14 febbraio 2013

Comunicato sulla vicenda dell'aggressione squadrista all'Università di Verona - 12 febbraio 2013

A seguito dell'aggressione fascista avvenuta il 12 febbraio all'interno dell'università di Verona durante il dibattito con la storica Alessandra Kersevan, riteniamo fondamentale non tanto fornire il resoconto completo dei fatti, quanto sottolineare alcuni aspetti della vicenda.
La sostanziale continuità tra l'azione istituzionale e quella squadrista. L'accondiscendenza alle pressione politiche dimostrata dal Rettore nelle dichiarazioni per mezzo stampa, ha contribuito alla costruzione pubblica di un nemico contro cui scagliarsi, legittimando di fatto l'aggressione squadrista nei confronti dei partecipanti all'evento.
La rete nera. Impressionante la facilità con cui la propaganda di gruppuscoli di estrema destra è arrivata ad esercitare forti pressioni politiche su alte cariche amministrative e accademiche, grazie a una già consolidata rete politica di matrice culturale fascista, fino a costringere un rettore a revocare l'aula precedentemente concessa per un'iniziativa legittima.
L'asservimento della stampa locale al potere politico. Il clima che è stato creato ad arte attraverso articoli superficiali, faziosi e diffamatori risponde a dinamiche prettamente politiche estranee agli interessi scientifici della ricerca storica.
Il disordine. Denunciamo l'incompetenza e l'irresponsabilità di chi aveva il compito di gestire la difficile situazione venutasi a creare, data la presenza di militanti fascisti armati all'interno dell'Ateneo. Riteniamo direttamente responsabili: il Rettore Alessandro Mazzucco, per aver rifiutato qualsiasi confronto con gli studenti ed essersene lavato le mani; il direttore amministrativo Antonio Salvini, per aver ordinato di staccare l'elettricità, lasciando al buio un intero piano del Polo Zanotto, compresa l'aula disabili, aggravando la situazione di pericolo per studentesse e studenti; le forze di polizia per aver grossolanamente sottovalutato la minaccia.
L'imbarazzante assenza di qualsiasi comunicazione ufficiale di scuse per l'accaduto, da parte del mondo accademico veronese tutto, nei riguardi della ricercatrice Alessandra Kersevan, delle studentesse e degli studenti presenti in aula e negli altri spazi universitari.
La paradossale, infame, ingiustificata rappresaglia delle istituzioni accademiche nei confronti di Spazio Zero, un'aula autogestita aperta a tutte le studentesse e tutti gli studenti che da circa due anni è attraversata da partecipate attività culturali. Il ripetuto tentativo di demonizzare l'aula dipingendola come laboratorio di chissà quali estremismi è un'accusa ridicola che cade davanti agli occhi di chiunque frequenti l'università.
Pretendiamo le scuse ufficiali del rettore alla storica Alessandra Kersevan, accompagnate dall'invito a ritornare all'università di Verona quanto prima, per poter finalmente tenere l'incontro interrotto dalla violenza.
 
Pretendiamo che, come da statuto d'Ateneo, sia realmente interdetta l'università ai gruppi di matrice fascista.
 
Auspichiamo una collettiva presa di coscienza.
Episodi come questo rafforzano la convinzione che ora più che mai sia necessaria una costante e condivisa pratica antifascista, dentro e fuori le università, luoghi di un sapere che non può essere che critico e impegnato.



Ogni spazio all'autogestione. Nessuno spazio al fascismo.



