26 giugno 2010

La fine della guerra è più lontana

di Enrico Piovesana
Affidando al generale David Petraus il comando del fronte di guerra afgano, il presidente Obama ha implicitamente accettato di rinviare l'inizio del ritiro dall'Afghanistan, da lui stesso fissato per il luglio del 2011.
Solo dieci giorni fa, infatti, 're David', come lo chiamano i suoi ammiratori, aveva dichiarato durante un'audizione al Congresso di non considerare vincolate quella data e che il ritiro dipenderà dalle condizioni sul terreno e potrebbe anche essere rinviato.
La nomina di Petraeus rappresenta una vittoria per i 'falchi' che male avevano digerito l'annuncio di una data per il ritiro. Esultano oggi i vertici del Pentagono, a partire da Robert Gates, e la destra tutta: dai democratici 'moderati' di Joe Lieberman, ai repubblicani del senatore John McCan (che ieri ha commentato la nomina di Petraeus criticando la ''data arbitraria'' fissata da Obama) ai sempre vivi 'neocons' (che da tempo corteggiano il generale con premi e inviti a candidarsi alla presidenza nel 2012).
Ne escono sconfitti, invece, i democratici progressisti del vicepresidente Joe Biden, che avevano accettato il 'surge' di Obama in Afghanistan proprio in cambio della fissazione di una data certa per l'inizio del ritiro e che ora temono l'impantanamento in una guerra che l'America sta perdendo, una guerra sempre più impopolare, una guerra che tra due anni potrebbe costare a Obama la riconferma alla Casa Bianca.

24/06/2010
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L'Italia spegne le luci per il soldato israeliano Shalit mentre 199 palestinesi hanno perso la vita per 'tortura politica'

Gaza – Pal-Info. Il Centro per la difesa dei prigionieri palestinesi ricorda: ‘Israele pratica sistematicamente la tortura contro detenuti e prigionieri palestinesi’. In occasione della Giornata Internazionale contro la Tortura, il 26 giugno, il Centro ha ripetuto al mondo che Israele è, ancora oggi, uno dei pochi paesi al mondo che pratica la tortura ‘in maniera sistematica’ in ognuna delle sue 25 prigioni e centri di detenzione.

Si fa beffa della legislazione sui diritti umani, prima fra tutte, la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (1984) e pratica una ‘tortura politica’. Si tratta di abusi e metodi che godono della copertura delle autorità di governo israeliane e che non risparmiano nessuno dei prigionieri palestinesi. Non solo si concede mano libera ma s’incoraggia la tortura per ‘vie legali’ atte all’inasprimento del trattamento dei prigionieri palestinesi.
La ‘Legge Shalit’ ha appena un mese di vita.
Torture fisiche e psicologiche. Punizione fisica, tortura e abusi psicologici, percosse fino a provocare svenimenti o per estorcere confessioni (che a volte si ottengono nonostante l’innocenza), isolamenti, privazione del sonno, divieto di incontrare un legale, di comunicare con i familiari, trasferimenti non resi noti, negazione dell’igiene e ad un’alimentazione dignitosa e sufficiente.
Esporre il prigioniero ad oscenità, insulti e abusi verbali, minacce rivolte ai familiari (di arrestare o di abusare dei familiari), di deportazione fuori dal paese, di demolire la sua abitazione, confinamento del prigioniero nella stanza dei collaboratori come potente metodo di pressione psicologica. Decine di metodi di tortura.
Da quando esiste una ‘questione palestinese’ esistono anche i prigionieri palestinesi’, punto sensibile e al centro della contesta politica. Oggetto per infuocare i Territori Palestinesi Occupati ogni qualvolta si intravede la possibilità reale di dialogo. Da sempre e da lungo tempo ormai, esistono informazioni, rapporti ufficiali e l’impegno di numerose organizzazioni per i diritti umani. Ad oggi i dati parlano di 80 metodi di tortura differenti; il 95% dei prigionieri palestinesi è stato sottoposto a queste pratiche. L’88% ha raccontato di essere stato costretto al metodo dello ‘Shabah’ (fantasma) che consiste nell’obbligare il prigioniero a stare per ore in posizioni dolorose (legati ad una sedia con la schiena piegata e gli arti legati, in piedi su vetri, o appesi al soffitto). È una posizione che causa ferimenti e perdita della coscienza. Il 70 % è stato messo in isolamento, in una cella di 50 cm x 50 cm a temperature anche sotto zero. 199 prigionieri palestinesi hanno ceduto alla tortura e sono morti, nel dato però, si contano anche chi è stato assassinato a sangue freddo in prigione.
Negligenza medica deliberata: una politica. Attualmente sono 1,600 i prigionieri palestinesi sofferenti e/o malati e che necessitano con urgenza di cure mediche. Nella maggioranza dei casi il loro stato di salute si è aggravato nelle prigioni israeliane, a seguito dei metodi di tortura a cui sono stati sottoposti o a causa della mancanza di visite e cure mediche. Sono frequenti gli scioperi della fame che i prigionieri palestinesi organizzano per ricevere adeguate cure ma Israele non ritiene umanamente (oltreché un diritto e un dovere) opportuno aprire le celle agli ispettori che dovrebbero indagare sulle morti. L’ultimo caso di morte di un detenuto palestinese risale solo pochi giorni fa.
La tortura non fa distinzione: uomini, donne, anziani, bambini, sofferenti e malati sono stati attraversati da storie di abusi e tortura e, le carceri israeliani, sono state vissute anche da detenute palestinesi in attesa di partorire. Qualcuna è stata costretta a farlo in prigione.
Appello del Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR). È forte l’appello lanciato questa volta dal PCHR perché è forte e radicata l’apprensione di tutto il popolo palestinese verso i connazionali reclusi. ‘Affinché siano liberati prigionieri e per compiere maggiori sforzi per i casi più gravi come quelli dei numerosi prigionieri sofferenti che si trovano nelle prigioni di Israele, perché il loro stato non si aggravi. Si rivolge a tutti il PCHR; funzionari palestinesi (in patria e in diaspora), arabi e internazionali perché lavorino alla loro liberazione, perché lo facciano in tutte le lingue del mondo, per porre fine alla disparità e all’ingiustizia che si consuma all’interno delle prigioni di Israele. Ai media il PCHR riconosce un importante ruolo; quello di raccontare lo stato dei prigionieri palestinesi e di svelare i crimini di guerra di Israele.

26/06/2010
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Afghanistan, la rivincita dei falchi


di Enrico Piovesana
Lo scorso dicembre Obama aveva annunciato l'inizio del ritiro dall'Afghanistan nel luglio 2011.
Ora però le cose sembrano cambiate.

''Sul ritiro non è stato deciso assolutamente nulla'', ha dichiarato domenica a Fox News il segretario alla Difesa, Robert Gates.
''Quella data si riferiva solo alle 30 mila truppe di rinforzo'', ha precisato il capo di gabinetto della Casa Bianca, Rahm Emmanuel, intervistato dalla Abc.
Il generale David Petreus, responsabile delle operazioni militari Usa, ha spiegato durante una recente audizione al Senato che sarà suo dovere ''raccomandare un rinvio del ritiro se lo riterrà necessario''.
Nella stessa occasione, il sottosegretario alla Difesa, Michelle Flournoy, ha aggiunto che tutto dipenderà dall'evoluzione della situazione sul terreno, la quale sarà valutata esclusivamente dal comandante delle forze sul campo, generale David McChrystal, in base a quante province saranno pronte per essere trasferite alle autorità afgane e alla capacità di combattimento raggiunta dalle forze militari afgane.
Un eventualità assai remota visti l'esito fallimentare dell'offensiva di Marja, i dubbi sull'operazione a Kandahar (continuamente rinviata e rimodulata al ribasso), l'esasperante lentezza con cui procede l'addestramento delle truppe afgane e la velocità con cui invece i talebani avanzano. ''La verità incontrovertibile è che i talebani stanno avanzando e che il conflitto è in metastasi'', ha dichiarato nei giorni scorsi il presidente della Commissione intelligence del Senato Usa, Diane Feinstein.

In vista del prolungamento della campagna militare afgana, il Pentagono deve però affrontare un problema non da poco: quello di vincere le crescenti perplessità dell'opinione pubblica e dei governi alleati sulla continuazione della guerra. Il 54 per cento degli americani è contrario al proseguimento della missione, il 70 per cento dei tedeschi chiede il ritiro, canadesi e olandesi se ne andranno entro la fine del prossimo anno, spagnoli e polacchi hanno annunciato di voler fare lo stesso, e anche i governi britannico e turco mostrano segnali di insofferenza.
Da qui l'esigenza di rafforzare la macchina della propaganda bellica, o, come dicono gli esperti di comunicazione militare Usa, di ''riprendere il controllo della narrativa della guerra''.
Durante il summit dei ministri della Difesa della Nato a Bruxelles, Gates si era detto ''insofferente'' su come i media coprono il conflitto afgano. Giovedì scorso l'addetto stampa del Pentagono, Geoff Morrel, si è lamentato di come la stampa americana e occidentale in generale stiano dando ''un'immagine negativa'' della missione afgana, fornendo resoconti che evidenziano le difficoltà ''mettendo in ombra'' i progressi. ''Non si può dire che le cose vanno male solo perché l'unità militare che il giornalista segue ha avuto una brutta giornata. Come non si può affermare che l'offensiva di Marjah è stata un fallimento, perché prima lì c'erano i talebani e ora ci siamo noi''.
Un primo assaggio di come il Pentagono vuole ricreare consenso ed entusiasmo attorno all'Afghanistan lo si è potuto avere con la campagna stampa sulla 'scoperta' di risorse minerarie afgane (in realtà note da decenni) che ''rischiano di cadere in mano ai cinesi se gli Stati Uniti e la Nato si ritireranno dall'Afghanistan''.

22/06/2010

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25 giugno 2010

25 giugno 2010: SCIOPERO GENERALE CGIL: il volantino distribuito in manifestazione

LE NOSTRE VITE VALGONO PIU' DEI LORO PROFITTI
Manovre, rapine e ricatti: si può resistere!


