28 novembre 2012

FULL MONTI - Contro il governo che ci lascia in mutande

Sabato 1 Dicembre - ore 10.00
MANIFESTAZIONE
Università di Verona 
(Polo Zanotto)


Ci hanno raccontato che con la caduta di Berlusconi si sarebbero risolti tutti i problemi dell’Italia. Ma il governo Monti ha proseguito, con più forza, nella stessa direzione intrapresa da tutti gli altri governi a livello europeo: far pagare la crisi a chi non l’ha provocata, ai cittadini e alle popolazioni.
  • Hanno innalzato l’età pensionabile, rubandoci il futuro: mentre la disoccupazione giovanile cresce ed il lavoro diventa sempre più precario e povero, la prospettiva di una giovane d’oggi è lavorare fino a 70 anni per una pensione da fame.
  • Molte aziende chiudono, diminuiscono salari e pensioni riducendo il potere d’aquisto e precipitando ampi settori sociali verso la povertà.
  • La preoccupazione del governo è “rassicurare i mercati” e salvare le banche, mentre taglia sanità ed istruzione pubbliche, già terribilmente impoverite dalle diete liberiste degli anni ‘90. Nel contempo si appresta a spendere 127 milioni per ognuno dei 90 nuovi aerei da guerra F35.
  • Si tagliano i trasporti pubblici nazionali e locali, mentre si spendono 20 miliardi per il devastante ed inutile TAV, 1 miliardo per l’altrettanto distruttivo Traforo delle Torricelle.
  • Il governo e chi lo sostiene hanno di fatto abolito l’art.18 per attaccare la lotta e la resistenza di lavoratrici e lavoratori e laddove non arrivano a erodere la democrazia con la legge, arrivano con i manganelli e con la repressione contro coloro che alzano la testa e si ribellano.
  • Ci parlano di sacrifici necessari, di senso di responsabilità per pagare il debito pubblico, ereditato da anni di corruzione, evasione fiscale, ma soprattutto provocato da una politica fiscale che grava da sempre su salari e pensioni, mentre i profitti e i grandi patrimoni crescono senza che aumenti il prelievo fiscale.
  • In questo contesto la destra xenofoba e violenta cerca di strumentalizzare il malcontento sociale, fomentando razzismo e guerra tra poveri, con atti violenti e aggressioni.
Questo è il risultato del governo Monti, questa è la politica del Partido Democratico, del Popolo delle Libertà, dell’UdC e di tutte quelle forze politiche, sociali e sindacali che direttamente o indirettamente appoggiano e sostengono questo massacro sociale.
In Italia, le piccole resistenze che si sono prodotte in questi anni sono state generose, ma anche fragili e frammentate. C’è bisogno di una connessione, di ribaltare le politiche di austerity e la loro logica. Come in tutta Europa i cittadini e le popolazioni si stanno ribellando, anche in Italia è giunta l’ora della rivolta!

LA CRISI LA PAGHI CHI L’HA CREATA!
SIAMO IL 99% E SIAMO IN CREDITO!