Assemblea studentesca
Verona, 13 febbraio 2013

13 febbraio 2013

Assalto fascista all'univeristà di Verona durante un incontro sulle Foibe

Pubblichiamo la ricostruzione dei fatti dal sito ilreferndum.it

Oggi (martedì 12 febbraio), all’Università di Verona, era previsto nel pomeriggio l’incontro dal titolo “Foibe: tra mito e realtà” con la storica slovena Alessandra Kersevan, organizzato dal collettivo studentesco Studiare con lentezza in collaborazione con Pagina/13.
Durante il pomeriggio si sono svolti scontri tra gli studenti dei due collettivi e i giovani di Casapound, di opposta fazione politica.
La cronaca dei fatti
Nonostante la mail del Rettore Mazzucco che annullava la concessione dell’aula, gli organizzatori dell’evento, in comune accordo con Alessandra Kersevan, hanno deciso di svolgere comunque l’iniziativa. Nel chiostro dell’Università  i gruppi di  estrema destra Casapound e Forza Nuova avevano organizzato un presidio con annesso volantinaggio e una “mostra fotografica” improvvisata sulle Foibe. Antonio Salvini, dirigente strutturato d’Ateneo, parlando con gli organizzatori dell’incontro ha cercato di impedire il regolare svolgimento dell’iniziativa, dicendo che il Rettore aveva annullato la conferenza e mettendo il veto sullo svolgimento in qualsiasi locale dell’università. Gli studenti hanno deciso di ignorare Salvini ed hanno occupato l’unica aula lasciata aperta, la T.4, alchè Salvini ha dato disposizione di staccare la corrente dell’aula per impedire l’uso delle luci e del microfono. La Kersevan non si è data per vinta, dicendo che sarebbe andata avanti comunque anche senza microfono e senza luci, nel frattempo alcuni studenti partecipanti alla conferenza si sono muniti di prolunghe e luci per illuminare un po’ l’aula usando delle prese fuori dalla T.4. Scoperto l’escamotage Salvini ha dato ordini di staccare la corrente dell’intero piano lasciando al buio anche studenti che non c’entravano nulla, come quelli all’interno del centro disabili, rimasti al buio senza che nessuno spiegasse loro qualcosa. Vista la volontà degli organizzatori, degli studenti e non, intervenuti per la lezione della Kersevan e di lei stessa ad andare avanti lo stesso, Salvini si è allontanato dal Polo Zanotto credendo ingenuamente, per lui stessa ammissione, che la situazione era tranquilla con i due gruppi antagonisti lontani l’uno dall’altro, chiedendo ai digossini di non entrare in Università senza l’autorizzazione del Rettore. Con Salvini lontano e ben sapendo l’inpossibilità dei digossini di intervenire senza l’autorizzazione di Mazzucco, i gruppi di Casapound e Forza Nuova si sono compattati e in modo squadrista sono entrati in università muniti di caschi, bastoni,fumogeni e spray al peperoncino al grido di: “merde, merde”, “Tito boia”, “ve copemo tutti”. Impauriti, gli occupanti della T.4 si sono barricati dentro con sedie e tavoli, non prima che qualcuno del gruppo squadrista riuscisse a spruzzare nell’aula lo spray al peperoncino e i fumogeni, intossicando alcuni. Con le porte sbarrate il gruppo di destra ha iniziato a tirare calci e pugni alla porta nel tentativo di fare irruzione, impauriti, gli studenti all’interno dell’aula sono fuggiti utilizzando la porta antincendio che da sul prato della mensa, ritrovandosi però una brutta sorpresa, infatti, un gruppetto di destra stava correndo nel prato proprio per bloccarli, alchè sono ritornati tutti dentro chiudendo le porte. Non potendo entrare, i gruppi di Blocco Studentesco, Casapound e Forza Nuova, muniti di striscioni sono rimasti nel prato della mensa invitando gli occupanti l’aula di uscire per un “confronto”.

Solo dopo una quindicina di minuti dall’irruzione dei gruppi di destra all’interno dell’Università si sono mossi gli uomini della digos e della celere, dopo aver aspettato l’autorizzazione del Rettore Mazzucco per poter intervenire, mettendo in fuga l’intero gruppo squadrista. Solo dopo le rassicurazioni delle forze dell’ordine del ritorno ad una situazione tranquilla, gli occupanti la T.4 sono potuti uscire dall’Università. La Kersevan ha chiesto di essere scortata in questura per rilasciare una denuncia per poi farsi scortare fino al casello dell’autostrada.
«Sono abituata alle contestazioni – ha commentato la Kersevan – ma nemmeno a Trieste il gruppo di Veneto Fronte Skinheads aveva osato tanto, si erano limitati ad entrare con uno striscione, volantinare e dire due robe al megafono per poi andarsene».
Le testimonianze di alcuni ragazzi presenti agli scontri
Questa raccontata di seguito è la versione dei fatti secondo il gestore del blog beforetheyfall.blogspot.it.
Per l’incontro viene chiesta l’autorizzazione dell’aula, e le firme di due professori, ottenute. La conferenza reca scalpore solo dopo aver creato l’evento su facebook dove un commento apre la polemica. Le critiche vertono sulla storica, accusata di revisionismo e negazionismo.
Gli “attacchi”, continua il blog, vengono ripresi da un comunicato ufficiale di CasaPound Verona  e avrebbero portato all’invio di una email dal Magnifico Rettore Alessandro Mazzucco al Professore Direttore del Dipartimento Tesis, responsabile per la concessione dell’aula. Lo scambio epistolare avrebbe portato il professore a ordinare la sospensione dell’incontro.
Nel primo pomeriggio di oggi, si legge nel blog, si ha la notizia della concessione dell’aula e la storica slovena arriva verso le 15.45.
Tutte le aule possibili sarebbero state chiuse. Dopo mezz’ora sarebbe stata aperta la T.4, liberata dopo gli esami degli studenti. Il racconto prosegue con lo stacco della corrente elettrica, sempre secondo fonti studentesche.
Su Casapound il resoconto di un altro ragazzo 
Fuori dall’Università nel frattempo, secondo il racconto di quest’altro studente, Casapound avrebbe distribuito volantini sulle foibe.
Dopo mezz’ora dall’inizio della conferenza sarebbero arrivate all’incirca una quarantina di persone del movimento di estrema destra. I partecipanti alla conferenza, barricati dentro l’aula, avrebbero assistito al lancio di lacrimogeni e oggetti.
La polizia sarebbe poi intervenuta dopo l’autorizzazione del Rettore.
Altre fonti: qui

