sono immutabili ma il suo modo di funzionamento differisce da un periodo all’altro e anche da un paese all’altro.

La constatazione non è nuova e si deve a Kondratiev l’individuazione di periodi storici da lui designati con il temine improprio di «cicli lunghi», che suggerisce a torto un’automaticità simile a quella che sottende la dinamica dei cicli brevi. Trockij condivideva questa osservazione al di là delle critiche che rivolgeva a Kondratiev. In un articolo del 1923, egli scriveva: «Nella storia, i cicli omogenei si raggruppano in serie. Durante periodi interi di sviluppo capitalista, i cicli si caratterizzano per boom netti e delimitati e crisi brevi e di ampiezza limitata. Ne risulta un movimento bruscamente ascendente della curva di sviluppo capitalista. I periodi di stagnazione si caratterizzano per una curva che, pur conoscendo oscillazioni cicliche parziali, si mantiene allo stesso livello approssimativo per decenni».3

Lo studio di questi periodi storici ha dato luogo a una linea di ricerche,4 tra le quali si può citare la teoria delle onde lunghe di Mandel.5 Mandel distingue fasi espansive e fasi recessive che scandiscono la storia lunga del capitalismo. Ma non si tratta di cicli, a causa di un’asimmetria essenziale: il passaggio da una fase recessiva a una fase espansiva suppone un rimaneggiamento profondo del capitalismo che non è incorporato al suo funzionamento normale e dipende dunque da fattori «esogeni». Al contrario, l’esaurimento delle fonti dell’espansione risulta dalle contraddizioni interne o «endogene» del capitalismo, che finiscono per fare crollare gli arrangiamenti che hanno permesso di contenerne gli effetti per un certo tempo. Questa griglia di lettura, riassunta brevemente,porta a distinguere due periodi nel capitalismo del dopoguerra. Il primo va dalla fine dell’ultima guerra mondiale alla svolta degli anni 1980. Trenta gloriosi, fordismo, età dell’oro, il nome poco importa. Importante è capire che il capitalismo disponeva, in questo periodo, di una coerenza molto diversa dal periodo seguente, quello del capitalismo neoliberista. Non si tratta di idealizzare i «Trenta gloriosi» ma di capire le specificità del capitalismo in ciascuno di questi periodi.

Si può evidentemente discutere il termine di coerenza. Vuole semplicemente dire che per funzionare, il capitalismo deve rispondere a un certo numero di domande che gli sono poste in permanenza. Le risposte possono differire ma devono in ogni caso essere coerenti tra loro, fare sistema. L’insieme di questi dispositivi definisce un «modello»di capitalismo in quanto non possono essere cambiati da un giorno all’altro. Quando si rompono, si può parlare di crisi di regolazione.

Ogni fase del capitalismo può dunque essere definita a partire da queste quattro dimensioni: regime di accumulazione; paradigma tecnologico; regolazione sociale; divisione internazionale del lavoro. Le si possono riassumere a grandi linee. Il regime di accumulazione definisce il modo in cui si combinano la produzione e gli sbocchi. Dal lato della produzione, la crescita e quindi l’accumulazione saranno più o meno intense secondo che si basano o meno su forti aumenti di produttività. Dal lato degli sbocchi sono possibili due casi opposti: un consumo di massa tirato dalla progressione dei salari o una ripartizione ineguale dei redditi. La nozione di regime di accumulazione raggruppa anche le regole del gioco tra capitalisti, in particolare le modalità della concorrenza e i rapporti tra capitale bancario e capitale industriale e tra azionisti e gestori. Su tutti questi aspetti si potrebbero immaginare molteplici combinazioni, ma non sono tutte possibili: esse devono, ancora una volta, formare un insieme coerente.

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Qual è lo spread che applicheranno al nostro futuro?

USB - Unione Sindacale di Base

Le dichiarazioni di questi giorni dei Prof. Monti e Fornero nonché della Ministra Cancellieri, ma, cosa più importante, le dichiarazioni che emergono circa il tavolo aperto sulla riforma del lavoro e degli ammortizzatori sociali, comprese quelle di Confindustria e cgil cisl e uil, richiedono una forte e incisiva risposta al di là dell’indignazione. Il quadro è chiaro e preoccupante.