La rapina La manovra finanziaria del governo Berlusconi e della Confindustria (pienamente appoggiata dalla Lega Nord, che mostra così il vero volto di forza alleata del padronato contro i lavoratori) è un decreto di lacrime e sangue per tutti i lavoratori, che divide il settore privato da quello pubblico, per provocare ulteriori divisioni e "guerre tra poveri". La manovra blocca i salari dei lavoratori pubblici, aumenta l'età pensionabile per le donne, taglia selvaggiamente i trasferimenti per gli enti locali, colpisce i servizi di base come asili, sanità, assistenza, trasporti, oltre al massacro per la scuola pubblica. Ma il padronato è all'attacco anche sui beni comuni. La presidente di Confindustria Marcegaglia ha applaudito al decreto Ronchi che privatizza le gestioni dell'acqua, dei rifiuti e dei trasporti pubblici locali chiedendo regole di mercato e logiche industriali anche in questi settori, nonostante un milione di persone abbiano firmato i tre quesiti referendari per la ripubblicizzazione dell'acqua.
L'aggressione Con il collegato sul lavoro Governo e Confindustria sferrano un colpo mortale ai lavoratori del privato, prendendo di mira l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e l'art. 41 della Costituzione, secondo cui la libertà dell'iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, la sicurezza, la libertà, la dignità umana.
Il ricatto Il ricatto di Marchionne: per “concedere” un lavoro pone ai lavoratori di Pomigliano condizioni simili ad “una schiavitù senza catene”. Turni di lavoro mai introdotti prima in Italia, aumento della produttività, limitazione del salario, deroghe continue e gravissime al contratto nazionale e alla Costituzione con la limitazione del diritto di sciopero. Quanto chiede la Fiat a Pomigliano, i padroni lo chiederanno ben presto a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori. Il lavoro senza diritti diventerà la regola generale se non ci sarà una risposta generale e di massa.
Si può resistere Di fronte a questa terribile pressione la FIOM ed i lavoratori di Pomigliano sono riusciti a tenere viva una resistenza con quasi il 40% di No all'accordo-ricatto. Per quanto si tratti certamente di una sconfitta, non c'è stato il plebiscito che Fiat e Governo speravano. Si può resistre dunque, come hanno fatto i lavoratori di Pomigliano, di Termini Imerese, della Innse, i precari dell'Ispra, i cassaintegrati dell'Asinara, i precari della scuola e dell'università, gli operai della Maflow. Si può resistere come stanno facendo, qui a Verona, i lavoratori della BPW. PER DIFENDERE L'ELEMENTARE DIRITTO AL LAVORO E AD UN REDDITO DECENTE.
Per questo lo sciopero del 25 giungo è utile e importante. Ma è necessario lavorare anche per l' autorganizzazione e l'unità di tutte le lotte, per un protagonismo ed una partecipazione dal basso, per una effettiva radicalità ed efficacia. La FIOM ha proposto per il 1 luglio, a Pomigliano, un'assemblea di tutti i delegati del gruppo Fiat. E' un'iniziativa giusta che può essere ripetuta, per organizzare assemblee di delegati, di Rsu, di comitati in lotta in ogni città e poi a livello nazionale, fino ad un'assemblea unitaria che lanci UNA GRANDE MANIFESTAZIONA NAZIONALE.

Contro la crisi uniamo le lotte!

23 giugno 2010

25 giugno 2010: SCIOPERO GENERALE CGIL

A Verona manifestiamo a fianco dei lavoratori BPW
ore 9.00 Stazione Porta Nuova
:::::::::::::
>>>Aderisci e diffondi l'appello della RSU - Fiom

>>>Unisciti alla "mail bombing" contro BPW



La manovra finanziaria del governo Berlusconi (pineamente appoggiato dalla Lega Nord, che mostra così il vero volto di forza antipopolare) e della Confindustria è un decreto di lacrime e sangue per tutti i lavoratori, precari e a posto fisso, cassaintegrati o disoccupati, cotsruito e propagandato con lo scopo di dividere il settore privato da quello pubblico per provocare ulteriori divisioni e "guerre tra poveri". Il 40% di NO contro il riccatto della FIAT a Pomigliano, tiene però viva una resistenza che può rimettere al centro il protagonismo dei lavoratori. Un segnale importante ai padroni ed al governo che non dobbiamo lasciarci dividere, nè cedere ai ricatti: le nostre vite valgono più dei loro profitti!
A Verona, dove il mircolo economico del nordest si è definitivamente infranto, da mesi i lavoratori della BPW Italia, di Via Flavio Gioia, sono in presidio permanente, giorno e notte, per difendere il loro posto di lavoro. I padroni della multinazionale tedesca che produce assali per i camion, usando come scusa la crisi, hanno deciso di spostare in Ungheria la produzione. Vogliono cioè chiudere la fabbrica e rinunciare al progetto di espansione in un nuovo stabilimento, che fino ad inizio anno sembrava certo. La coseguenza è lasciare sul lastrico 120 famiglie di lavoratori. Sinistra Critica raccoglie l'appello dei lavoratori BPW a partecipare al loro spezzone il giorno dell scioper generale

APPELLO DELLA RSU
La RSU della BPW Italia a nome dei lavoratori della stessa, chiede ai compagni e alle compagne della sinistra politica e sociale, di partecipare allo sciopero del 25 giugno assieme ai lavoratori della BPW. Identificativo del gruppo sarà lo striscione "RSU BPW ITALIA". La RSU

"MAILBOMBING" CONTRO BPW::::invia il seguente testo a: info@bpw.de
Verona, L'Arena, il Garda sono tre perle che hanno un'anima: il lavoro. BPW non togliercelo!

http://rsubpwitalia.blogspot.com/



22 giugno 2010

I soldi per i CIE vengano usati per gli ammortizzatori sociali


Comunicato Stampa
Prosegue il poco edificante dibattito politico cittadino sull'ipotesi di costruzione di un CIE a Verona. Nel ribadire che tali centri di detenzione costituiscono una drammatica lesione dei diritti e della dignità dei migranti e sono indegni di un paese civile e di uno stato di diritto (detenzione amministrativa fino a 6 mesi, condizioni di costante e terribile sovraffolamento, soventi abusi da parte delle guardie o atti di autolesionismo), Sinistra Critica e Attac denunciano lo sperpero di denaro pubblico che tali istituzioni razziste costituiscono. Circa 60 euro al giorno per detenuto è la spesa he lo Stato deve sostenere, sotto forma di rimborso ai gestori privati di queste "prigioni etniche". Senza considerare le spese per polizia e carabinieri addetti alla sorveglianza. Si apprende che il CIE di Verona sarà uno dei più grandi d'Italia. Da chi sarà gestito? Qualche pia opera cattolica o qualche cooperativa rossa? Certo è che chiunque si apprestasse a gestirlo sarebbe complice di quel razzismo istituzionale portato avanti dal governo Berlusconi così come dal sindaco Tosi (non a caso condannato per propaganda razzista) che legittima, di fatto, la violenza xenofoba e lo sfruttamento selvaggio della forza lavoro migrante. Pensiamo che sarebbe certamente più degno e intelligente che il governo usasse queste risorse per estendere gli ammortizzatori sociali a tutti il lavoratori e a tutte le lavoratrici e per evitare la chiusura delle aziende in crisi. Anche perchè, molti lavoratori migranti, proprio per la perdita del posto di lavoro rischiano di finire rinchiusi nei CIE. Ricordando come tali centri di detenzione siano stati concepiti dalla legge Turco Napolitano, riteniamo ipocrita la presa di posizione espressa dal Partito Democratico che nelle amministrazioni locali, in diverse città (Parma o Padova, ad esempio) in nome della sicurezza, applica politiche repressive e razziste. Ed infatti, la contrarietà del PD si è espressa a partire dal "disagio che il CIE arrecherebbe ai cittadini", dai "problemi di sicurezzza", dalla svalutazione immobiliare che si registrerebbe nelle zone adiacenti, e non dal vulnus democratico che esso effettivamente costituisce. Sinistra Critica e Attac sono a fianco dei migranti e dei lavoratori per i diritti di cittadinanza, per la dignità el a tutela del lavoro e contro ogni razzismo.

Sinistra Critica - Attac

21 giugno 2010

Acqua: un milione di firme!


Un milione. Abbiamo raccolto un milione di firme e siamo nella storia di questo paese. Visti i dati che ci arrivano da tutta Italia possiamo dire con certezza che ieri è stata apposta la milionesima firma per i 3 referendum contro la mercificazione dell'acqua. Manca ancora un mese alla cosegna delle firme in Cassazione, e questo numero impressionante potrebbe diventare ancora più grande. L'obiettivo è oggi quello di portare almeno 25 milioni di italiani alle urne nella primavera 2011.
Con questo entusiasmo, con questa partecipazione, con questa voglia di bene comune ce la possiamo fare, tutti insieme.
Un milione di grazie ai tutti i cittadini che hanno firmato.
Si scrive acqua, si legge democrazia.