Verona 16/02: per i diritti dei gay delle lesbiche dei/delle trans in Russia

PRESIDIO X I DIRITTI DEI GAY DELLE LESBICHE DEI/DELLE TRANS IN RUSSIA

Alle cittadine e ai cittadini, ai gay, alle lesbiche, alle persone bisessuali, transessuali ed eterosessuali, al mondo della cultura,
della scuola, della politica e del lavoro, alle/ai migranti e a tutte le persone che vogliono continuare ad essere libere.

Sabato 16 febbraio 2013 dalle ore 11.00/15.00 le Associazioni LGBTQI venete indicono
un presidio/mobilitazione in Piazzetta Scalette Rubiani in centro a Verona per fermare
l’approvazione della legge anti-gay-lesbica e trans in Russia.

Nel Marzo del 2012 il governatore di San Pietroburgo Georghij Poltavčenko ha sottoscritto una legge anti-gay che vieta la propaganda dell’omosessualità in Russia. La proposta di legge ha ottenuto il primo dei due “via libera” (accolti con entusiasmo dalla Duma, la camera Bassa del Parlamento Russo) e a breve verrà considerato un reato manifestare la propria omosessualità “in presenza di minori”,  punibile con l’arresto e sanzioni fino a 15.000 €, che colpisce quindi l’organizzazione di eventi in luoghi pubblici o trasmissioni radio-televisive perché ad ascoltare potrebbe esserci un minore.

Il pretesto su cui fa leva questa legge è il principio di tutela dell’infanzia: si ritiene lesiva alla crescita emotiva e sessuale dei bambini e degli adolescenti l’affermazione pubblica di  identità sessuali diverse dal modello eterosessuale. Pretesto che vuole cancellare le migliaia di studi scientifici in materia di orientamento sessuale e identità di genere e l’affermarsi della battaglia per i diritti civili in tutti i programmi politici di rilevanza internazionale. Dal prossimo voto, quello definitivo, a cui seguirà solo la firma del Presidente Putin, in una parte dell’Europa gli omosessuali non potranno più vivere e parlare liberamente.
A questa ennesima discriminazioni basata sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, le città di Milano, Torino e recentemente anche Venezia, hanno risposto rifiutando di essere gemellate con  San Pietroburgo.

Noi, associazioni operanti in tutto il territorio veneto, desideriamo unirci in questa occasione e manifestare assieme il nostro dissenso, la nostra preoccupazione per quanto sta succedendo in Russia. Sabato 16 Febbraio saremo uniti nel contestare il principio su cui pone le basi questa legge, perché non è dalla libertà di pensiero o di parola che bisogna difendersi o difendere i minori. 

Saremo unite/i nel chiedere alle autorità Russe di non adottare il progetto di legge federale n 44554-6, né nella sua forma attuale o in una versione modificata.
Saremo unite/i nel manifestare solidarietà ai membri del movimento  Russian Lgbt Network, che di recente hanno avuto il coraggio e l’orgoglio di manifestare per non vedere i propri diritti calpestati, pagandone le conseguenze.
Saremo unite/i inoltre nel chiedere a tutte le forse politiche e alle diplomazie italiane di attivarsi immediatamente nei confronti del Federazione Russa, agendo nelle istituzioni Europee al fine di costruire un’azione politico diplomatica adatta a far sentire la voce di tutti i Paesi del nostro Continente.

Abbiamo chiesto un incontro urgente con dott. ALEXEY VLADIMIROVICH PARAMONOV Console Generale della Federazione Russa a Milano per consegnargli una lettera di protesta per il governo Russo.

Invitiamo tutte e tutti a partecipare e ad aderire al presidio affinché i diritti delle persone gay lesbiche e trans in Russia siano riconosciuti.