Dopo aver messo le mani sulle pensioni con la ignobile scusa di garantire i giovani, ma di fatto livellando tutti al ribasso, cioè allontanando per tutti l’eta’ pensionabile, hanno lanciando una OPA ostile sui diritti dei lavoratori, precari e disoccupati promettendo ricchi dividendi fatti di tutele e reddito per tutti che però, come essi stessi dicono, non daranno a nessuno “per carenza di risorse”.

Hanno fatto aggiotaggio facendo svalutare la dignità dei lavoratori stabili, dei precari e giovani con il marketing del fannullone, bamboccione, cuore di mamma.

Hanno invitato i disoccupati e i giovani a delocalizzarsi ed "investire all'estero", tradotto: a rifare le valige di cartone e emigrare altrove.

Hanno fatto un trust, tra CGIL-CISL-UIL, Confindustria, Banche e mezzi di informazione, per aggiudicarsi il loro pacchetto azionario nella riforma del mercato... “degli schiavi” e compartecipare al dividendo degli utili della svendita dei diritti del lavoro.

...E fanno in fretta. A marzo vogliono chiudere l'affare sulla nostra pelle!

MA NOI NON VOGLIAMO ESSERE TITOLI SPAZZATURA!

Rispondiamo alle loro offese con la nostra rabbia, occupiamo la piazza affari dove si vendono i nostri diritti per fermare la speculazione sul nostro futuro.

Come USB lanciamo a tutti i disoccupati, precari, collettivi, coordinamenti, organizzazioni del sindacalismo conflittuale l'appello per la costruzione di un incontro/assemblea nazionale che programmi tutte le iniziative necessarie per rispondere con una grande mobilitazione generale e generazionale ad anni di offese e sfruttamento e ottenere l'unica cosa che abbiamo imparato essere fondamentale e che nessun professore ci può insegnare o scippare: la total security fatta di lavoro e reddito stabili e dignitosi, pensioni vere per persone vive.

06 febbraio 2012

Crisi umanitaria senza precedenti in Grecia


Discorso pronunciato davanti alla Commissione Sociale dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa il 24 gennaio 2012 a Strasburgo sul tema: «Le misure di austerità: un pericolo per la democrazia e i diritti sociali»

di Sonia Mitralias

Quasi due anni dopo l’inizio della terapia d’urto imposta alla Grecia dalla Banca Centrale Europea, dalla Commissione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale, il suo bilancio è catastrofico, rivoltante e inumano.
Prima di tutto, persino gli ispiratori di queste politiche ammettono ora apertamente non solo il loro palese fallimento, ma anche che le loro ricette erano fin dall’inizio totalmente errate, non realistiche, inefficaci ed anche controproducenti. Eccone un’illustrazione che riguarda non una questione secondaria ma il cuore del problema, il debito pubblico greco: secondo tutti i responsabili del disastro greco, se le loro politiche (di austerità più che draconiana) risultassero efficaci al 100%, il che è d’altronde totalmente illusorio, il debito pubblico greco sarà ricondotto nel 2020 al 120% del PIL nazionale, vale a dire a quello che era il suo tasso … nel 2009, quando è iniziato tutto questo gioco al massacro! Dunque, quanto ci dicono ora cinicamente è che hanno distrutto tutta una società europea … assolutamente per niente!

Ma, come se tutto ciò non bastasse, persistono a imporre ai greci – ma anche praticamente a tutto il mondo – esattamente le stesse politiche che, come essi stessi ammettono, sono già fallite. E così, in Grecia siamo ormai al settimo «Memorandum» di austerità e di distruzione dei servizi pubblici, dopo che i primi sei si sono dimostrati totalmente inefficaci! E così assistiamo in Portogallo, in Irlanda, in Italia, in Spagna e un po’ ovunque in Europa, all’applicazione degli stessi piani di austerità draconiana che danno ovunque lo stesso risultato, vale a dire sprofondare le economie e le popolazioni in una recessione e un marasma sempre più profondi.
In realtà, espressioni come «austerità draconiana» sono assolutamente insufficienti per descrivere ciò che accade in Grecia. Non è solo che i salariati e i pensionati sono amputati del 50%, o persino in certi casi del 70%, del loro potere d’acquisto nel settore pubblico, e un po’ meno nel settore privato.
È anche che la malnutrizione già ha effetti devastanti sui bambini delle scuole elementari e che è persino comparsa la fame, soprattutto nelle grandi città del paese, dove il centro è ormai occupato da decine di migliaia di senzatetto miserabili, affamati e stracciati. È che la disoccupazione colpisce ormai il 20% della popolazione e il 45% dei giovani (49,5% per le giovani).

