08 gennaio 2011

E la crescita, accidenti?

L’impasse della crisi capitalista

di Michel Husson*

Grow, dammit, grow! (La crescita, maledizione, la crescita! NdT) è il titolo di un recente articolo apparso su The Economist (1). Si tratta di un dossier che propone una riflessione generale su quali possano essere i metodi migliori per rilanciare la crescita della macchina capitalista che il settimanale neoliberale riassume così: riforme strutturali e politiche macroeconomiche prudenti. Recenti studi, condotti dal FMI (2) mostrano in effetti che i tagli ai bilanci compromettono la crescita economica e che la ricetta del "rilancio economico" ( rigore finanziario + stimolo monetario), proposta ad esempio dal ministro dell’economia francese Christine Lagarde, risulta essere una chimera.

Questa critica " keynesiana " è alla base, tra l’altro, del "Manifeste des économistes atterrés" (3). Essi hanno perfettamente ragione di esserlo (atterriti, spaventati). E le loro proposte, che consistono in una regolamentazione della finanzia e nella ricerca di nuove fonti di finanziamento per risanare i deficit pubblici accumulati, sono legittimi e razionali. Detto questo, una cosa è il fatto di sottolineare le dinamiche recessioniste delle politiche fin qui adottate; ma altra cosa è andare bene oltre e sostenere che il ritorno della crescita permetterebbe di risolvere tutti i problemi.

Questo, per prima cosa, poiché non basta saltare sulla sedia come un bambino gridando "crescita! crescita! crescita!" perché questa si realizzi. In una nota su questo argomento, il prolisso Artus (noto analista attivo presso la società finanziaria Natixis, banca di investimento del gruppo bancario BPCE NdT) confessa, e la cosa gli fa sicuramente onore, che in realtà nessuno sa bene come fare. I problemi sono ben identificati ma "sussiste una forte incertezza sulle politiche economiche adeguate a risolvere questi problemi" (4). In effetti ci troviamo di fronte ad "idee piuttosto incerte sui fattori esplicativi più importanti della debole crescita delle imprese del Sud della zona euro: le regole del mercato del lavoro, la fiscalità, la formazione non sembrano giocare un ruolo decisivo".

Una seconda ragione: la crescita ha in gran parte abbandonato i paesi economicamente avanzati, diventando una prerogativa del resto del mondo e soprattutto dei paesi emergenti. Oggi, i paesi avanzati rappresentano il 39% del PIL mondiale contro il 50% nel 1990. Nei dieci anni precedenti la crisi, il PIL è progredito ad un ritmo annuale del 2,6% nei paesi avanzati, circa la metà in meno rispetto al resto del mondo dove la crescita media è stata del 5% annuo. La crisi non fa altro che accentuare questo fenomeno. Le ultime previsioni del FMI per il 2011 indicano una crescita del 2.2% nei paesi avanzati, e del 6,4% nel resto del mondo (5). In questo stesso rapporto, l’FMI pone una domanda cruciale:" la lenta crescita delle economie avanzate comporterà necessariamente una crescita altrettanto lenta nelle economie emergenti"? La risposta è che ci sono "buone ragioni per pensare che le buone performance delle economie emergenti continueranno".

Una terza ragione: la ripartizione. Ammettiamo che vi sia un supplemento di crescita ma che questo sia fatto proprio da una frazione ridotta della popolazione, come è avvenuto di regola negli ultimi vent’anni. Questo,evidentemente, non cambia nulla dal punto di vista del livello di vita della stragrande maggioranza della popolazione. La sola differenza, è che si potrebbe sperare nella creazione di qualche nuovo impiego. Tuttavia, non vi è alcuna garanzia che tali nuovi posti di lavoro saranno mantenuti per sempre, cosa che, ad esempio, non è avvenuto, nel medio termine, in un paese come la Francia (6). Ma pur supponendo che questo sia il caso, ci troviamo in una situazione "malthusiana" nella quale il destino dei salariati dipende dal consumo dei ricchi. In questa circostanza, sarebbe meglio ridurre il tempo di lavoro e distribuire meglio il reddito piuttosto che "sgobbare" per una crescita economica i cui beneficiari sarà sempre e solo una minoranza della popolazione.

La questione di fondo è che il capitalismo ha bisogno della crescita e che è proprio grazie a questo criterio che esso valuta lo stato di dell’economia. Come il ciclista che cade dalla bicicletta se smette di pedalare, così il capitalismo entra in crisi quando non riesce più ad ottenere guadagni di produttività. L’idea di uno stato stazionario del capitalismo è, di conseguenza un ossimoro (una contraddizione in termini NdT). A questo d’altronde si richiamano esplicitamente le critiche della crescita come quella di Herman Daly (7), o, più recentemente, di Tim Jackson (8) che scrive nel suo rapporto: " la produttività del capitale molto probabilmente diminuirà. I rendimenti saranno meno elevati e suddivisi su uno spazio di tempo più lungo. La redditività - nel senso tradizionale del termine - diminuirà. Tutto questo pone dei problemi in un economia basata sulla crescita, ma non avrebbe alcuna importanza in un economia di prosperità". Il che è assurdo: il capitalismo non può funzionare bene (9) e rimettere in causa la crescita pur mantenendo un quadro economico capitalista non ha alcun senso. La critica della crescita o sarà anticapitalista o non sarà.

Ed è anche per questo che il sistema capitalista è fondamentalmente incapace di trattare la questione climatica. Come immaginare, per esempio, un capitalista che ridurrà la propria redditività per fabbricare dei prodotti concepiti per durare a lungo? Come non constatare che l’ecotassa si è di fatto annullato di fronte agli incentivi alla rottamazione? A conti fatti appare impossibile rispettare gli obbiettivi di riduzione delle emissioni senza bloccare la crescita economica (10). La crisi sociale e ecologica necessita dunque un rovesciamento di prospettiva: piuttosto che cercare i mezzi per rilanciare la crescita che dovrebbe creare posti di lavoro, bisogna rimettere le cose al loro posto. Detto in altro modo: partire dai bisogni sociali democraticamente definiti e riflettere alla loro soddisfazione ottimale. La prima tappa è la rimessa in causa dell’attuale distribuzione dei redditi che fa dipendere il benessere della maggioranza della popolazione - occupazione compresa - dai rendimenti azionari. E la seconda è la rimessa in discussione della proprietà privata che priva la società della possibilità di scegliere le proprie priorità.

* articolo apparso sulla rivista francese Regards del mese di Novembre 2010. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà.

1. " How to grow ", The Economist, 9 Octobre 2010.
2. FMI, Recovery, Risk, and Rebalancing, World Economic Outlook October 2010.
3. Manifesto degli economisti atterriti
4. " Paesi del Sud della zona euro: problemi ben identificati, ma molte incertezze sulle buone soluzioni", Flash Natixis n°508, 4 ottobre 2010.
5. FMI, déjà cité.
6. E se la crescita non creasse occupazione? nota hussonet n°23, ottobre 2010.
7. Herman Daly, Steady-State Economy, 1991; Beyond Growth, 1996. 8. Tim Jackson, Prosperity without growth?, Sustainable Development Commission, 2009.
9. Richard Smith, " Beyond growth or beyond capitalism? ", real-world economics review n°53, giugno 2010.
10. Crescita senza CO2 CO2 ?, nota hussonet n°24, ottobre 2010.