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PROMUOVONO: Circolo Tondelli LGBTI Bassano del Grappa, Circolo pink - GLBTE Verona, Arcigay Pianeta Urano Verona, Arcilesbica Verona L’Araba Fenice, Milk Lgbt Center Verona, Arcigay Padova Tralaltro, Famiglie arcobaleno Triveneto, Antéros LGBTI Padova, Associazione DELOS Vicenza, AGEDO Associazione Genitori di Omosessuali, Arcilesbica Il Riparo Padova, Associazione la Parola, Shake LGBTE Conegliano, Rete Genitori Rainbow, ArciLesbica Treviso, Lgbtvenetoorientale.


PER ADESIONI AL PRESIDIO E ALLA LETTERA: venetolgbtqi@gmail.com

11 febbraio 2013

Un progetto per l’area anticapitalista – Relazioni al seminario di Magenta, gennaio 2013

Pubblichiamo qui le relazioni che sono state presentate al seminario del 4/6 gennaio scorso, tenutosi a Magenta (MI), organizzato dalle/dai compagne/i che al Congresso di Sinistra Critica hanno presentato il documento che proponeva la costruzione dell’area anticapitalista. Il seminario ha visto la partecipazione di un centinaio di compagne/i, con una forte componente giovanile. La relazione che trovate qui completa è quella che più in specifico riguarda il progetto di costruzione dell’area anticapitalista.

Un progetto per l’area anticapitalista
di Daniele Dambra
Al congresso di Sinistra Critica dello scorso anno abbiamo avanzato un progetto ambizioso, quello dell’Area Anticapitalista. E’ il momento che questa proposta passi ad una fase operativa e inizi a vivere in alcune sperimentazioni concrete.
Questa necessità ci è data ancor più se guardiamo all’attuale contesto politico e alla tornata elettorale ormai prossima. Risulta ormai evidente come queste elezioni non portino in alcun modo alla nascita di uno spazio utile alla ricostruzione di una sinistra d’alternativa. Il percorso a cui aveva parzialmente alluso Cambiare si Può è stato fagocitato dalle esigenze elettoralistiche dei partiti che sostengono oggi Ingroia e la sua Rivoluzione Civile.
Esigenze che oltre a deludere le attese iniziali verso quel processo, minano in partenza la solidità dello stesso percorso elettorale e lo svuotano completamente della partecipazione che si era vista nelle assemblee iniziali. Un’ulteriore conferma che non si riprende dai momenti elettorali la costruzione di una Sinistra Anticapitalista.
Ma se è questo il quadro in cui ci muoviamo, allora dobbiamo tener conto di due fronti su cui sarà necessario agire nel prossimo periodo: da una parte la costruzione di un’Area che non sia l’ennesima riproposizione di un rassemblement tra organizzazioni politiche deboli, dall’altra la disponibilità a partecipare a reti e percorsi che dovessero nascere sul piano dell’ “opposizione sociale e politica” all’austerità e alle misure che il futuro governo metterà in campo. Un percorso che per essere utile dovrà essere aperto, volto a recuperare aree di attivismo sociale e non l’obsoleto schema da “intergruppi”, mettendo quindi al centro il protagonismo dei soggetti sociali più che quello dei vecchi dirigenti della sinistra radicale.
La costruzione dell’Area va quindi intesa a partire da un piano immediatamente operativo, attraverso la costruzione di strumenti, campagne, iniziativa politica. Se “il processo sinergico che aveva costretto il capitalismo a cambiare” è finito e soprattutto se ha perso di funzionalità la sua forma classica (il partito) dobbiamo chiederci quale forma risponde al contesto dato, sulla base delle discussioni fatte finora. Per dirla con una metafora, potremmo riferirci a quella dei vasi comunicanti.
Forme e dimensioni diverse, ma in equilibrio tra loro. Un equilibrio dato non da una scala gerarchica tra i vari contenitori, ma da una struttura di fondo che li pone in relazione dialettica. In cui l’azione politica, l’elaborazione teorica, le esperienze concrete di uno dei contenitori possa proficuamente influenzare anche i corrispettivi degli altri. L’area anticapitalista in questa metafora è rappresentata esattamente dalla struttura che rende questo possibile e che sulla base di ciò prova a crescere. Gli strumenti per l’autorganizzazione sono ovviamente i contenitori di forma e dimensioni diverse.
Le questioni che abbiamo di fronte riguardano dunque come riempire questi contenitori e soprattutto come rendere possibile questa relazione dialettica in modo diverso rispetto a quanto fatto finora. Non c’è una formula precisa, uno strumento valido per ogni territorio. Fatto sta che la loro costruzione debba essere la priorità di lavoro che ci diamo e che questa vada intesa non “a freddo”, in un vuoto di relazioni, ma anche e soprattutto all’interno di percorsi a cui diamo vita assieme ad altri.
Un esempio emblematico può essere proprio il percorso sul tema del debito e della nuova finanza pubblica, attraverso la costituzione degli “audit locali”, l’articolazione della campagna per la “Cassa Depositi e Prestiti”, in dialettica con il percorso di RiD che assieme ad altr* stiamo costruendo da ormai oltre un anno.
Altri esempi sul piano locale sono costituiti da Occupy Maflow a Milano, Ops ai Castelli romani, così come Fare Spazio nell’area nord della provincia di Napoli. Un altro esempio in tal senso possono essere i percorsi di occupazione e riappropriazione di spazi volti a dare un luogo fisico ai nostri strumenti, che rendano possibile l’iniziativa sociale e politica dal basso e la promozione dell’autorganizzazione dei soggetti coinvolti.
Se non possiamo darci una formula univoca, possiamo comunque individuarne alcune premesse:
 