Roma Pride 2010: noi non ci saremo

Roma, negli ultimi mesi, sono accadute cose talmente sconcertanti e rilevanti in merito al Pride della Capitale del 2010 da indurre molte Associazioni, gruppi e singoli/e ad una riflessione comune, avvenuta nella sede del Circolo Mario Mieli in tre riunioni molto partecipate e ricche di diversità. Dopo un’ ampia analisi della situazione politica attuale del movimento lgbtiq e dei fatti di Roma, le Associazioni, i gruppi, i/le singoli/e che sottoscrivono questo documento hanno deciso di non aderire a Roma Pride del 2010, per ragioni sia di metodo sia di sostanza politica, che riassumiamo con poche righe non esaustive ma indispensabili. Il comitato che organizza e promuove il Roma Pride, costituito alla fine da sole quattro associazioni romane, ha effettuato una serie di operazioni, da aprile ad oggi, tali da impedire modalità di costruzione condivisa. Prima sono stati contestati i Pride precedenti e si è richiesta una nuova entità organizzatrice a ridosso dell’evento, invocando maggiore collegialità ma estromettendo dalla costruzione tutte le realtà non della Capitale, per la prima volta dal 1994. Poi si è perpetrata una messa in scena di falsa democrazia attraverso il passaggio di due brevi workshop di proposizione di idee sotto la guida di una psicoterapeuta, delegando poi le decisioni sostanziali a piccoli gruppi di lavoro scollegati fra loro. Successivamente si è spostata la data dell’evento dal 12 giugno al 3 luglio, incomprensibilmente verso un periodo più infelice per la partecipazione e contro una decisione assunta a febbraio durante un incontro nazionale di movimento a Napoli, questo mentre i gruppi di lavoro in teoria dovevano ancora decidere in raccordo fra loro. Analogamente l’ufficio stampa ha scelto e resi pubblici slogan, data e logo prima che si pensasse a quale dovesse essere l’essenza del documento politico da stilare, capovolgendo la logica di qualunque manifestazione esistente. E via discorrendo, con tante e tali “novità” di cui via via si prendeva atto senza alcun vero confronto politico. E potremmo continuare. Un Pride che si autoproclamava “di tutti” è diventato nei fatti di pochi, in particolare di sole quattro sigle. Si è perpetrata una involuzione sostanziale dei contenuti politici, a partire dallo slogan e dal comunicato stampa di annuncio della manifestazione: questo Pride trova la sua rivoluzione nei i baci e nell’affettività, cioè in quanto di più blando e generico esista, con la sconvolgente amnesia delle pietre miliari e quarantennali delle lotte di movimento lgbtiq, ovvero orgoglio, liberazione, visibilità, autodeterminazione, sessualità, lotta per i diritti, laicità etc. Si è compiuta inoltre una regressione culturale di cui forniamo solo alcuni degli innumerevoli esempi: la rinuncia alla politica costruendo un Pride che passa attraverso una psicoterapeuta; la perdita dell’uso del femminile nel linguaggio; l’irrilevanza della questione transessuale (persino nella esiguità impressionante di persone trans nel comitato), salvo talune richieste di specifici interventi normativi nella piattaforma rivendicativa più lunga della storia, talmente tecnica da sembrare una tesina da giovane avvocato lgbtiq; l’uso smodato del vittimismo; la ossessiva e plumbea richiesta di supporto di polizia e telecamere; la perdita del senso della storia e delle indubbie conquiste sociali e culturali ottenute dal movimento; l’idea che le Associazioni hanno fatto il loro tempo e devono fare passi indietro, salvo poi dirigere il tutto attraverso poche persone che nelle Associazioni ci stanno da decenni o ne hanno attraversate parecchie, e magari militano anche nei partiti; l’uso spregiudicato delle vicende di cronaca di transfobia e di omofobia, ignorando le prime e strumentalizzando le seconde come spot davanti ai media, magari appropriandosi anche di iniziative altrui (vedi la fiaccolata organizzata da We Have a Dream il 30 maggio scorso), rilasciando dichiarazioni alla stampa e appiccicando cartelli con il logo del “proprio” Pride sul petto di chi ha promosso, dietro alla sola bandiera rainbow, una manifestazione di solidarietà e di risposta agli episodi di violenza. E potremmo continuare. Si è sostanziata una marginalizzazione delle realtà lgbtiq di area culturale di sinistra e si è proposto un indistinto qualunquismo politico, basandosi su un progetto ipotetico di trasversalità che vuole andare a tutti i costi a scovare una sensibilità della destra italiana verso le tematiche gay, lesbiche e transessuali che nella realtà non esiste, se si escludono rare e in fondo doverose estemporaneità istituzionali o amministrative. Si è arrivati a preoccuparsi più della questione della necessità e volontà di cercare sponde a destra, anche in quella cosiddetta "estrema", che coinvolgere nel Pride i collettivi universitari e non, i centri sociali, le femministe, i partiti, i sindacati, le Associazioni che si occupano di diritti umani, le radio e le televisioni che aprono al territorio, i testimonial sensibili, migliaia di cittadine e cittadini comuni che nel Pride hanno visto negli ultimi anni un momento essenziale per stare insieme con consapevolezza e gioia, reagendo all’involuzione politica e sociale del nostro Paese. Ci si è naturalmente preoccupati di non dimenticare nel documento politico la parola antitotalitarismo, affinché la parola antifascismo non rimanesse sola ed inequivocabile.C‘è talmente più realismo del re, che ci si preoccupa di evitare qualunque possibile polemica con l’amministrazione di turno (comunque guarda caso di destra), risolvendo persino le questioni politiche con un semplice e docile “ci ripensi” rivolto al sindaco Alemanno, che si dichiara contrario ad una legge contro l’omofobia e la transfobia E potremmo continuare. Ma ci fermiamo nell’elencazione dei vari motivi che ci allontanano da questo Pride non perché non ve ne siano altri, ma in quanto riteniamo che quelli esposti siano già sufficienti per spiegare un atto così serio ed inedito da parte nostra. Ci sentiamo orfani/e quindi di un appuntamento vero, vitale, condiviso, ricco e coinvolgente quale è stato fino ad oggi il Pride romano, significativo per tutta la comunità lgbtiq italiana e per la città di Roma. Non riusciamo in nessun modo a riconoscerci in nulla di ciò che Di’Gay Project, Arcigay Roma, Gaylib Roma e Azionetrans, ovvero il Comitato del Roma Pride 2010, hanno realizzato a testa bassa sino ad ora, senza nemmeno un attimo di ripensamento. Quindi con dolore immenso non aderiamo al Pride, con la scelta condivisa che ogni Associazione firmataria, se vuole, possa trovare liberamente proprie modalità di presenza per i propri associati e prendiamo le distanze dall’atto di destrutturazione metodologica, politica e culturale che si è perpetrato ai danni di un appuntamento da sempre e da tutto il movimento italiano sentito e ritenuto importantissimo . Ci aspettavamo da parte del comitato un qualche momento di consapevolezza del crescente sfaldamento, soprattutto dopo le continue critiche piovute da ogni dove e dinanzi al progressivo rimanere da soli. Non c’è stato nulla, non si capisce se per incapacità politica e inesperienza, o per la precisa volontà di provocare una spaccatura nel movimento. Noi vogliamo invece ristabilire modalità serie di coesione e fiducia, ribadire contenuti e storia del movimento, rilanciare percorsi di costruzione politica. Bisogna riattivare un dibattito vero, ribadendo vigorosamente lo spirito di liberazione di Stonewall. Su questo solco è quindi indispensabile continuare il percorso sia di lotte per i diritti e tutele verso coppie e singoli/e lgbtiq, sia di battaglie più ampie per una società più libera, come quelle contro le politiche di repressione e strumentalizzazione sui corpi delle persone trans, di donne e di migranti, contro il pacchetto sicurezza (come non ricordare i Cie – Centri di espulsione), contro la privatizzazione dei servizi e dei beni comuni, e via discorrendo. La nostra mancata adesione è un atto di vera assunzione di responsabilità, l’unico possibile rimasto: non nel nostro nome tanta pochezza di contenuti, manifesta incapacità e tanta mistificazione, non nel nostro nome la ricerca di visibilità di pochi. Non ci sarà da parte nostra nessun atto se non questo: noi non ci saremo. E non andremo nemmeno a inizio parata a cercare solo le telecamere per comunicare urbi et orbi la nostra distanza, come ha fatto in passato chi si è ricordato di amare tanto il Pride solo quest’anno, che l’ha voluto organizzare a tutti i costi e a modo proprio. Andremo invece tutti ed tutte a Napoli il 26 giugno, a sostenere un Pride che condividiamo e sentiamo nostro, anche se la gioia di quel giorno non colmerà il senso di perdita umana e politica del Pride di Roma, stracciato e mortificato come un pannetto inutile in mano a pochi in totale smarrimento.
Antagonismo Gay Bologna
Associazione Culturale Gender
Associazione Libellula Trans
Associazione LLI – Lista Lesbica Italiana
Azione Gay e Lesbica Firenze
Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli
Circolo Pink Verona
Coordinamento Facciamo Breccia
CLR Coordinamento Lesbiche Romane
Coordinamento Trans Sylvia Rivera
Coq Madame
Corpolibero – Coordinamento lgbtiq di Rifondazione Comunista
Fuoricampo Lesbian Group Bologna
Gayroma.it
Il collettivo tilgbq "Sui Generis"
La Roboterie
Leather Club Roma
Le Ribellule
M.I.T. - Movimento Identità Transessuale
Open Mind Catania
REFO - Rete Evangelica Fede e Omosessualità
Subwoofer Bears

ADESIONI PERSONALI Alessandra Marinucci Diego Tolomelli Fausto PerozziMarcella Di Folco Massimo Marcasciano Nicole De Leo Laurella Arietti Valerie Taccarelli Massimo Vario Federica Pezzoli Paolo Violi Samuele Benedetti Ugo Malatacca Gianluca Manna Franco Salaris Manuel Savoia Mauro Cioffari
Per adesioni: noncisaremo2010@gmail.com

19 giugno 2010

Condanna per la scuola Diaz. Malabarba: il mandante non è stato assolto, si dimetta dai servizi


“Se una qualche sorpresa aveva destato la condanna degli uomini di De Gennaro per la mattanza della suola Diaz, ancor più sorprendente è oggi il verdetto di condanna per l’intoccabile ex capo della polizia. A modificare la sentenza di primo grado è stato sicuramente il risultato del lavoro dei PM che hanno portato alla recente condanna degli alti ufficiali presenti sul campo” commenta Gigi Malabarba di Sinistra Critica , già senatore e membro del Copaco.

“Dopo il primo grado c'erano state felicitazioni bipartisan per questa assoluzione, che rivela più di tante chiacchiere che, se la massima autorità di pubblica sicurezza organizza la falsa testimonianza dei suoi subalterni e più in generale prepara e dirige la catena di comando della repressione al G8 di Genova, fa una scelta giusta e apprezzabile, sia per il centrodestra che per il centrosinistra. Oggi mi aspetto che qualcuno, a sinistra, riveda il suo atteggiamento supino verso De Gennaro e che De Gennaro faccia la prima cosa giusta in questi ultimi dieci anni: si dimetta da capo dei servizi segreti".