Occupy Monti

19 novembre 2012

Gaza: lettera dei cooperanti italiani

Gaza City, 18 Novembre 2012
Siamo al quinto giorno di attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza.
Scriviamo questo comunicato nel mezzo del suono incessante dei bombardamenti, che proseguono ininterrottamente giorno e notte, tenendoci svegli e nel terrore assieme a tutta la popolazione di Gaza.
Sentiamo sulle nostre teste il rumore continuo dei droni e dei caccia F16 che sorvolano il cielo della Striscia.
Ogni attacco di questa offensiva militare indiscriminata e sproporzionata riaccende i terribili ricordi di Piombo Fuso.
Al momento le strade di Gaza, solitamente caotiche e affollatissime, sono surrealmente deserte, la gente non può far altro che cercare rifugio nelle proprie case.
L’esercito israeliano con l’operazione militare “Pilastro della Difesa” sta colpendo tutta la Striscia di Gaza, spesso in aree densamente popolate mettendo a rischio la vita dell’intera popolazione civile.
Da mercoledì 14 novembre le forze aeree israeliane hanno condotto più di 1000 bombardamenti, decine di attacchi dalle navi militari, portando a 50 il numero dei morti, di cui 13 bambini e 4 donne. Circa 500 persone sono state ferite dagli attacchi, l’80% dei quali sono civili e molte sono in condizioni critiche. Nella notte del 18 novembre sono stati bombardati gli uffici dei principali organi di informazione palestinesi, un gravissimo attacco deliberato alla stampa e all’informazione che ha causato il ferimento grave di sei giornalisti.
Il Ministro degli Esteri italiano, Giulio Terzi, ha dichiarato che l’escalation è iniziata con un’"enorme offensiva partita da Gaza" a cui Israele avrebbe legittimamente risposto con una reazione “molto dura, anche se ampiamente anticipata". Ha inoltre affermato che "è necessaria e urgente un'azione che riduca le tensioni, dia sicurezza a Israele e restituisca un minimo di tranquillità alla Striscia di Gaza".
Non possiamo condividere queste posizioni.
Le ostilità sono cominciate giovedì 8 novembre con l’incursione via terra dell’esercito israeliano a est di Khan Younis che ha causato la morte di Hamid Abu Daqqa, un adolescente di 13 anni che giocava a pallone davanti casa.
Quella israeliana non è una “dura reazione” ma piuttosto un’offensiva indiscriminata che colpisce principalmente la popolazione civile di Gaza, soggetta da sempre alle incursioni via terra, mare e aria sul suo territorio. I bombardamenti di cui siamo testimoni in questi giorni colpiscono una popolazione imprigionata dal blocco israeliano, illegale secondo il diritto internazionale umanitario, che da cinque anni impedisce il movimento delle persone e isola quasi completamente la Striscia di Gaza dal resto del mondo.
Il lancio di circa 400 razzi dalla Striscia di Gaza ha causato 3 vittime tra i civili israeliani. Condanniamo ogni attacco nei confronti dei civili. Non possiamo accettare che il Governo Italiano parli di piena sicurezza da un lato e di un “minimo di tranquillità” dall’altro. Crediamo però che anche la popolazione di Gaza così come quella israeliana abbia diritto ad una piena sicurezza e alla massima tranquillità. Ciò può essere possibile solo con la fine dell’assedio e dell’occupazione, con il pieno rispetto dei diritti umani e della dignità del popolo palestinese.
Ci appelliamo al governo italiano e alla comunità internazionale affinché si adoperino per mettere fine a questa aggressione illecita contro i civili palestinesi.