1) Camminare domandando (perché è camminando che il mondo vive);In un contesto lacerato e non più sinergico, è essenziale il rapporto dialettico tra movimenti sociali e costruzione di un’identità politica. Un rapporto non più costituito da una soggettività in cui risiedono tutte le risposte che prova a trasmettere nei luoghi in cui interviene (semmai tale rapporto abbia mai avuto una sua veridicità), ma da un costante confronto con questi stessi luoghi e da una permanente ridefinizione del proprio essere e del proprio agire.
Possiamo notare come una piccola organizzazione marxista tendenzialmente slegata dalle comunità locali (l’EZLN) sia divenuta punto di riferimento degli indios nel momento in cui è riuscita a praticare una relazione di questo tipo, anche attraverso alcuni espedienti organizzativi e comunicativi.
La questione non è nuova: nei carteggi del 1843 Marx affronta un problema analogo quando in polemica con gli idealisti afferma la necessità di “… illustrare al mondo nuovi princìpi, traendoli dai princìpi del mondo. Noi non gli diciamo: abbandona le tue lotte, sono sciocchezze… noi gli mostreremo soltanto perché effettivamente combatte”.
E’ quindi tanto necessario che l’Area anticapitalista cammini nei movimenti sociali, quanto il fatto che si ponga e ponga continuamente loro delle domande. Considerando, per dirla con le parole di Lukacs, “la teoria della coscienza di classe come teoria della sua possibilità oggettiva” immanente allo sviluppo storico e non come proprietà ideale.
Un primo passaggio di verifica di questi primi passi e al tempo stesso di lancio di un percorso più ampio sarà un festival da organizzare nel corso di quest’anno, il quale favorisca l’inizio della discussione comune tra i vari soggetti interessati o che intendiamo coinvolgere: collettivi sociali e politici, spazi occupati, singoli/e militanti e attivist* di movimento. Un festival ad alto contenuto conflittuale, in grado di rappresentare la cartina al tornasole dell’Area che si vuole costruire.
 
2) Don’t hate the media, become the media;
Accanto al progetto più specificamente militante si pone la questione della riflessione teorica e degli spazi di dibattito politico. L’assenza di organizzazioni di riferimento ha comportato la necessità di una ridefinizione anche della comunicazione e della diffusione di pensiero critico. Perdono peso tanto gli strumenti classici (il giornale di partito, ma anche la radio “libera”) quanto i linguaggi classici. La ridefinizione comunicativa tende a cercare altre pratiche e altri linguaggi, ben rappresentati dallo slogan utilizzato da Indymedia. Che mostra da una parte la sfiducia, dall’altra la volontà a rendersi parte attiva. Ma se Indymedia avrebbe voluto rappresentare questa tendenza sul piano dell’attivismo di movimento, possiamo notare che anche forme di comunicazione più generale (dal blog al social network) si siano dirette su binari quantomeno confrontabili. Si pensi anche soltanto alla possibilità di commentare gli articoli pubblicati in rete, oggi elemento imprescindibile di qualsiasi grande quotidiano. Lungi da questa relazione volerne esaltare ogni aspetto.
Senza arrivare a valutazioni sulla funzione di controllo esercitata da strumenti quali i social network che ci porterebbero fuori strada, sappiamo bene che la stessa esperienza mediattivista di movimento dello scorso decennio è stata caratterizzata da moltissime contraddizioni e limiti. Ma senza dubbio portava con sé alcune caratteristiche da tenere in considerazione e preservare.
Uno dei principali compiti di cui dovrebbe dotarsi l’Area è esattamente la capacità di diffusione di un nuovo pensiero forte, di produzione di dibattito attorno a grandi temi, all’elaborazione teorica. Per farlo deve sperimentare anche in questo campo. E questo non vuol dire semplicemente applicare le vecchie forme comunicative su strumenti nuovi (es. Web 2.0), ma ripensare quelle forme stesse. Con la consapevolezza dei suoi limiti, sapendo che questi non possono essere il surrogato di un’organizzazione, ma strumenti necessari alla sua capacità propositiva.
Da questo punto di vista la priorità è evitare il proliferare poco utile di strumenti solo parzialmente efficaci e puntare alla nascita, attraverso step intermedi, di una rivista/sito che riesca ad essere punto di riferimento sul piano della produzione culturale, dell’elaborazione teorica, della discussione di fondo, anche attraverso contributi “esterni” che ne arricchiscano il contenuto. Ma dobbiamo aver chiaro che questo progetto non può essere delegato al lavoro straordinario di pochi compagni. Occorre costruire una redazione vera e propria che organizzi e si divida il lavoro, occorre individuare alcuni “blogger” che prendano l’impegno di gestire singole sezioni e pubblicare periodicamente articoli tematici.
 