“Lo Stato finora si è autoassolto nel plauso della politica istituzionale. Oggi onesti semplici magistrati abbandonati da tutti (anzi quasi messi sotto accusa per tentativo di lesa maestà) hanno iniziato ad incrinare lo strapotere del Negroponte italiano, all’ombra del quale si è consumata da anni una riorganizzazione autoritaria di tutti gli apparati di sicurezza del paese. Occorre che tutti coloro che si mobilitarono a Genova ritornino in campo per ottenere verità e giustizia anche per Bolzaneto e l'uccisione di Carlo Giuliani” conclude Malabarba

24-30 luglio 2010: 27° campeggio internazionale - Ecologista Femminista Rivoluzionario


Dal 24 al 30 luglio si terrà a Perugia il 27° campeggio giovani internazionale rivoluzionario, femminista ed ecologista organizzato dalla Quarta Internazionale e promosso in Italia da Sinistra Critica.
Nel momento in cui più pesantemente nel nostro paese si sentono gli effetti della crisi del capitalismo e delle politice neoliberiste del governo Berlusconi, questo campeggio in Italia assume un importanza particolare. Un'occasione concreta per discutere, confrontare lotte ed esperienze, per progettare campagne contro la crisi, la guerra, la precarietà, la privatizzazione dei beni comuni e dell'istruzione, così come sui temi di genere ed lgibt.
Un momento importante per chi è impegnato nei movimenti sociali e nei comitati territoriali, nelle scuole e nelle università e nella costruzione di una sinistra anticapitalista europea, senza se e senza ma, alternativa alle destre ma anche alla "sinistra" liberista.
Ospitare in Italia questo appuntamento si rivela un'occasione importante per tutt* quell* che non si arrendono alle derive autoritarie e razziste del governo Berlusconi, ai licenziamenti e alla mercificazione di ogni diritto e bene essenziale, non rinunciando mai a costruire nei e con i movimenti sociali un'alternativa di società, una rivoluzione.
Solidarietà internazionale, femminismo, ecologismo, giovani e movimenti sociali, strategie, migranti, scuola e università, marxismo, antifascismo, beni comuni, guerra, precarietà, lgibt, saranno i temi al centro dei sette giorni.
Un campeggio totalmente autogestito dai/lle partecipanti, per provare a dimostrare, anche se nel piccolo e per poco tempo, che un altro mondo oltre che necessario è possibile, e che sono possibili altri tipi di relazioni umane, di divertimento, di gestione degli spazi comuni. All'interno del campo è prevista la presenza di uno spazio femminista ed uno lgibt, che permetteranno l'approfondimento, il confronto e l'autorganizzazione di soggetti che vivono oppressioni specifiche, quella di genere e quella sessuale: due spazi per rimettere in discussione categorie imposte dalla società... e ancora workshop, forum, formazioni, meeting e feste tutte le sere, tra cui quella donne e quella lgibt.

Il costo del campeggio è di 135€ comprensivi di posto tenda e pasti. E' necessario portare con sè una tenda, una torcia, sacco a pelo, gavetta (o piatto e posate) per avere una sostenibilità ambientale del campeggio senza un utilizzo eccessivo di plastica.

Promuovono: Sinistra Critica, NPA (Francia), OKDE-Spartakos e Kokkino (Grecia), Associação Política Socialista Revolucionária (Portogallo), Sat Alleanza Rosso-Verde (Danimarca), Isquierda Anticapitalista (Spagna), Attac-Tunisia, JGS (Belgio), MPS-Solidaritè (Svizzera), Ungsocialisterna (Svezia), RSD (Germania), Rebel (Olanda), collettivi giovanili di Polonia e Lussemburgo.

16 giugno 2010

No al modello Pomigliano! Una proposta unitaria alla sinitra

Appello di Franco Turigliatto e Flavia D'Angeli, portavoce nazionali di Sinistra Critica
Un incontro della sinistra per contrastare l'accordo separato e costruire un'iniziativa la più unitaria possibile

La Fiat ha posto ai lavoratori e alle organizzazioni sindacali a Pomigliano un diktat brutale e un ricatto vergognoso: "o accettate le mie condizioni e vado in un altro paese". Ennesima dimostrazione di un'arroganza padronale ma anche la volontà di andare all'incasso dei rapporti di forza sociali oggi del tutto sfavorevoli ai lavoratori e alle lavoratrici. Pesa il fallimento recente della sinistra - scomparsa dal Parlamento anche per essersi alleata alla "borghesia buona" di Marchionne - pesa l'inadeguatezza della Cgil a fronteggiare un attacco di tale portata e pesano anni e anni di batoste subite dai lavoratori che ne hanno fiaccato capacità di resistenza e consapevolezza dei propri interessi.

L’attacco parte da Pomigliano, dove i lavoratori sono più in difficoltà per il lunghissimo periodo di cassa integrazione, ma il futuro prospettato agli operai campani è quello che vogliono imporre a tutti i lavoratori Fiat, anzi a tutti i lavoratori italiani.

Nello stesso tempo la manovra finanziaria di Berlusconi, Tremonti, Draghi e Marcegaglia, è un decreto di lacrime e sangue, costruito e propagandato con lo scopo di dividere i lavoratori del settore privato da quelli pubblici, cioè di impedire una risposta unitaria e massiccia del mondo del lavoro.

Sinistra critica sostiene la battaglia condotta in solitudine dalla Fiom - ma anche dal sindacalismo di base, da sempre in prima fila nel fronteggiare l'attacco Fiat - e ne appoggia sia l'indizione di sciopero generale di 8 ore per il 25 giugno sia la proposta di un'assemblea dei delegati Fiat da tenersi a Pomigliano.

Ma come sinistra politica occorre fare di più, dare un segnale di utilità sociale e di consapevolezza della partita in gioco. Per questo proponiamo a tutte le forze che si riconoscono in questa battaglia di dare un contributo a un movimento forte unitario e dal basso contro l'accordo, a difesa dei diritti e della dignità del lavoro, per cercare di organizzare una riposta adeguata a quel "modello Pomigliano" oggi voluto dalla Fiat e che rappresenta un modello molto pericoloso per i lavoratori e le lavoratrici di questo paese. A partire dall'organizzazione delle manifestazioni per il 25 giugno, da tenere anche a Pomigliano.
Roma, 16 giugno 2010

Con i lavoratori Fiat e con la FIOM!


Non accettiamo il ricatto di Marchionne che colpisce tutti i lavoratori italiani. Per contrastare questo attacco serve la più ampia mobilitazione, la più unitaria possibile. A cominciare dallo sciopero del 25 giugno.

La Fiat prosegue il suo piano nel ribadire la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese. Ai lavoratori siciliani, Marchionne non ha chiesto se hanno voglia di lavorare. Ai lavoratori di Pomigliano d'Arco ha posto un ricatto: nello stabilimento si produrrà la nuova Panda a condizione che

* si lavori su 18 turni, quindi la notte e il sabato
* la pausa mensa a fine turno
* riduzione delle pause e nuova metrica
* la pausa mensa e i giorni di riposo occupati da lavoro straordinario obbligatorio
* fiat può decidere di non pagare la carenza, i primi 3 giorni di malattia
* assoluto divieto di protestare e di scioperare, altrimenti c'è la minaccia del licenziamento

La condizione per avere un lavoro e un reddito, per la Fiat e Marchionne, è di tornare a essere dei servi che, con il cappello in mano si prostrano alle pretese del padrone. Già altre aziende iniziano a ricattare lavoratori e sindacati condizionando la possibilità di produrre, alla disdetta degli accordi sindacali aziendali per aumentare lo sfruttamento e per ridurre il salario. E' facile prevedere che quando a Mirafiori si porrà la questione di una produzione sufficiente per mantenere l'occupazione, la Fiat porrà lo stesso ricatto.

Sinistra Critica è a fianco dei lavoratori e delle lavoratrici di Termini Imerese e di Pomigliano d'Arco nella difficile lotta per difendere il posto di lavoro e condizioni dignitose. Sinistra Critica è a fianco della Fiom-Cgil e dei sindacati di base che hanno cercato di sottrarre i lavoratori di Pomigliano al ricatto della Fiat.

Sinistra Critica denuncia la propaganda mediatica che vuole colpevolizzare i lavoratori e la FiomCgil di eventuale non produzione in Italia della Nuova panda, nascondendo la condizioni del piano Fiat. I diritti sindacali democratici e il diritto costituzionali alla malattia e allo sciopero non possono essere sottoposti a referendum. Non sono diritti alienabili. Sinistra Critica sostiene lo sciopero indetto dalla Fiom e si impegnerà per far crescere la consapevolezza nei lavoratori, che il posto di lavoro non si difende accettando condizioni peggiori, ma con la mobilitazione e la lotta per il diritto al lavoro e a una vita dignitosa.

Servirà la più ampia mobilitazione di tutti i lavoratori per respingere l'aggressione alle condizioni di lavoro e ai salari, che parte dal ricatto di Pomigliano per essere esteso a tutti i salariati. Servirà l'unità di tutti i lavoratori e di tutte le organizzazioni sindacali, dalla Fiom ai sindacati di base, per contrastare il disegno del padronato. Mai come oggi si produce tanta ricchezza. Non c'è nessuna ragione per cui gli operai e le operaie, gli impiegati e le impiegate debbano vivere peggio.