I cooperanti italiani presenti a Gaza

18 novembre 2012

Ballando il foxtrot

La manifestazione del 14 novembre, la composizione di classe, la richiesta di uno spazio sociale e politico al tempo con il ritmo del movimento. Che oscilla tra passo lento e veloce
di Felice Mometti
Nel ritmo base del foxtrot ogni passo lento occupa due battiti musicali e ogni passo veloce un solo battito.
14 dicembre 2010 - 14 novembre 2012. Un sottile, ma robusto, filo lega queste due date. E' il riemergere di una composizione sociale e di classe che non si fa irrigimentare nello "stato di eccezione" imposto dal Governo e dai partiti che lo sostengono. Due anni fa molte analisi confinarono quella rivolta nell'ambito di un antiberlusconismo, certo poco educato e insofferente alle pantomime della politica istituzionale, che attraversava l'intera società. Ciò che invece muoveva coscienze, condizioni materiali, immaginari era non solo, ed oggi possiamo dire non tanto, la cacciata della maschera di Arcore - già entrata in una rabbiosa agonia - ma l'apparizione, la messa in forma, di soggetti e contenuti che debordavano i tradizionali confini di una sinistra più o meno radicale. Una politicità, connaturata negli avvenimenti e nei comportamenti, alla ricerca di linguaggi e strumenti che facessero bruciare le tappe, senza rallentamenti dovuti alle macerie del passato. Obiettivamente era molto difficile arrivare in orario a quell'appuntamento, nonostante le premesse. Gli orologi non erano sincronizzati e segnavano ancora ore diverse.
La grande manifestazione della Fiom, aperta ai "movimenti", di due mesi prima aveva riacceso la vana speranza della possibilità di un fronte politico-sociale costruito per addizione aritmetica con l'illusione che il gruppo dirigente di quel sindacato, nelle sue varie sfumature e ognuno con propri alleati, potesse fare da catalizzatore universale. Fece solo una breve supplenza. E i posizionamenti politici, allora in embrione, successivamente emersero e si incaricarono di fare chiarezza, rendere evidente il vicolo cieco in cui si era infilata quella strategia politica e sindacale. La corsa all'indietro di queste settimane, il rientro nell'alveo della Cgil, della maggioranza della Fiom assume un duplice aspetto: la salvaguardia di una struttura sindacale e l'impossibilità della stessa, così com'è, di oltrepassare i confini di una rappresentanza verticale e gerarchica, per categorie professionali, della forza-lavoro. Questa svolta più o meno improvvisa ha lasciato sul posto una smarrita sinistra interna.
La politica è questione di spazi e tempi. Spazi sociali conquistati e tempi politici agiti nella contemporaneità dell'azione dei soggetti in movimento. Non si danno gli uni senza gli altri. Se la consapevolezza della crucialità del tempo politico vissuto da soggetti incompatibili con la governance dell'eccezione permanente non trova uno spazio sociale adeguato per esprimersi si è destinati a incrociare sulla propria strada solo lo Stato e i suoi apparati repressivi. Questo è ciò che è accaduto il 15 ottobre dello scorso anno. Ciò che lo ha depontenziato, ridotto a "questione di ordine pubblico". Al di là di tutte le ricostruzioni dello scena, i malcelati opportunismi, le elaborazioni del lutto. Ricomporre l'infranto, diceva Walter Benjamin, non per riconquistare una linearità e una progressività delle esperienze e delle lotte, peraltro mai esistite. La differenza tra le mobilitazioni spagnole, greche, del movimento Occupy fino a qualche mese fa e quelle italiane non sta tanto in una minore frammentazione, in un maggior coordinamento, in una minore incisività degli apparati ideologici e mediatici, nella diversa articolazione della crisi. Tutto questo c'è, è presente, conta, ma non tanto da costituirne la differenza specifica. E' il punto di precipitazione, di condensazione delle mobilitazioni, delle lotte, dei comportamenti politici, degli immaginari sociali e generazionali che fa la differenza, che produce lo scarto e riapre nuovi spazi e ritma nuovi tempi.
In Italia oggi questa condensazione e questo scarto ancora non si danno. Ci sono tanti sintomi, segnali ma non ancora una riconoscibiltà evidente. Certo non aiutano atteggiamenti che si affannano a proporre l'importazione di modelli inapplicabili come Syriza, il movimento Occupy o degli Indignados. E aiutano ancora meno le aggregazioni elettorali infarcite di feticismo costituzionale e nostalgie keynesiane che hanno come interlocutore un popolo che non esiste più, quello della sinistra. La paura dello sfondamento elettorale a sinistra delle liste di Grillo fa montare la guardia a casematte ormai vuote. Per dirla ancora parafrasando Benjamin: si è persa "l'aura politica", e non da oggi. Quella collocazione nelle coscienze, nelle aspettative, nei comportamenti, nelle prospettive che rendeva inaggirabili le organizzazioni politiche e sociali della sinistra più o meno radicale. E' da questo dato che bisogna ripartire facendo molta attenzione a quello che produce il conflitto sociale e di classe ed ai soggetti protagonisti.
Dall'inizio del mese di ottobre è stato un susseguirsi di sommovimenti locali e nazionali che hanno messo di nuovo in chiaro la natura e la consistenza di settori significativi della nuova composizione sociale e di classe. In parte, quelli più dinamici, giovani e precari con delle identità che non mettono al centro la traduzione necessariamente politica e elettorale della propria condizione sociale e materiale. E componenti, generalmente meno giovani, che si rifugiano nelle lotte locali o settoriali perchè esauste dei fallimenti della sinistra. Attardarsi solo a criticare le debolezze e la contraddittorietà, che pur ci sono e non vanno dimenticate, di questa composizione sociale significa nei fatti collocarsi nel ruolo di spettatori che applaudono, se va bene, o fischiano. Se non si coglie la politicizzazione in continuo divenire di questi soggetti che lottano, che ha dei momenti di coagulo come è stato il 14 novembre, si possono anche fare degli intermezzi utili, come il No Monti day, ma la musica è un'altra. E' quella di un anticapitalismo a densità variabile, spesso confuso, che si esprime a ondate intermittenti. La lotta di classe non segue le leggi dell'aritmetica ma quelle dell'algebra è stato detto da qualcuno e la necessità di uno spazio sociale e politico che sia all'altezza di questa esigenza è sempre più impellente.

La miglior difesa è il massacro!

Basta con l'ipocrisia israeliana e degli alleati europei. Basta con la guerra israeliana al popolo palestinese