3) Non ci rappresenta nessuno;
Lo slogan del movimento studentesco dell’Onda ben rappresenta non solo una difficoltà a ritrovarsi nelle parole d’ordine delle soggettività politiche classiche, ma anche nelle loro forme organizzative. 
Se come abbiamo scritto su Erre “ la rivendicazione e la pratica di una democrazia radicale, le assemblee interminabili degli indignados spagnoli, il rifiuto delle burocrazie, la voglia di sperimentarsi con forme atipiche di organizzazione sono forse il portato più importante e più ricco di potenzialità che attraversa una generazione e forse di più, che pone al centro una nuova pratica collettiva”, allora l’area anticapitalista deve provare a sperimentare forme atipiche che provino ad essere in sintonia con queste tendenze.
Sicuramente la cosa più immediata è dare centralità ai momenti assembleari, larghi, di discussione generale dell’area rispetto a quelli ristretti, di direzione. Ma se vogliamo evitare di incorrere nelle problematiche classiche della democrazia assembleare, dobbiamo aver ben chiaro anche i problemi che porta con sé: chi decide? Come? Qual’è la formula con cui si riconosce in modo condiviso l’adesione? L’informalità dell’assemblea risolve i problemi o ne pone di ulteriori (rispetto, ad esempio, alla formazione dei gruppi dirigenti). E’ chiaro che non possiamo (e nemmeno abbiamo l’esigenza di) avere la risposta a tutte queste domande. Però è necessario che iniziamo a porcele.
La forma classica di adesione, la tessera, mostra oggi tutti i propri limiti. Da una parte è percepita con diffidenza dal corpo largo degli attivisti sociali, anche laddove convinca il progetto politico proposto. Dall’altra non è scevro di problemi anche all’interno dell’organizzazione, dove consegna lo stesso peso a tutti, anche a chi si limita al suo semplice rinnovo, riducendo il peso decisionale di chi invece è impegnato tutti i giorni nella sua costruzione effettiva. Allo stesso tempo non è semplicissimo “misurare” la militanza. Perché questa è influenzata dai tempi e dalle condizioni di lavoro e di vita, oltre che da un ritmo che può essere determinatosoggettivamente solo fino ad un certo punto. L’area anticapitalista deve tener conto di questo problema e riuscire a trovare i meccanismi che da una parte valorizzano la militanza, dall’altra la rendono possibile. Perché l’altro problema essenziale è proprio l’impossibilità ad oggi di una militanza che possa darsi come totale, se non per ambiti davvero ristretti e che oramai non coincidono nemmeno più con il periodo di studi universitari.
Per quanto non sia possibile teorizzare una liberazione del tempo in modo compiuto all’interno di questa società, è possibile ragionare su meccanismi parziali e temporanei che permettano la coesistenza tra militanza e tempi di vita.
 
L’Area anticapitalista resta a nostro avviso non un modo per aggirare i problemi dell’oggi, ma esattamente il modo per affrontarli, soprattutto in merito alla costruzione di un soggetto politico utile alla trasformazione di questa società. Per questo lo riteniamo un progetto utile per tutta Sinistra Critica, che deve sapersi trasformare per non cadere nella logica del partitino con la sua linea definita da spendere nel confronto con altre identità simili, Il progetto di costruzione di un’area anticapitalista ha bisogno invece di strumenti diversi, nei quali le/i compagne/i di Sinistra Critica possono mettersi in gioco e portare esperienze, passioni, intelligenza.
Perché in questa fase una nuova soggettività politica può emergere solo attraverso la sperimentazione, e questa soggettività non può essere affidata alla semplice spontaneità delle dinamiche sociali, ma necessita della scelta consapevole e quindi della regia di un collettivo politico. Un collettivo politico che sappia coniugare l’apertura verso il nuovo alla ricchezza teorica del vecchio e che sappia trarne spunto senza sentirsene orfano. Il percorso è appena iniziato e c’è la consapevolezza che la sua articolazione non sarà per niente facile. Ma a guardare il teatrino degli “altri”, tra le solite promesse del Cavaliere – addirittura 4 i milioni di posti di lavoro promessi stavolta! – le stucchevoli metafore di Bersani e le improbabili ipotesi di maggioranza “tecnica” di Ingroia, viene immediato un sospiro di sollievo ed ogni passo, anche il più difficile, sembra davvero più leggero.
 