Sinistra Critica

L'aborto non s'ha da fare


di Anna Pollice
Da Pollena Trocchia a Vico Equense e viceversa. Respinte da un ospedale all'altro perché nel primo il reparto è stato smantellato e nel secondo mancano gli anestesisti. L'odissea delle donne che devono abortire nel napoletano, costrette a spostarsi nelle strutture del capoluogo. E i consultori? Sono usati per la propaganda anti-abortista

C'è la crisi. Una frase buona per qualsiasi argomento. Questa volta è la motivazione per smantellare, piano piano e in silenzio, l'interruzione volontaria di gravidanza in Campania. A marzo sotto tiro era finito l'ospedale Apicella di Pollena Trocchia, nel napoletano, adesso tocca al De Luca e Rossano di Vico Equense. Entrambi i nosocomi rientrano nell'ambito dell'Asl Napoli 3 Sud, un territorio che va da Pomigliano d'Arco a Sorrento, con un bacino di utenza di 600mila abitanti, più le migranti ufficialmente non censite.
Per Pollena i motivi urgenti per bloccare gli interventi di ivg (tentativo poi fallito) erano dettati dalla ristrutturazione delle sale a favore di specializzazioni più remunerative e alla moda, con il parroco don Giuseppe Cozzolino a lanciare l'anatema dal pulpito: «Blocchiamo l'ospedale, luogo di morte» l'ordine, pronto a chiudere la chiesa se non eseguito dai fedeli. La platea femminile doveva finire proprio a Vico, dove però dopo soli due mesi le prestazioni sono andate in crisi per carenza di anestesisti. «È l'ennesimo servizio che viene interrotto e di questo passo arriveremo alla chiusura delle strutture» spiegano i sindacati. Poco rassicuranti anche le dichiarazioni di Ernesto Esposito, neo commissario straordinario dell'Asl di riferimento: «Entro il 31 dicembre prossimo dovremo ridurre di 27 milioni di euro il disavanzo registrato nel 2009. Sia le azioni strutturali che ogni altro possibile percorso non potranno contare su risorse aggiuntive». Carenza cronica di personale, imminente scadenza di contratti a termine per infermieri e medici, in particolare anestesisti, blocco delle assunzioni si traducono nello stop agli aborti, mettendo in crisi un diritto sancito per legge.
Così le donne, per ora, come nel gioco dell'oca vengono rimandate a Pollena, che però riesce ad effettuare 120 interventi all'anno con due anestesisti provenienti da Nola che si alternano. Vico, viceversa, ne eseguiva 270 in dodici mesi. «Ci hanno spostato al terzo piano dell'ospedale Apicella - spiega il dottor Giacomo Di Fiore - ma è chiaro che è una sistemazione provvisoria in attesa della ristrutturazione del sistema sanitario campano. Naturalmente la cosa più intelligente da fare sarebbe accorpare le strutture di Pollena, Vico e Torre del Greco». Accorpare ma anche istituire il Centro unico di prenotazione, ribatte il Comitato legge 194, perché anche accedere al servizio sta diventando una corsa a ostacoli.
Ma dove vanno le donne dell'Asl Napoli 3 Sud che vogliono abortire? Non a Sorrento, né a Boscotrecase né a Castellammare di Stabia, dove pure continuano ad arrivare gli incentivi economici ai medici per effettuare un servizio che nei fatti non eseguono. La maggior parte si riversa su Napoli, a cominciare dal Cardarelli, il più grande presidio ospedaliero del Mezzogiorno. Circa novecento ivg in un anno, tempo di attesa dai due ai cinque giorni e spazio per tutte, italiane e migranti, due assistenti sanitarie a gestire le prenotazioni. Un reparto efficiente che, però, la ristrutturazione economica in atto dettata dalla regione Campania, lacrime e sangue, sta già mettendo in crisi, di fatto scaricando sul personale un buco di bilancio provocato, in massima parte, dalle convenzioni con le cliniche private.
Prime crepe al Cardarelli a fronte di una situazione già grave al vicino Secondo Policlinico. La mancanza di turn-over ha avuto come primo effetto la cessazione delle prenotazioni: a telefono non risponde più nessuno così le donne si mettono in marcia all'alba, arrivano tra le quattro e le cinque di mattina, aspettano in una stanza chiusa con una porta di ferro a grate, come in una gabbia, per essere sicure di essere le fortunate quattro messe in lista. Quattro al giorno e basta, con la logica conseguenza che se si fa tardi bisognerà rimettersi in marcia un altro giorno. L'intervento poi verrà fissato in base allo stato di avanzamento della gravidanza, così la prassi è che i tempi di attesa sono sempre lunghissimi, come in un qualsiasi ambulatorio specialistico.
La cose andavano meglio al Primo Policlinico, in pieno centro storico, ma la struttura è a rischio chiusura con dislocamento del servizio in altre sedi, e all'ospedale San Paolo di Fuorigrotta, con oltre mille ivg effettuate in un anno e tempi di attesa di circa 2 settimane. Solo poco più avanti lungo l'area flegrea, a Pozzuoli, la situazione diventa critica ancora. Al Santa Maria delle Grazie, una media di 220 interventi in dodici mesi, da novembre si rischia continuamente la paralisi: il personale è scarso e demotivato così crescono le fila dei medici obiettori. In molti raccontano che in ospedale girano strani mediatori che accompagnano dieci, venti donne migranti alla volta per sottoporsi a ivg, in un ospedale certo ma c'è da scommetterci che per loro la mediazione non sarà stata gratuita.
A presidiare il territorio ci dovrebbero essere i consultori, centoventi in Campania, venti nella sola Napoli. Centri a cui rivolgersi per informazioni e, eventualmente, anche per prenotare l'intervento ma molti usano lo sportello per la propaganda anti-aborti, altri non hanno un ospedale di riferimento a cui indirizzare le donne così capita che una arrivi da Sessa Aurunca, nel casertano, a Napoli per prenotarsi in ospedale e da qui venga rimandata a casa presso l'ospedale San Rocco dove fanno sessanta interruzioni all'anno e praticamente non hanno code da smaltire.
il manifesto 15/06/2010

Cuba, l'ora più critica. Conciliare la rivoluzione con i cambi necessari


di Roberto Livi
L'isola importa l'80% degli alimenti che consuma. Una spesa impossibile. Ferve, come mostrano le pagine del Granma, il dibattito interno su come rendere sostenibile il vecchio modello ugualitario fidelista con le riforme strutturali che inevitabilmente creano disparità sociali, di genere e di razza

Sostituzione delle importazioni, diversificazione e maggiore efficienza della produzione, maggiore agilità nel sistema di commercializzazione e lotta alla burocrazia per «risolvere le necessità crescenti della popolazione». Nel corso del X congresso dell'Associazione nazionale dei piccoli agricoltori (Anap, 362.400 agricoltori privati e membri delle 3.635 cooperative: controllano il 41% della terra arabile, però assicurano il 70% della produzione agricola dell'isola) a metà maggio, gli interventi hanno ripetuto questi refrain. Alla sessione plenaria era presente anche il presidente Raúl. La questione della produzione agricola e più in generale alimentaria è considerata «materia di sicurezza nazionale», visto che Cuba importa quasi l'80% di quello che consuma, impegnando in tali acquisti quasi un 1.5 miliardi di euro. Una «bolletta» che, data la forte crisi di liquidità, diventa quasi insostenibile per il governo.
Il nodo che Cuba deve affrontare oggi è questo: assicurare la sostenibilità economica del socialismo, anche - e soprattutto, almeno così sembra esprimersi la maggioranza dei cubani - mediante cambiamenti strutturali. La crisi economica, infatti, rischia di mettere in pericolo le conquiste sociali (dunque politiche) della rivoluzione.
Il dibattito in corso è strategico e investe le fondamenta del modello socialista cubano come lo ha disegnato Fidel, soprattutto la questione della proprietà dei mezzi di produzione e distribuzione. Egualitarismo, Stato proprietario e gestore (al 95%), come pure la doppia moneta (guadagni in pesos, spese in valuta, Cuc) sono al centro di un dibattito interno al partito comunista ma che si riflette nella società (come si vede dalle lettere pubblicate il venerdì nel quotidiano del Pc, Granma). Lo stesso Raúl si era espresso in favore di cambiamenti. Ma le resistenze interne devono essere forti: nella sessione dell'Assemblea nazionale del potere popolare lo scorso dicembre il presidente ha avvertito che nella riforma del modello economico cubano «non si possono correre i rischi dell'improvvisazione e della fretta». Anche la decisione di rimandare la convocazione del VI congresso del Pc (previsto per l'inizio 2009) è un segnale che le riforme economiche e strutturali non sono ancora all'ordine del giorno.
Non per questo, però, la crisi congela le sue conseguenze pericolose. In un intervento organizzato qualche settimana fa dal «Gruppo di riflessione e solidarietà Oscar Romero», Mayda Espina, del Centro di ricerche psicologiche e sociologiche (Cips), ha tracciato un quadro per molti versi preoccupante di tali effetti.
Nella seconda metà degli anni '80 del '900, quando si vedevano i risultati della politica di Fidel volta a promuovere l'egualitarismo come una delle basi (insieme a un forte nazionalismo e al socialismo) del cosiddetto «fidelismo», la maggioranza della popolazione disponeva di poco denaro (lo stipendio medio era di 72 pesos, al cambio attuale circa 3 euro) ma godeva di una forte «copertura sociale», ovvero le «gratuità di massa»: cibo praticamente a costo zero (libreta e comedores obreros), scuola e sanità gratuiti, vacanze nel campismo popular, premi per feste e ricorrenze. In termini occidentali, i cubani vivevano in una dignitosa povertà materiale, ma in una società fortemente egualitaria (e politicamente motivata). L'indice Gini (che esprime il grado di diseguaglianza e quindi quanto più è basso è migliore), era del 0.24, il più basso e di molto dell'America latina; la povertà urbana al 6.3%; la forbice sociale minima: i più «ricchi» guadagnavano 4.5 volte il salario minimo.
Nel '99, l'indice della povertà urbana (che in sostanza segnala l'insufficiente rapporto tra i livelli di necessità di vita e il reddito), secondo fonti ufficiali marcava già un impressionante aumento (al 20%), e pur non disponendo di dati ufficiali i ricercatori ritengono che oggi sia ancora più alto: uno su 4 si ritiene povero. Anche perché il sostegno dello Stato è diminuito (la libreta assicura le necessità alimentari al massimo per un paio di settimane al mese, i comedores obreros - mense aziendali - stanno chiudendo, sostituite da un ticket di circa 14 pesos, più o meno 50 centesimi di euro, rispetto a uno stipendio medio di 400 pesos circa.
Questa situazione ha comportato - in un processo che ormai si auto-alimenta - cambiamenti nella situazione sociale cubana. Con la moltiplicazione delle forme di proprietà (cooperative e private) è avvenuta una ricomposizione della piccola borghesia, una segmentazione dell'accesso al consumo (indice Gini allo 0.38 nel 2002), sono riemerse situazioni povertà e marginalità urbana assieme alla «moltiplicazione delle strategie famigliari» per aumentare i redditi o addirittura per assicurarsi la sopravvivenza e, soprattutto, un aumento in quella che viene definita la «frattura» tra generi, territorio e settori razziali. Ovvero un progressivo impoverimento delle donne, di coloro che vivono fuori città e della popolazione nera. Nella condizione di povertà urbana sono le famiglie numerose e quelle mono-parentali (la maggioranza sostenute da donne senza qualifica o senza lavoro stabile), anziani soli, ma anche i lavoratori di settori statali tradizionali con bassi salari. Dunque, nella categoria dei poveri urbani sono in aumento gli operai e sono super-rappresentati i neri e le donne.
Questa situazione di deterioramento economico provoca un aumento dell'abbandono scolare e dell'utilizzazione di minori per la produzione di reddito e produce i meccanismi di «riproduzione generazionale degli svantaggi» (operai, lavoratori con bassi salari, donne e neri, giovani). Dunque si accelera una dinamica di divisioni per classi, generi e colore di pelle, che era il nemico principale del «fidelismo».
In sostanza, la crisi produce una dinamica sociale con gli stessi meccanismi che in Italia o in Occidente, ma che si sommano a specificità cubane (economia poco sviluppata, società con canoni patriarcali, differenziazioni razziali ereditate dal passato e ovviamente ancora irrisolte).
La ricetta per affrontare questa situazione però è ben differente da quelle berlusconiana, visto che il governo punta a razionalizzare la politica di copertura sociale mantenendo però le conquiste della rivoluzione, sanità e scuola gratuite, forte assistenza anche se più selettiva. In particolare con interventi sul territorio invece che a pioggia («gratuità di massa»), con la possibilità dunque di selezionare chi più necessità di sostegno statale e in generale accoppiando l'assistenza con forme di autorganizzazione (economiche e sociali). Oltre che intervenire nella sovrastruttura con pratiche di «destrutturazione del modello maschile cubano (machismo)», aiuto alle donne (flessibilità orario di lavoro), ecc.
Tutte misure che richiedono una sostenibilità economica. E dunque riforme che hanno un forte componente politica. Coloro che scrivono al Granma per insistere sulla creazione di cooperative nel commercio, nei servizi e nel settore della gastronomia, o per proporre che si allarghi la possibilità di lavoro privato in settori come caffetterie, pizzerie, oltre che in vari mestieri, idraulico, meccanico, muratore, ecc. «non stanno affrontando un tema che riguarda gli effetti dell'embargo Usa, le conseguenze del periodo speciale o la mancanza di risorse economiche», afferma Orlando Freire Santana, nell'ultimo numero della rivista Palabra Nueva edita dall'arcivescovado dell'Avana. «Queste opinioni e interventi - continua - anche senza rendersene conto, riflettono sulle cause della cosidetta Offensiva rivoluzionaria che nel 1968 mise fine alle piccole attività private che sussistevano a Cuba».
Il dibattito è fortemente politicizzato, contraddicendo chi afferma che a Cuba trionfano repressione e totale mancanza di parola politica (e di società civile). Nelle opinioni che appaiono sulla stampa (di partito e governo), per usare le parole del cardinale Ortega, «molti parlano di socialismo e dei suoi limiti, alcuni propongono un socialismo riformato, altri si riferiscono a cambi concreti che devono essere attuati, a mettere in cantina il vecchio stato burocratico di tipo stalinista, altri parlano dell'indolenza dei lavoratori, della scarsa produttività ... Ma tutti hanno un denominatore comune che si facciano, e presto, i cambiamenti necessari» per rimediare all'attuale situazione di crisi. E, insiste il cardinale, vi è «un consenso nazionale», sul fatto che questi cambiamenti devono essere decisi a Cuba, tra cubani, non con le «campagne destabilizzanti» che partono, usando strumentalmente la questione dei diritti umani, da Usa, Spagna e altri paesi europei.