di Piero Maestri

«È tempo che Israele riconosca che Gaza è un nemico. Ed agisca di conseguenza: smetta di fornire elettricità e far passare cibo. Dichiari ufficialmente che siamo in uno stato di guerra e agisca di conseguenza». Parole dello scrittore «pacifista» Abraham Yeoshua, lo stesso che nel condannare la «seconda Intifada» palestinese commentava che l'errore dei palestinesi stessi era quello di volere «la pace e la giustizia», il che è ovviamente una colpa! 
Su una cosa ha però ragione: Israele è in guerra contro Gaza, è in guerra contro la popolazione di Gaza. E non solo o non tanto perché da qualche giorno ha ripreso i bombardamenti mirati e indiscriminati contro la Striscia, ma perché dopo la farsa del «ritiro unilaterale» del 205, Israele ha mantenuto la Striscia sotto un vero e proprio assedio. E' l'altra forma dell'occupazione che continua. 
Perché deve essere Israele a «fornire elettricità e passare cibo»? Perché Israele controlla tutti i confini con la Striscia e vuole continuare a ordinare all'Egitto come gestire il confine di Rafah. Perché Israele impedisce un'economia autonoma palestinese - impedendo ai pescatori di pescare, agli agricoltori di avere sicurezza nei campi, ai commercianti di poter vendere e acquistare dove preferiscono; ai palestinesi impedisce la possibilità di vivere nella loro terra! 
Israele è in guerra con Gaza - e i peggiori cantori di questa guerra sono coloro che, come Yeoshua, cercano di far dimenticare che la responsabilità della guerra è di Israele e della sua politica. 
L'attacco israeliano di questi giorni («Pilastro di difesa», solita ipocrisia dei nomi delle operazioni di guerra) è ancora una volta un messaggio insanguinato rivolto ad Hamas, come nel 2008 con «Piombo Fuso»: non perché l'organizzazione palestinese rappresenti un «pericolo» per la sicurezza di Israele, ma perché non si decide a svolgere il compito che le viene richiesto dal governo israeliano: tenere sotto controllo la popolazione e la resistenza palestinese di Gaza, in cambio della salvezza per i propri dirigenti. 
Per questo è stato assassinato il capo militare di Hamas (a cui è stato anche fatto pagare il rapimento di Shalit, e il successo politico della sua liberazione), perché si vuole spaventare l'intera organizzazione. 
E intanto si procede con la consueta modalità della guerra terroristica, per convincere la popolazione palestinese di Gaza - ma anche quella della Cisgiordania sempre più colpita da colonie illegali israeliani e dalla pulizia etnica di Gerusalemme - che l'unica salvezza è l'accettazione del dominio israeliano sulla Striscia e la necessità che la politica palestinese sia subalterna a quella israeliana. E' ciò che il sociologo israeliano Baruch Kimmerling chiamava «politicidio». 
Anche questa volta il messaggio israeliano - che viene portato con missili, bombardamenti, massacri - è rivolto a soggetti diversi: ad Hamas e a tutti i palestinesi, dicevamo; ai nuovi dirigenti egiziani, che sembrano meno disponibili a subire senza protestare ogni operazione israeliana, ma che devono in ogni caso mantenere un equilibrio tra dichiarazioni più forti (accompagnate da limitate ma simboliche misure diplomatiche) e la necessità di mantenere ferma l'alleanza con gli Usa e la collaborazione con Israele nel Sinai; agli Usa di Obama, presidente che non piace a Nethanyahu ma che non fa comunque nulla per fermare la politica espansionistica e terroristica israeliana; ai governi europei, perché continuino a sostenere le ragioni e la politica israeliane (come fanno senza particolari problemi). 
Vergognoso come sempre l'atteggiamento del governo italiano, che non cambia mai anche se ora ci sono i «tecnici», quelli che sanno bene quale contributo possa dare Israele al capitalismo europeo in crisi, e quale ruolo possa continuare a svolgere in una regione in subbuglio - dove il peggiore incubo per gli europei è il successo di rivoluzioni che riescano a cacciare davvero i governanti neoliberisti alleati agli interessi europei con filo doppio. 
Per questo il ministro degli esteri italiano terzi si dice «preoccupato per il lancio di missili Qassam» (non sappiamo se sia preoccupato per le decine di morti palestinesi,ma dubitiamo fortemente). Per questo si affida alla «mediazione egiziana», sperando che la Fratellanza musulmana egiziana dimostri di saper tenere a bada i palestinesi così da accreditarsi definitivamente agli occhi europei e statunitensi. 
Non siamo contenti per il lancio di missili Qassam su Israele, e piangiamo anche i morti civili israeliani. Ma continuare a mettere sulla stesso piano questi missili con la politica sionista di occupazione, embargo, distruzione e cancellazione dei palestinesi è una colpevole ipocrisia. 
Noi non siamo equidistanti (o «equivicini» come sosteneva D'Alema): siamo dalla parte della resistenza palestinese all'occupazione israeliana; siamo dalla parte di chi si batte per la nascita di uno stato democratico in Palestina che metta fine all'esperienza sionista e renda piena cittadinanza a chi vi abita (arabi, ebrei e qualsiasi altra nazionalità e identità sia presente) e a chi è stato espulso dall'occupazione israeliana e ancora è profugo in tutto il mondo; siamo dalla parte dei popoli che vogliono libertà, giustizia, dignità (per questo siamo dalla parte della rivolta siriana, contro la dittatura di Assad - che non è certo dalla parte dei palestinesi - e contro qualsiasi intervento militare esterno, che renderebbe più schiavi i popoli arabi). 
Per questo continuiamo a protestare e manifestare. Per la pace E la giustizia, non essendo possibile la prima senza la seconda.