La storia del principio e della fine – Sub comandante Marcos
Non stancarti domandando quando finirà il tuo cammino. Lì, dove domani e ieri si uniscono, lì finirà… Mi è costato molto iniziare a camminare, sapevo che sarei scivolato nel fango più avanti, però, pur sapendolo, dovevo camminare verso questa caduta. Questa e le altre che seguiranno. Perché camminare è anche inciampare e cadere. E questo non me lo ha insegnato il Vecchio Antonio, me lo insegnò la montagna e, credetemi, l’esame non è stato per niente facile.

03 febbraio 2013

Oltre le elezioni, dentro la società

di Attac Italia
Una campagna elettorale disarmante, con una sostanziale accettazione di tutti i partiti dei vincoli liberisti europei e con una lista Ingroia che delude non solo per colpa "dei partiti cattivi". Fuori dai tempi elettorali vanno ricercate nuove forme di relazione tra partecipazione e rappresentanza.

E’ quasi disarmante prendere parola di fronte ad una campagna elettorale che, rimosso il terremoto sociale creato dalle politiche di austerità, viene giocata, ancora una volta e senza soluzione di continuità, sul risiko dei nomi e delle alleanze nel futuro scacchiere istituzionale. Nessuna riflessione sulla crisi verticale della democrazia rappresentativa, ma solo ossessivi appelli ad un voto, definito, di volta in volta, ‘utile’, ‘decisivo’, perfino ‘storico’. E altrettanti richiami, in ogni discorso, nelle candidature e perfino nei nomi dei partiti, ad una fantomatica società civile, la cui sola evocazione dovrebbe colmare la distanza che, ormai da decenni, separa il quadro politico-istituzionale dalla vita reale delle persone. E se una destra, ormai terremotata dalla fine del blocco sociale che l’ha sostenuta per un ventennio, si arrabatta come può – ovvero nel peggiore dei modi – per difendere posizioni ormai irrimediabilmente perse, lo scenario complessivo non sembra possedere neppure una lontana intuizione di come governare un Paese immerso nella crisi, i cui risvolti più drammatici sono purtroppo ancora in arrivo.
L’accettazione totale e senza condizioni dei vincoli liberisti dell’Unione Europea, la reiterazione di una lettura della crisi del debito direttamente trasposta dalle analisi delle lobbies finanziarie e bancarie, il mantra dell’austerità per dimostrare la credibilità del Paese davanti ai mercati, rendono praticamente inevitabile un governo di continuità con l’esecutivo precedente, e il balletto Monti-Bersani-Vendola solo un esercizio teatrale ad uso della campagna elettorale. E mentre il M5S si affaccia, portando con sé, assieme a qualche tentativo di innovazione, tutte le caratteristiche di un movimento prodotto dalla crisi (affidamento carismatico, propensione al tecnicismo e ambiguità di contenuti), la sinistra radicale mette in campo ancora una volta la coazione a ripetere schemi di rappresentanza che – aldilà del superamento o meno del fatidico quorum – non farà avanzare la strada verso una democrazia più reale e permeabile.
Il percorso di Rivoluzione Civile non può tuttavia essere semplicisticamente letto solo come un prevalere dei cattivi partiti sui buoni movimenti, come diversi esponenti si affannano ad accreditare. Il difetto stava anche nel manico (Alba e Cambiare si può), ovvero nell’idea che bastasse un manifesto e alcune dichiarazioni sulla democrazia dal basso per costruire un processo nel quale i movimenti reali – peraltro mai coinvolti – si sarebbero automaticamente riconosciuti, la società avrebbe aderito in massa e il futuro avrebbe preso un’altra direzione. L’approdo ad Ingroia, ovvero ancora una volta l’affidamento taumaturgico all’“uomo solo al comando”, è il risultato non di ingenuità, ma di un’analisi sbagliata sulla realtà e le dinamiche dei movimenti sociali, ciò che ha permesso ai professionisti dei partiti di giocare in casa e puntare tutto sull’auto-riproduzione di se stessi.
La distanza tra ciò che si muove nella sociètà e le forme attuali della rappresentanza persiste ormai da decenni ed è resa ancor più evidente allorquando la mobilitazione sociale riesce a irrompere nell’agenda politica del Paese. E’ successo, ad esempio, rispetto alla Tobin Tax. Presentata con 178.000 firme nel 2001, la legge d’iniziativa popolare, dopo essere stata sepolta nei cassetti delle commissioni parlamentari, è riuscita ad arrivare fino all’anticamera dell’aula parlamentare durante il Governo Prodi nel 2007, per poi tornare nell’oblio. Oggi torna alla ribalta come Financial Transaction Tax e si avvia finalmente all’approvazione in sede europea, attraverso la “cooperazione rafforzata” fra undici Paese della UE.