il manifesto 11/06/2010

12 giugno 2010

Cuba, guerra alla droga: i dubbi dell'Havana su Washington

di Alessandro Grandi
Il Lider Maximo punta il dito contro Obama e chiede quali siano i risultati della lotta alla droga statunitense

Il vecchio leone Fidel Castro che ha combattuto non solo per la liberazione del suo popolo dal tiranno ma anche per la libertà dell'intero continente americano, ruggisce ancora nonostante il ruolo nel branco non sia più lo stesso di qualche anno fa. E non perde occasione per mettere davanti al fatto compiuto, spesso un fatto che va contro il buonsenso o la convivenza civile fra popoli, il numero uno dell'amministrazione americana, Barack Obama.
Questa volta il nodo della questione si chiama droga. Non importa se si tratti di cocaina, oppio, marijuana o eroina. La cosa importante è, secondo Castro, la responsabilità statunitense, e perché no anche quella britannica, dell'invasione delle droghe nel continente americano.
Fiumi di polvere bianca ricavati dalla pianta della coca per mezzo di processi chimici che rendono la sostanza molto dannosa per il fisico e la mente dell'uomo, hanno invaso tutti i paesi del continente. E hanno dilaniato le vite di intere generazioni di giovani. Che fare dunque se non una vera e propria guerra alla droga? Castro non ha dubbi: "Bisogna chiedere alla grande potenza (gli Usa) che ha quasi mille basi militari e sette flotte navali scortate da portaerei nucleari, oltre a centinaia di aerei da combattimento, mezzi con i quali tiene il mondo sotto una sorta di tirannia, che ci spieghi come farà a risolvere il problema della droga".
E se è vero che solo le forze cubane sono state in grado di intercettare 44 imbarcazioni di grandi dimensioni cariche di droga e almeno 4 aerei, ci si chiede come le forze messe in campo da Washington negli ultimi anni non siano state in grado di produrre un risultato soddisfacente nell'annosa battaglia contro il narcotraffico.
Nel frattempo, l'isola snocciola con orgoglio e soddisfazioni cifre che farebbero invidia ai più importanti stati del pianeta, in primis gli Usa. Dal 2008, infatti, la polizia di Castro ha sequestrato 1800 chili di sostanze stupefacenti. Cuba non produce cocaina. Forse qualche pianta di marijuana. Tutte le droghe presenti sull'isola arrivano da fuori. L'area marittima (ma anche lo spazio aereo) nei pressi dell'isola caraibica sono però da sempre usati come zona di passaggio delle sostanze stupefacenti. Spesso accade, però, che i trafficanti siano costretti ad abbandonare in mare alcuni carichi di droga. Altre volte li abbandonano apposta, ben chiusi per evitare alla sostanza di essere bagnata dall'acqua, nell'attesa che qualche compare li vada a recuperare. Tante volte però arrivano prima le forze di sicurezza. Questa tempestività ha consentito alle forze cubane di sequestrare nel 2007 ben 2.127 kg di sostanze stupefacenti e nel 2008 1.01 kg. Droga che probabilmente sarebbe stata destinata al mercato Usa che tutti i gironi vede la "nascita" di almeno 5 mila nuovi cocainomani.
Non solo. L'ex presidente cubano racconta che l'oppio, per molto tempo, fu usato dai sudditi di sua maestà come moneta per pagare le pregiate merci che arrivavano dalla Cina. Con conseguenze inimmaginabili e danni incalcolabili per la popolazione.
Ovvia, poi, l'arringa difensiva finale nei confronti delle tradizioni che hanno fatto grande il continente. Castro infatti, ha chiesto che sia difeso il diritto dei boliviani, ad esempio, a continuare la coltivazione della pianta della coca, usata da migliaia di anni dalle popolazioni andine.
www.peacereporter.net

Gaza, Egitto blocca nave algerina con aiuti

Gaza, 12 giugno 2010, Nena News – L’Egitto continua a collaborare attivamente al blocco della Striscia di Gaza attuato da Israele negli ultimi tre anni.
Il quotidiano di Algeri «al Khabar» riferisce che le autorità del Cairo hanno impedito l’ingresso nelle acque territoriali di Gaza ad una nave algerina con a bordo sette tonnellate di medicine e due di latte in polvere, nonostante un accordo raggiunto tra il ministero degli esteri algerino e il governo egiziano. La nave ha quindi fatto rotta verso il porto egiziano di al-Arish. A bordo ci sono alcuni deputati, pacifisti e uomini d’affari.
Il dittatore egiziano Hosni Mubarak dopo l’uccisione di nove attivisti turchi della Freedom Flotilla da parte dei soldati israeliani lo scorso 31 maggio ha annunciato l’apertura a tempo indeterminato del valico di Rafah, tra Gaza ed Egitto. Il Cairo però continua ad ostacolare i convogli diretti a Gaza e impedisce l’ingresso nella Striscia delle merci vietate da Israele, in particolare il cemento e i materiali per l’edilizia.
Intanto le proteste internazionali, seguite all’uccisione dei nove attivisti turchi, non hanno avuto alcun effetto concreto su Israele che continua ad attuare un blocco rigidissimo nei confronti di Gaza. L’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi, ha comunicato che lo Stato ebraico ha concesso l’ingresso nella Striscia solo al 17 per cento del materiale necessario per completare due progetti edilizi – 151 appartamenti per sfollati a Khan Yunis – finanziati dalle Nazioni Unite. Per le costruzioni ha riferito l’Unrwa è stato autorizzato l’arrivo soltanto a 722 tonnellate di ghiaia e a 29 tonnellate di cemento. Riguardo la ricostruzione dell’ospedale al Quds, bombardato dalle forze armate israeliane durante l’offensiva «Piombo fuso» (dic 2008-gennaio 2009), Tel Aviv ha consentito l’ingresso soltanto di 20 tonnellate di cemento e quattro di acciaio. L’Onu ha precisato che da aprile in poi Israele ha consentito l’ingresso limitato di merci prima vietate: legname, alluminio, vestiti e scarpe.(red)
Nena News.