Le vere emergenze securitarie sono altre

di Salvatore Palidda
il manifesto 17/11/2012
È difficile immaginare che i manifestanti avessero l'intento e le capacità di dare l'assalto al "palazzo d'inverno" e di identificarlo in quello del ministero della Giustizia. 
Ma gli zelanti agenti (o, chissà, impiegati e funzionari del ministero improvvisamente travolti dal panico di essere vittime di un tragico assalto come nel 1917 a Mosca) hanno reagito senza batter ciglio scagliando dal tetto e dalle finestre una sequela di lacrimogeni. La ministra di questo dicastero ha tenuto a precisare che si tratterebbe di «lacrimogeni a strappo che non sono in dotazione al reparto di polizia penitenziaria di via Arenula». Da parte sua, il solerte questore di Roma ha subito dichiarato che i lacrimogeni sono stati lanciati da agenti della polizia, sparati «a parabola» non diretti sui manifestanti. La traiettoria sarebbe stata deviata perché avrebbero urtato sull'edificio. Una versione che ricorda la parabola del proiettile che uccise Carlo Giuliani, anch'esso «deviato da un sasso».
Ancora il questore (che probabilmente vuole candidarsi a una adeguata promozione visto che si stanno sgomberando posti ai vertici del Viminale) non manca di aggiungere: «Se ad un certo punto veniamo aggrediti militarmente è chiaro che dobbiamo reagire, perché siamo qui anche per questo: per tutelare la legge, questo è il nostro compito». Se l'aggressione è militare vuol dire che siamo in guerra, ergo: di qua ci sono i "soldati del giusto campo" e di là i nemici da annientare. E voilà, ecco un altro pilastro scientifico della polizia italiana forgiata dal G8 di Genova a oggi dal superpoliziotto De Gennaro e dai suoi fedelissimi discepoli e amici (ai quali ha garantito carriere folgoranti, creando una schiera di prefetti ex-poliziotti mai così folta): i manifestanti possono diventare nemici come in guerra e allora la polizia non è più destinata alla "chirurgia sociale" per separare i facinorosi dai semplici manifestanti, ma sarebbe "costretta" ad adottare modalità militari.
Ecco dunque riconfermato il paradigma della governance dell'ordine pubblico, che può oscillare, secondo le occasioni, dal poliziesco al militare e viceversa come prescrive la scuola liberista lanciata sin dai tempi di Reagan e che oggi cerca di forgiare la poco nota ma influente Eurondfor (www.eurogendfor.org). Una scuola ancor di più valida, visto l'aggravamento della crisi nell'Unione europea. L'Italia, dai governi Prodi e soprattutto D'Alema e ancor di più con quelli berlusconiani-leghisti, è perfettamente in linea avendo abolito di fatto i concorsi per il reclutamento nelle polizie, riservandoli ai soli militari che hanno fatto la ferma volontaria e quindi esperienze nelle guerre in Iraq, Balcani, Bosnia, Afghanistan. Abbiamo quindi un processo di militarizzazione delle polizie che sembra scontato e infatti anche l'aspirante guru della sicurezza del Pd ha creato una fondazione in cui ci stanno tutti, da rappresentanti dei servizi segreti a militari, esperti delle polizie e anche qualche "scienziato sociale" (vedi www.fondazioneicsa.it).
Così, come può facilmente constatare il comune mortale che paga tasse su tasse anche per mantenere una panoplia di polizie e di controlli che in Italia è enorme rispetto a tutti i paesi del mondo (il tasso per abitante più alto di spese pubbliche e private per la sicurezza e gli stipendi più alti dei vertici delle polizie e dei militari - quello del capo del Viminale cinque volte di più di quello del capo dell'Fbi) anziché avere delle polizie che garantiscano il diritto a manifestare abbiamo delle polizie che ogni qualvolta si profili una protesta un po' massiccia, anche se lungi dal rappresentare una effettiva minaccia al potere, sceglie di passare a modalità militaresche.
Nel frattempo, nessuno sembra accorgersi che ben poco fanno le nostre polizie per contrastare il lavoro nero, le neo-schiavitù, l'insicurezza sul lavoro, i gravissimi attentati alla salute pubblica derivanti dall'inquinamento provocato dalle attività sommerse o semi-legali, le stesse ecomafie e le tanto citate evasione fiscale e corruzione. Un universo di reati - cioè di insicurezze - che restano ignorati perché, dalle polizie locali a quelle nazionali, la priorità assoluta è attribuita alla repressione.
Cosa verrebbe fuori se si facesse un bilancio effettivamente indipendente e trasparente dei costi e benefici del governo delle insicurezze e della sicurezza in Italia? Ci saranno un giorno dei parlamentari ed eletti negli enti locali che vorranno cimentarsi con onestà e rigore su questo terreno? Per ora l'ignoranza in questo campo appare spaventosa. Tanti sbraitano davanti ai periodici abusi, violenze e atti razzisti, ma poi tutto passa non solo a causa della memoria corta che produce il bombardamento mediatico, ma perché non si guardano gli intrecci delle conseguenze di più di venti anni di liberismo al potere. Se c'è da fare controinformazione utile, occorre denunciare gli episodi di violenze poliziesche-militaresche come continuum di quella governance liberista che allo stesso tempo ignora le vittime delle diffuse e tragiche insicurezze e violenze, ossia quella buona parte della popolazione che tende a diventare maggioranza e che alcuni chiamano il 99 per cento.