Ma il suo contenuto politico di controllo dei movimenti dei capitali finanziari, in Italia rischia di essere stravolto da una sua applicazione che prevede la quasi totale esclusione dei prodotti finanziari “derivati” e la destinazione del gettito alla riduzione del debito pubblico. Il secondo esempio, decisamente più eclatante, riguarda sia la legge d’iniziativa popolare per l’acqua bene comune e la ripubblicizzazione del servizio idrico, presentata con 406.000 firme nel 2007, sia il referendum popolare sullo stesso tema del giugno 2011, vinto con il voto della maggioranza assoluta del popolo italiano. Una legge dimenticata ed un esito referendario costantemente osteggiato a tutti i livelli istituzionali, in omaggio alle multinazionali e alle lobbies dei capitali finanziari.
Sono entrambi esempi di come i movimenti abbiano costruito consapevolezza e mobilitazione sociale, sino a modificare dal basso l’agenda politica e ad imporre temi di grande spessore per un’altra uscita dalla crisi e per il disegno di un altro modello sociale. Temi intorno ai quali la ricostruzione di una nuova permeabilità tra partecipazione dal basso e rappresentanza istituzionale può intraprendere un’inversione di rotta, eppure irrintracciabili nell’attuale dibattito politico-elettorale.
Se questa è la situazione del quadro politico, alcune brevi riflessioni non possono che riguardare anche il versante dei movimenti sociali. L’Italia continua ad essere un Paese tutt’altro che pacificato, percorso com’è da una vertenzialità aspra e diffusa, sia dentro il mondo del lavoro, sia, soprattutto, nel campo delle più diverse conflittualità ambientali, sociali e territoriali. Una rete di esperienze che, tuttavia, fatica a porsi il problema di una ricomposizione reale che superi la reciproca solidarietà astratta e sappia costruire obiettivi comuni, in direzione dei quali intraprendere un percorso collettivo di riappropriazione reale dello spazio pubblico della democrazia, a livello locale e nazionale. Si tratta di superare da una parte l’idea – tanto cara ai partiti tradizionali – di una società come espressione di esigenze che altri – sempre gli stessi – dovranno interpretare, portare a sintesi e rappresentare; dall’altra, una sorta di illusoria idea di autosufficienza dei movimenti stessi. Ma per far ciò, occorre che ogni realtà in mobilitazione sociale, oltre a perseguire i propri obiettivi specifici, concorra a definire i nessi che legano ciascuna vertenza a tutte le altre, attraverso campagne che, lungi dall’immaginare una “reductio ad unum” delle diverse e plurali esperienze, aiutino tutte le realtà a risalire la corrente: dal conflitto a valle alla riappropriazione delle decisioni a monte. Dopo aver rotto, attraverso il paradigma dei beni comuni, l’ideologia del privato è bello, occorre oggi scendere in campo per rompere l’accettazione fideistica dei vincoli posti dalle esigenze dei capitali finanziari e per riaprire a qualsiasi livello lo spazio pubblico della decisionalità collettiva.
Alcune realtà stanno provando a gettare il cuore oltre l’ostacolo: il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, con l’ultima assemblea nazionale svoltasi a Roma il 24-25 novembre scorsi e il percorso avviato dal Comitato per una nuova finanza pubblica, indicano nella riappropriazione sociale della finanza, del credito e della ricchezza sociale da una parte e di nuovi spazi per la democrazia partecipativa dall’altra, i temi su cui lanciare campagne comuni a tutte le soggettività in lotta e provare a costruire una coalizione tra le “autonomie sociali” in movimento.
Un percorso che, se ben intrapreso, potrà finalmente affrontare, con i tempi della crescita biologica e senza la fertilizzazione artificiale della finalità elettoralistica, la questione della costruzione di una democrazia reale e della relazione tra democrazia partecipativa e forme, tempi e vincoli della sua rappresentanza.
Un percorso cui Attac Italia intende dare, con umiltà ed intelligenza, il proprio contributo.
Ben oltre le elezioni, ancora più immersi nella società.

(Da "Il granello di sabbia" n. 1, febbraio 2013, mensile di Attac Italia)
http://www.italia.attac.org/granello_di_sabbia/granello_attac_nuova_fina...