Che i servizi pubblici sono liquidati o privatizzati, con la conseguenza che i letti di ospedale sono ridotti (per decisione governativa) del 40%, che bisogna pagare carissimo persino per partorire, che negli ospedali pubblici non ci siano più nemmeno cerotti o medicinali di base come l’aspirina.
Che lo Stato greco non sia ancora in grado – nel gennaio 2012! – di fornire agli alunni i libri dell’anno scolastico iniziato lo scorso settembre.
Che decine di migliaia di cittadini greci handicappati, malati o affetti da malattie rare si vedono condannati a una morte certa e a breve scadenza dopo che lo Stato greco gli ha tagliato i sussidi e i farmaci.
Che i tentativi di suicidio (riusciti o no) aumentano a una velocità allucinante, come d’altronde i sieropositivi e i tossicomani ormai abbandonati alla loro sorte dalle autorità.

Che milioni di donne greche si vedono ora gravate in famiglia dei compiti normalmente assolti dallo Stato tramite i suoi servizi pubblici, prima che fossero smantellati o privatizzati dalle politiche di austerità. La conseguenza è un vero calvario per queste donne greche: non solo sono le prime a essere licenziate e sono costrette ad assumersi i compiti dei servizi pubblici lavorando sempre di più gratuitamente in casa, ma sono anche direttamente prese di mira dalla ricomparsa dell’oppressione patriarcale, che serve come alibi ideologico al ritorno forzato delle donne al focolare domestico.

Si potrebbe continuare quasi all’infinito questa descrizione del deterioramento delle condizioni della popolazione greca. Ma, anche limitandoci a quanto appena detto, si constata che ci si trova davanti a una situazione sociale che corrisponde perfettamente alla definizione dello stato di necessità o di pericolo, riconosciuto da molto tempo dal diritto internazionale. E lo stesso diritto internazionale permette, e anzi obbliga espressamente gli Stati a dare la priorità alla soddisfazione dei bisogni elementari dei propri cittadini e non al rimborso dei propri debiti.

Come sottolinea la Commissione del diritto internazionale dell’ONU, a proposito dello stato di necessità: «Non ci si può attendere da uno Stato che chiuda le sue scuole, le sue Università e i suoi tribunali, che abbandoni i servizi pubblici in modo da abbandonare la sua comunità al caos e all’anarchia semplicemente per disporre in questo modo del denaro per rimborsare i suoi creditori stranieri o nazionali. Ci sono dei limiti a quanto ci si può ragionevolmente attendere da uno Stato, allo stesso modo che da un individuo».
Allora, la nostra posizione, che è d’altronde la posizione di milioni di greci, è chiara e netta e si riassume nel rispetto dello spirito e della lettera del diritto internazionale. I greci non devono pagare un debito che non è loro per molte ragioni.

Prima, perché l’ONU e le convenzioni internazionali – firmate dal loro paese ma anche dai paesi dei loro creditori – intimano allo Stato greco di soddisfare con assoluta priorità non i suoi creditori, ma piuttosto i suoi obblighi verso i suoi cittadini e gli stranieri che si trovano sotto la sua giurisdizione.
Seconda, perché questo debito pubblico greco, o almeno una sua parte molto importante, sembra avere tutti gli attributi di un debito odioso e in ogni caso illegittimo che il diritto internazionale intima di non rimborsare. È per questo che si dovrebbe fare di tutto non per impedire (come lo Stato greco sta facendo ora), ma piuttosto per facilitare il compito della Campagna greca per l’audit pubblico di questo debito allo scopo di identificare la sua parte illegittima che bisogna annullare e non pagare.

La nostra conclusione è categorica: la tragedia greca non è fatale né insolubile. La soluzione esiste e il ripudio, l’annullamento e il non pagamento del debito pubblico greco ne fanno parte come primo passo nella giusta direzione. Vale a dire verso la salvezza di tutto un popolo europeo minacciato da una catastrofe umanitaria senza precedenti in tempo di pace.