«Sospetti terroristi usati come cavie»


di C.Magliulo
Il rapporto di Physicians for human rights Medici e psicologi statunitensi al servizio della Cia hanno partecipato alle sevizie ma anche a un programma di ricerca sulla resistenza allo stress e al dolore. L'inchiesta della prestigiosa ong mette in luce gli aspetti più brutali delle politiche di Bush e lancia un appello al Nobel Obama: sospendere ogni esperimento che coinvolga esseri umani

Medici e psicologi statunitensi, su mandato della Cia, hanno partecipato alle torture sui prigionieri della «guerra al terrore» detenuti a Guantanamo e in Iraq e Afghanistan. Il loro lavoro era di assistere a quelli che con un eufemismo orwelliano l'amministrazione Bush aveva definito «interrogatori rafforzati», analizzare le reazioni dei detenuti e formulare indicazioni su come rendere più efficaci le tecniche utilizzate. Tra queste il famigerato «waterboarding» (affogamento simulato) e la privazione del sonno, con l'eventuale combinazione di più tecniche per valutarne l'utilità.
Lo denuncia un rapporto pubblicato ieri da «Physicians for human rights» (Phr), ong americana composta da medici, che da anni monitora le attività dell'esercito e dei servizi segreti americani, denunciandone le violazioni del diritto internazionale e della stessa Costituzione degli Stati Uniti. Gli attivisti, basandosi su documenti riservati dell'Ufficio legale del Dipartimento di giustizia e sul resoconto di una commissione del Senato americano, chiariscono che «la presenza e complicità dei medici in pratiche di interrogatorio intenzionalmente dannose serviva non solo a consentire la routine delle pratiche di tortura, ma anche a fungere da potenziale difesa legale contro la responsabilità penale per la tortura».
In pratica i medici sono stati la foglia di fico dietro la quale nascondere le atrocità più volte raccontate di Guantanamo e Abu Ghraib, e hanno anche partecipato attivamente ad un programma di ricerca sulla resistenza allo stress e al dolore, condotto sulla pelle di esseri umani non consenzienti, trattati «come porcellini d'India». Cosa che nel diritto internazionale è qualificata né più e né meno come crimine di guerra e contro l'umanità. Nessuna autorizzazione ufficiale è stata mai richiesta per portare avanti il programma, né è stato mai chiesto il consenso informato dei partecipanti agli esperimenti. Erano prigionieri della «guerra al terrore», l'ultimo anello della catena dei diritti umani.
E infatti gli psicologi del «Behavioral science consultation team» (Bsct), inquadrati nei ranghi dell'esercito americano, rivendicano con orgoglio e patriottismo il loro contributo alla strategia anti-terrorismo degli Stati Uniti. Il colonnello James, responsabile del Bsct a Guantanamo, ha dichiarato: «È grandioso essere in prima linea nella battaglia per difendere il terrorismo. Questi ragazzi (i soldati, ndr) si impegnano ben oltre il loro dovere nell'assicurare che i detenuti siano trattati umanamente in ogni momento». Un discreto attaccamento alla «causa» che ha costretto l'Associazione degli psicologi americani a emettere un comunicato in cui stigmatizza l'utilizzo di psicologi in contesti equiparabili alla tortura, e vieta ai suoi iscritti di «pianificare, progettare e partecipare all'uso di tortura e di ogni forma crudele, degradante e inumana di trattamento o punizione».
Il contesto in cui l'amministrazione Bush ha consentito, incoraggiato e organizzato queste pratiche di «ricerca», è lo stesso in cui si inquadra la forte limitazione dei diritti civili dei cittadini americani (con il famigerato Patriot Act) e la crescita di un apparato militare-spionistico biopoliticamente teso a controllare la vita del maggior numero di persone in America e altrove. Un'era che si ritiene conclusa con l'elezione di Barack Obama alla Casa Bianca.
E il presidente viene chiamato direttamente in causa dal rapporto di «Physicians for Human Rights», che chiede al governo di sospendere immediatamente ogni progetto segreto di ricerca che coinvolga esseri umani. Ugualmente i medici della ong chiedono che il Congresso americano, l'Onu e il Dipartimento di giustizia indaghino approfonditamente sulla questione, verificando le violazioni ai diritti umani sanciti dalla Convenzione di Ginevra e dalla stessa Costituzione americana. «L'unica domanda ancora senza risposta - ha dichiarato Nathaniel Raymond, responsabile della Campagna contro la tortura di Phr - è se questi medici ed alti ufficiali coinvolti nelle torture saranno chiamati a rispondere per i loro crimini contro la coscienza, la Costituzione e contro i nostri valori».
il manifesto 09/06/2010

Missili e radar, lo Scudo trasloca nel Golfo persico

di M. Dinucci
«La nuova architettura anti-missile risponde in modo più appropriato all'odierna minaccia proveniente dall'Iran», aveva detto il Segretario alla Difesa, Robert Gates, spiegando la svolta di Barack Obama rispetto alla strategia del suo predecessore George Bush che, per lo scudo contro i missili balistici, aveva puntato su Polonia e Repubblica Ceca provocando l'irritazione di Mosca. L'amministrazione Obama vuole invece rafforzare militarmente i paesi arabi del Golfo, in vista di un raid (israeliano o israelo-americano) contro le centrali atomiche iraniane ancora più vicino dopo le nuove sanzioni varate contro Tehran.
La Casa Bianca intende perciò creare nel Golfo una barriera antimissile in grado di «contenere» la reazione di Tehran. In questa ottica si legge la vendita approvata dalla Casa Bianca del gioiello di famiglia, ossia del sistema anti-missile Thaad (Lockheed Martin) agli Emirati arabi uniti che verseranno nelle casse statunitensi 7 miliardi di dollari. La Defense Security Cooperation Agency ha precisato gli Eau compreranno 147 missili Thaad in grado intercettare e abbattersi sugli «ordigni balistici nemici», oltre a quattro radar, sei centri di controllo, unità di comunicazione e rampe di lancio. Ma la «difesa» degli Emirati e degli altri paesi alleati nel Golfo alla quale stanno lavorando gli Stati Uniti prevede l'impiego in quella regione anche dell'unità radar a lunghissimo raggio An/Tpy-2 (Raytheon) in grado di individuare e seguire i missili «nemici» subito dopo il lancio. Il super radar nel Golfo peraltro opererà in coordinamento con quello americano in funzione già dal 2008 nella base aerea di Nevatim, in Israele, uno dei segmenti strategici dello scudo anti-missile perché consente di raddoppiare e anche triplicare il raggio di azione con cui Tel Aviv può individuare, inseguire e intercettare i missili sino ad una distanza di 2.900 miglia. La «sinergia» Golfo-Israele viene tenuta per il momento nascosta per ragioni di opportunità politica.
L'Amministrazione Obama vuole un sistema integrato di difesa antimissile, in funzione anti-iraniana, fondato sulla più alta tecnologia militare statunitense. L'agenzia di stampa americana Upi riferisce che Washington ha anche deciso di vendere a Baghdad un certo numero di Fighting Falcons F-16, uno dei più potenti jet da combattimento in servizio nel mondo. Gli aerei, ha spiegato il comandante delle forze di occupazione Usa in Iraq Ray Odierno, verranno consegnati agli iracheni dopo il ritiro dei soldati americani previsto alla fine del 2011. L'Iraq post-Saddam Hussein, controllato da Washington, è pronto a spendere miliardi di dollari per ricostruire le forze armate e dotarsi di una forte aviazione. Inizialmente aveva chiesto agli Usa 18 F-16, adesso ne vuole 96. Da parte loro gli Usa hanno autorizzato Baghdad a costruire entro il 2020 una forza aerea di 350 velicoli e 20mila uomini.
il manifesto 10/06/2010

10 giugno 2010

Verona, il terzo Veneto


di S. Canetta - E. Milanesi
Poteri forti e maxi-appalti
Lo scontro tra la Lega di Tosi e gli ex finiani del Pdl, la Compagnia delle Opere che trasferisce il suo quartier generale. E perfino la cordata autonomista del Trentino per i treni ecologici anti-tir. Scontri di potere all'ombra degli investimenti per la Milano del nord-est