15 novembre 2012

Comunicato di Sinistra Critica sul 14 novembre

14 novembre, grande giornata di lotta europea contro le politiche di austerità.
No alla repressione, libertà di manifestazione! Libertà per gli/le arrestati/e!


Come in gran parte degli altri paesi della UE, oggi anche in Italia centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori, di studentesse e di studenti, sono scesi in piazza oggi nella giornata dello sciopero generale europeo.
La mobilitazione è andata molto oltre la chiamata allo sciopero della Cgil e del suo tentativo di rendere questa giornata la più inoffensiva possibile e priva di efficacia nell'interrompere effettivamente l'attività produttiva.
La mobilitazione ha rotto gli argini soprattutto grazie allo straordinario sviluppo nelle scuole di tutto il paese, tra le studentesse e gli studenti medi e tra gli insegnanti di un vasto movimento per la difesa della scuola pubblica, contro tutte le misure del governo che, in nome dell'austerità, puntano a una vera e propria distruzione della scuola pubblica, lasciando i giovani senza alcuna prospettiva del futuro.
L'irruzione sulla scena politica e sociale di un vero movimento di massa, di cui si avevano avuto le prime timide avvisaglie con la manifestazione del 27, e poi ancor più con la grande giornata romana degli insegnanti del 10 novembre.
Un ventata di aria fresca che ha, tra l'altro, scompaginato il misero castello di carte delle primarie del Pd e della contemporanea scimmiettatura del Pdl.
E' in questo quadro che si spiega la violenta reazione degli apparati polizieschi contro le/i manifestanti: porre da subito un argine contro lo sviluppo del movimento.
Sinistra Critica condanna in modo netto la aggressione poliziesca agli studenti a Roma e in numerose altre città, aggressione del tutto ingiustificata e motivata solo dalla volontà del potere di evitare che i cortei arrivassero in vista dei palazzi della politica. Cariche violentissime per spaventare, per "insegnare" ai giovani studenti di stare "al loro posto", nella gabbia stabilita dal sistema e di rinunciare a ribellarsi e lottare.
In tutta Europa le mobilitazioni circondano e assediano i luoghi del potere politico, parlamenti o palazzi governativi, ma anche i luoghi simboli del potere economico e finanziario. In Italia, dove il discredito della casta politica raggiunge i massimi livelli internazionali, secondo le compatibilità stabilite dalle “forze dell'ordine” occorre mantenere le proteste lontano, per evitare che l'opposizione contro l'austerità si combini con il rifiuto della “casta”, che altro non sono che i gestori politici delle scelte della borghesia.
Così centinaia di giovani sono stati fermati e identificati, numerosi sono stati denunciati, tantissimi sono stati picchiati a freddo. Sinistra Critica chiede l'immediato rilascio degli arrestati e l'archiviazione di tutte le denunce.
Il governo, evidentemente, sente che il clima nel paese sta cambiando e che sta esaurendosi quel torpore sociale che faceva dire a Monti nei suoi tour europei che tutto il popolo italiano condivideva la sua politica.
La mobilitazione odierna segna quindi un grande passo avanti nella costruzione di un movimento di massa plurale contro il governo delle banche e le sue politiche.
Bisogna continuare.
Le militanti e i militanti di Sinistra Critica si impegneranno fino in fondo per ampliare le dinamiche di lotta, per favorire l'autoorganizzazione democratica delle/degli insegnanti, delle studentesse/degli studenti, delle lavoratrici e dei lavoratori e far convergere tutte le opposizioni sociali e politiche al governo Monti.
E' possibile costruire nuove occasioni di mobilitazione continentale, è possibile avanzare verso lo sciopero europeo contro i signori della finanza, le oligarchie borghesi europee e i governi e le istituzioni che ne difendono gli interessi.
Per questo non solo siamo dalla parte di chi è stato picchiato/a, fermato/a, arrestato/a, ma torneremo in piazza anche nei prossimi giorni, tutti e tutte insieme.

06 novembre 2012

I soldi che ci sono

di Antonio Tricarico (Re:Common)
Con la crisi del debito che ha portato al governo Monti, la spending review dettata dall’austerità è partita, ma non solo. E’ ormai chiaro che il debito pubblico continua ad aumentare perché le ricette liberiste attuate non funzionano e quindi oggi, così come nel 1992 quando la finanza speculativa internazionale affossò l’Italia, il governo è pronto ad avviare una nuova ondata di privatizzazioni. Ben 360 miliardi di Euro sarebbero come minimo le proprietà pubbliche – di cui l’80% in mano agli enti locali – che potrebbero essere vendute a fette di 15-20 miliardi ogni anno per abbassare di almeno un punto percentuale annuo il debito pubblico. Di questo si è discusso al Senato lo scorso giovedì in un seminario a porte chiuse per tutte le forze politiche promosso dal governo con il supporto di Cassa Depositi e Prestiti, l’Agenza del Demanio e Bankitalia. “E’ l’Europa ed i mercati che ce lo chiedono”, è la vulgata dominante che oramai attraversa quasi l’intero arco parlamentare. Per fermare la seconda grande svendita dell’Italia non è sufficiente limitarsi a guardare le spese e rilanciare il welfare, ma serve molto di più. Bisogna mettere le mani nello “stato patrimoniale” del paese, ma con altri fini.
Contrariamente a quello che ci viene detto, il problema di questa crisi non è che i soldi non ci sono, ma ce ne sono invece troppi ed in mani private, ed agitano i mercati finanziari alla ricerca di investimenti lucrativi che mancano in tempo di crisi. Da cui la continua estrazione di ricchezza pubblica con gli interessi sul debito pubblico pagati agli investitori con la fiscalità generale. Risulta, quindi, inevitabile prendere di petto la questione del debito capendo come metterne in discussione il pagamento nei termini che ci vengono imposti dai mercati ed avviando un rinegoziato quanto meno sul pagamento degli interessi. Ed in parallelo affrontare la questione del riordino del sistema della tassazione, a partire dai patrimoni privati e le rendite finanziarie – oggi la ricchezza privata in Italia è quattro volte e mezzo il debito! - in una logica di “definanziarizzazione” dell’economia e della società per disarmare il potere di ricatto dei mercati finanziari.
Sempre con questa prospettiva è centrale rileggere gli strumenti di finanza pubblica che si possono attivare per gli investimenti di interesse pubblico. Tanti sono i soldi già nelle mani dello Stato, ma subordinati alle logiche del mercato. Il gigante Cassa depositi e prestiti, se “risocializzato” contro gli interessi delle banche nostrane, potrebbe tirarci fuori di fretta da questa crisi e rilanciare il finanziamento dei beni comuni. Nonché potrebbe essere il veicolo per iniziare a reincanalare ricchezza privata accumulata in meccanismi di gestione pubblica, togliendo linfa vitale ai mercati finanziari.
Solo così si possono rompere le compatibilità imposte ed aggirare la gabbia che ci piomba addosso dal Fiscal Treaty e le altre norme europee. Per questo un gruppo di soggetti della società civile italiana – ATTAC, Re:Common, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Rivolta il Debito, Smonta il debito – hanno deciso di lanciare un appello “per una nuova finanza pubblica”, che diventa da oggi il tema di questa nuova rubrica del giornale.