La metamorfosi del «terzo Veneto» si impasta un po' come i pandori o la politica del centrodestra. Verona è sempre proverbialmente una città matta, tanto da nutrire ambizioni faraoniche che calamitano interessi di ogni tipo. Così si innesca la guerra sotterranea fra la Liga di governo del sindaco Flavio Tosi e il Pdl degli ex finiani, i fratelli Giorgetti. Intanto il risiko delle banche fa da contraltare ai maxi-appalti che si profilano all'orizzonte.
Verona era stata rivoluzionata così soltanto dai Mondiali di calcio, utili a spianare la terza corsia dell'autostrada A4 come a ridisegnare la viabilità in funzione dello stadio o a rendere moderno l'aeroporto di Villafranca. Ma era l'epoca del pentapartito travolto dalla Tangentopoli locale, nonostante il «megafono» di Telenuovo. Adesso si replica con il tandem Lega-Pdl che sventaglia i poteri forti, le imprese di riferimento, la potenza del federalismo declinato con la cassa di Roma e Venezia. Non a caso, a Verona si è trasferito anche il quartier generale della Compagnia delle Opere, più vicina alla Lombardia di Formigoni e meno vincolata alle leadership d'altri tempi.
È ancora una volta l'urbanistica a pianificare il futuro della «Milano del Nord Est»: maxi-progetti, mega-riqualificazioni, investimenti più che miliardari. Verona si prepara a cambiare pelle, ma dietro la facciata si è già aperta la faida nel cuore del centrodestra. Al municipio spetta il governo delle linee-guida, ma il sindaco deve giocoforza fare i conti con l'orgoglio della destra tradizionale passata al doppiopetto delle stanze dei bottoni. Tosi, il leghista doroteo, ha costruito con pazienza un sistema per molti versi alternativo a quello di Marca del neogovernatore Luca Zaia. I berlusconiani replicano con Davide Bendinelli, classe 1974, uomo del senatore Aldo Brancher ed ex sindaco di Garda: alle Regionali ha incassato 24.580 preferenze, che però non sono bastate a diventare assessore. Da Alleanza nazionale arrivano, invece, i fratelli Giorgetti. Alberto è sottosegretario del ministro Tremonti, ma sulla carta controlla anche il Pdl del Veneto come coordinatore designato da Berlusconi. Massimo, invece, è stato confermato assessore regionale, con la ghiotta delega dei lavori pubblici in cambio della cessione dell'agricoltura ai leghisti.
A Verona nel Pdl hanno cominciato a scavare le trincee sul buco di 25 milioni nella sanità regionale. «Una polpetta avvelenata per Zaia» tuonano i fedelissimi del governatore leghista che in un batter d'occhi ha firmato il decreto che ripiana il deficit. Replica piccato il sottosegretario Giorgetti: «La correzione al bilancio è prassi ordinaria per le Regioni. E un problema noto da tempo a Zaia, che sarebbe dovuto intervenire in modo tempestivo. Risultano stupefacenti dichiarazioni di politici che hanno amministrato la sanità veneta negli anni scorsi prevedendo sistematici ripianamenti di bilancio con manovre tributarie milionarie eliminate grazie all'iniziativa di Galan. L'impressione è che la Lega si stia lanciando all'arrembaggio delle infrastrutture e della finanza, con Tosi protagonista "elitrasportato" nelle assemblee di alcuni istituti finanziari, ed ora della sanità».
Ostilità conclamata. Ma i riflettori di Verona devono continuare ad illuminare la nuova frontiera del Quadrante Europa. Bisogna respingere l'assalto di Trento e rafforzare la "piattaforma" all'interno del corridoio 5, e ricominciare, davvero, a far girare betoniere, gru, cantieri come una volta. Geograficamente strategica, la città ha cominciato a coltivare il mercato dell'ortofrutta accanto alle fiere di prestigio. Fino a diventare il fulcro della movimentazione di ogni tipo di prodotto.
La Verona business oriented è delimitata dal perimetro che definisce il più importante crocevia del Nord italia: Padania sono le autostrade del Brennero e della Serenissima, ma anche i binari dell'alta velocità e dei convogli merci che corrono paralleli verso il nord Europa o da Milano a Venezia. A due passi c'è l'aeroporto Catullo di Villafranca, hub per cargo oltre che per il turismo da charter. Quadrante Europa genera un traffico mastodontico: intermodalità in pista da decenni, il marchio di fabbrica di Verona che svetta non solo a livello nazionale e non teme confronti internazionali.
Numeri impressionanti: 4.500 addetti più l'indotto; oltre 5 milioni di tonnellate movimentate all'anno; un centinaio di aziende incorporate con 90 spedizionieri che fanno base nei 2,5 milioni di metri quadri occupati dal Quadrante. Il futuro prepara il raddoppio dell'industria logistica, perché sono disponibili altri due milioni di metri quadri verso nord e verso ovest. E' un volume di cemento, asfalto e ferro da far impallidire il Passante di Galan o il Mose del Consorzio Venezia Nuova. Una perfetta calamita finanziaria che terremota gli stessi assetti delle banche. Un'occasione irripetibile per l'esercito dei costruttori che già fiuta appalti decennali. Un immenso affare immobiliare, che a Verona metterà in rotta di collisione le diverse anime del centrodestra.
Come se non bastasse dal Trentino del presidente Lorenzo Dellai arriva minacciosa la concorrenza spietata della cordata "autonomista". Vogliono preservare le montagne dalla processione infinita di Tir e quindi sono pronti a imbarcare tutto oltre confine sui treni ecologici. L'Interporto di Trento (controllato dalle due Province federate) ha messo in cantiere quattro «piattaforme intermodali» tutte nel Veronese: veri e propri avamposti logistici a Domegliara (terminal ferroviario Valpolicella), Nogara, Isola della Scala e Sommacampagna. Significa letteralmente cingere d'assedio e svuotare il Quadrante Europa, insieme al traffico sulla Modena-Brennero.Un altro affare declinato con un piano finanziario e industriale alternativo a quello immaginato in piazza Brà.
Sul fronte ovest, Verona cerca di respingere l'assalto di Brescia che è riuscita a scippare il controllo dell'autostrada Serenissima. «Perdita strategica» confermano gli scaligeri. Il direttore Carlo Lepore ha dovuto lasciare la poltrona a Bruno Chiari, espressione dei lombardi. Tant'è che il presidente della Provincia di Verona Giovanni Miozzi, altro uomo ex An, promette di vendere cara la pelle: «La nomina non è stata condivisa. La situazione è di una gravità estrema. Darò mandato a chi mi rappresenta nel Consiglio di amministrazione: sono pronto a combattere».
E così, non rimane che puntare sulle tangenziali di casa, cantierando il traforo delle Torricelle, vera e propria autostrada che «buca» la collina sopra l'Adige. Un nastro di asfalto lungo 11 chilometri (quattro sotto terra) ramificato in 5 svincoli che chiuderà il «raccordo anulare» di Verona, pronto per il 2012. Ma dal municipio si può anche "accompagnare" la riqualificazione»dell'area ex Cartiere, un affare che tiene insieme banche e costruttori. Si tratta di un investimento da 200 miloni di euro in cambio della possibilità di «colare» un mega centro commerciale: 3 mila metri quadri, 70 negozi, 12 ristoranti e un multisala per 3 mila spettatori.
il manifesto
08/06/2010

Sinistra Critica e Attac contro il CIE (centro di identificazione ed espulsione) e per i diritti dei migranti


Comunicato stampa

Negli utlimi giorni si sono susseguite notizie e prese di posizione circa l'ipotesi, sempre più concreta, di costruzione di un Centro di Identificazione ed Espulsione per migranti nel territorio della provincia di Verona.
Sinistra Critica e Attac, che hanno partecipato alla manifestazione dei migranti di sabato 5 giugno scorso, esprimono la più netta opposizione al progetto. In particolare tali centri di detenzione costituiscono una drammatica lesione dei diritti e della dignità dei migranti. Una detenzione amministrativa che può durare fino a 6 mesi, in condizione di costante e terribile sovraffolamento, in cui sovente si registrano abusi da parte delle guardie o atti di autolesionismo, è indegna di un paese civile e di uno stato di diritto. I CIE (ex CPT) rappresentano unitamente al reato di clandesitinità, una chiara espressione di quel razzismo istituzionale portato avanti dal governo Berlusconi così come dal sindaco Tosi (non a caso condannato per propaganda razzista) che legittima, di fatto, la violenza xenofoba e lo sfruttamento selvaggio della forza lavoro migrante.
Ricordando come tali centri di detenzione siano stati concepiti dalla legge Turco Napolitano, riteniamo ipocrita la presa di posizione espressa dal Partito Democratico che nelle amministrazioni locali, in diverse città (Parma o Padova, ad esempio) in nome della sicurezza, applica politiche repressive e razziste. Ed infatti, la contrarietà del PD si è espressa a partire dal "disagio che il CIE arrecherebbe ai cittadini" e non dal vulnus democratico che esso effettivamente costituisce.
Sinistra Critica e Attac sono a fianco dei migranti oggi, come il primo marzo, per i diritti di cittadinanza, per la dignità del lavoro e contro ogni razzismo.
Sinistra Critica - Attac


PADOVA 10 giugno :::: Presentazione del 27° CAMPEGGIO INTERNAZIONALE

PRESENTAZIONE DEL 27° CAMPEGGIO INTERNAZIONALE Anticapitalista,Rivoluzionario,Femminista.
--- Perugia - dal 24 luglio al 30 luglio ---

PADOVA ::: Giovedi 10 giugno 2010,ore 18.30, in atrio del Paolotti alle macchinette

Dal 24 al 30 luglio si terrà a Perugia il 27 campeggio internazionale rivoluzionario femminista d ecologista organizzato dalla IV internazionale e promosso in Italia Da Sinistra Critica.
Nel momento in cui più pesantemente nel nostro Paese si sentono gli effetti della crisi del capitalismo e delle politiche neo liberiste del governo Berlusconi, questo campeggio in Italia acquisisce un’importanza particolare. Un’occasione concreta per discutere, confrontare lotte ed esperienze, per progettare campagne contro la crisi, la guerra, la precarietà, la privatizzazione dei beni comuni e l’istruzione, così come sui temi di genere e lgbt. Un momento importante per chi è impegnat@ nei movimenti sociali e nei comitati territoriali, nelle scuole e nelle università e nella costruzione di una sinistra anticapitalista europea, senza se e senza ma, alternative alle destre ma anche alla cosiddetto “sinistra” liberista. Ospitare in Italia questo appuntamento si rivela un’occasione importante per tutt* quell* che non si arrendono alle derive autoritarie e razziste del governo Berlusconi, ai licenziamenti, alla mercificazione di ogni diritto e bene essenziale, non rinunciando mai a costruire nei e coi movimenti sociali un’alternativa di società, una rivoluzione. Solidarietà internazionale, femminismo, ecologismo, giovani e movimenti sociali, strategie, migranti, scuola e università, marxismo, antifascismo, beni comuni, guerra, precarietà, lgbt, saranno i temi al centro dei 7 giorni. Un campeggio totalmente autogestito dai partecipanti, per provare a dimostrare, anche se nel piccolo e per poco tempo, che un altro mondo oltre che necessario è possibile, e che sono possibili altri tipi di relazioni umane, di divertimento, di gestione degli spazi comuni. All’interno del campo è prevista la presenza di uno spazio femminista e uno lgbt, che permetteranno l’approfondimento, il confronto e l’autorganizzazione di soggetti che vivono condizioni di oppressione specifiche, quella di genere e quella sessuale: due spazi per rimettere in discussione categorie imposte dalla società … e ancora workshop, forum,formazioni,meeting e feste tutte le sere, tra quei quella donne e quella lgbt. ALLEGRIA E LOTTA!
SinistraCriticaPadova
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