14N - Tutti in piazza contro il governo Monti e i ricatti di UE-BCE-FMI


Il 14 Novembre in diversi paesi europei sono state lanciate mobilitazioni convergenti contro le politiche di austerità che stanno massacrando i lavoratori e le classi popolari.
In Spagna, Grecia e Portogallo le organizzazioni sindacali, sia quelle più tradizionali che quelle alternative, hanno convocato lo sciopero generale dell’intera giornata. Altre iniziative parziali di lotta o manifestazioni sono previste in Francia, Belgio, Gran Bretagna, Germania. In questi paesi, i grandi movimenti sociali che si sono espressi nelle piazze e nella società nei mesi scorsi, convergeranno sulla scadenza dello sciopero generale, trasformandolo in una “mobilitazione sociale” generalizzata contro le politiche imposte dalla Troika (UE-BCE-FMI) e contro i rispettivi governi.
La CES, la confederazione delle organizzazioni sindacali burocratiche e concertative, ha deciso di chiamare per quella giornata ad una mobilitazione europea da articolare diversamente nei diversi paesi del continente. La CES prende questa iniziativa su una piattaforma inadeguata e che rivendica la prospettiva, illusoria e perdente, di un nuovo “patto sociale” con le imprese contro le politiche di austerità imposte dal grande capitale finanziario e industriale. Ma allo stesso tempo è costretta a scendere sul terreno della mobilitazione da una situazione sociale sempre più esplosiva, in cui il conflitto nei diversi paesi tende a radicalizzarsi e cresce la spinta ad un coordinamento europeo delle risposte e delle resistenze all’austerità imposta per uscire - senza riuscirci - dalla crisi del debito sulla spalle del lavoro salariato tutto. In molti paesi europei, infatti, sia le organizzazioni del sindacalismo conflittuale che i movimenti sociali hanno deciso di utilizzare la giornata del 14 novembre per lanciare una sfida: fare un passo in avanti per unificare lotte, resistenze, conflitti e vertenze sulla strada della costruzione di un vero sciopero dei lavoratori dei paesi europei in grado di paralizzare l’economia del continente e indicare gli elementi di una alternativa di politiche economiche e sociali all’austerità capitalistica.
In Italia fino ad oggi abbiamo le 4 ore di sciopero generale proclamate dalla Cgil “per il lavoro e la solidarietà, contro l’austerità”, le otto ore proclamate dai Cobas e la convergenza della Fiom sulle 4 ore della Cgil, che perde un’altra occasione di generalizzare una mobilitazione insufficiente spostando il proprio sciopero di categoria all’inizio di Dicembre. Invece, i movimenti della scuola e della formazione e alcuni settori Cgil come FLC, Filcams e SLC hanno già dichiarato di estendere la mobilitazione all’intera giornata nella propria categoria (scuola, commercio, telecomunicazioni).
Una risposta sicuramente limitata nonostante queste spinte e la domanda che arriva da quei lavoratori europei che pagano più pesantemente i costi della crisi di convergere sul 14 novembre per farne una grande giornata di mobilitazione e lotta sociale.
Nonostante questi limiti, crediamo che tutti i delegati, le delegate, i lavoratori e i militanti sindacali combattivi, debbano lavorare per costruire la giornata del 14 Novembre come un appuntamento di lotta vero. Infatti, seppur timida e con intenzioni inoffensive, la convocazione della Cgil è avvenuta anche per il segnale dato dal No Monti Day del 27 ottobre a cui dobbiamo dar seguito attraversando, con una piattaforma alternativa a quella della Cgil e della CES, anche questa giornata dando voce alle tante lotte e resistenze sparse e disperse in questo Paese. Sarebbe sbagliato, e un segnale di debolezza, non raccogliere queste sfide internazionali alla mobilitazione per mettere in discussione e cercare di rovesciare il tavolo apparecchiato dalle burocrazie concertative.
Questa data sarà preceduta dalle mobilitazioni annunciate dal mondo della scuola, già in lotta da settimane, per il 10 Novembre contro le misure distruttive contenute nella recente Legge di Stabilità. Ogni occasione va sostenuta per connettere le differenti vertenze contro attacco a orario e salario, tagli e licenziamenti verso una piattaforma di lotta che tutto il sindacalismo conflittuale deve sostenere insieme ai movimenti sociali, per i beni comuni e in difesa della scuola pubblica, degli studenti e dei precari.
Costruiamo in ogni città una mobilitazione prolungata che faccia pesare e renda visibile la determinazione alla lotta di giovani e lavoratori!
Una giornata di lotta contro il governo Monti le politiche di austerità e l’unità nazionale degli schieramenti politici che lo sostengono; contro le politiche di massacro sociale della troika in Europa; per costruire insieme una opposizione sociale durevole capace di coordinarsi sul piano europeo e non solo con le lotte ed i movimenti sociali in corso.

TUTTI IN PIAZZA CONTRO IL GOVERNO MONTI ED I RICATTI DI UE-BCE-FMI

Coordinamento delle lavoratrici e dei lavoratori autoconvocat* - contro la crisi