19 luglio 2011

"Genova 2001 - Genova 2011"


Nell’ambito delle iniziative di “Genova 2001 – Genova 2011”, invitiamo tutt* a partecipare all’incontro pubblico organizzato da Sinistra Critica, “La rivoluzione è possibile! Le risposte alternative alla crisi: le resistenze politiche e sociali in Europa e le rivolte popolari arabe”, per venerdì 22 luglio, a partire dalle ore 20.00, nel Salone di Rappresentanza di Palazzo Tursi, in via Garibaldi 9, oltre alle diverse iniziative collettive previste. Il programma completo si può vedere sul sito di “Genova 2001 – Genova 2011”.
Vedi: http://www.genova2011.org/

INCONTRO PUBBLICO
VENERDI’ 22 LUGLIO – ore 20.00
Salone di Rappresentanza di Palazzo Tursi via Garibaldi, 9 – Genova
LA RIVOLUZIONE E’ POSSIBILE!
Le risposte alternative alla crisi: le resistenze politiche e sociali in Europa e le rivolte popolari arabe
Intervengono:
Omar El Shafei – Socialist Renewal, Egitto
un/una compagno/a della Ligue de la Gauche Ouvrière, Tunisia
Gaël Quirante – Nouveau Parti Anticapitaliste, Francia
Josip-Maria Antentas – Revolta Global/Esquerra Anticapitalista, Catalunya (Spagna)
Pasquale Loiacono – delegato FIOM Carrozzerie Fiat Mirafiori
Enrico Lancerotto – Atenei in Rivolta
Un/una esponente del Movimento No Tav della Val di Susa
Marco Filippetti – Comitati Acqua Pubblica

Introduce e coordina: Cristina Tuteri – del Coordinamento nazionale di Sinistra Critica

Conclusioni di Piero Maestri – portavoce nazionale di Sinistra Critica

In questo incontro pubblico interverranno quindi esponenti di movimenti politici della sinistra anticapitalista di paesi nordafricani ed europei, un incontro in cui si parleranno le diverse “piazze” che si sono mobilitate sulle due sponde del Mediterraneo in questi mesi (Tunisi, Il Cairo, Barcellona, la Francia ...). E, insieme a loro, alcuni esponenti delle “piazze” sociali italiane di quest’ultimo anno: delle lotte operaie contro la Fiat e Marchionne, delle lotte degli studenti, di quelle ambientali e contro la devastazione del territorio, quelle dei comitati per l’acqua pubblica. Perché crediamo che tessere legami e relazioni tra le piazze europee e nordafricane di tutti gli “indignati” sia fondamentale per raccordare le lotte a livello internazionale, per approfondire la critica globale ad un sistema economico e sociale, quello capitalista, che ha nel “mercato” e nel profitto i suoi capisaldi, per far crescere la coscienza che “le nostre vite valgono più dei loro profitti”.

Vedi il video/appello di Sinistra Critica, in cui Piero Maestri spiega le ragioni per “tornare a Genova”.
Vedi: http://www.youtube.com/watch?v=Sfw7IR5zNLE

In allegato anche la scheda di Sinistra Critica, presentata nella conferenza stampa del 18 luglio del coordinamento “Genova luglio 2011”.

Gli altri appuntamenti collettivi a cui Sinistra Critica invita tutt* a partecipare:
Martedì 19 luglio · ore 16.00 – Auditorium di palazzo Rosso Assemblea nazionale delle associazioni dei migranti e antirazziste – Verso una giornata di mobilitazione globale per i diritti dei migranti il 18 dicembre 2011
· ore 19.30 – piazza Posta Vecchia “Venti di cambiamento nel Mediterraneo: rivoluzioni e lotte per la dignità e i diritti. Beni comuni, accoglienza dei migranti, contro la guerra”
Mercoledì 20 luglio · dalle ore 15.00 – piazza Alimonda (con il Comitato Piazza Carlo Giuliani) “Memoria e parole”: interventi, testimonianze e musica
Giovedì 21 luglio · ore 9.30, con prosecuzione nel pomeriggio – Sala Maggior Consiglio di Palazzo Ducale convegno: “Genova luglio 2001, io non dimentico”, video, testimonianze e riflessioni sui fatti di Genova del 2001
· ore 20.30 – da piazza Matteotti / piazza De Ferrari alla scuola Diaz (con il Comitato Verità e Giustizia per Genova) fiaccolata per la Diaz
Sabato 23 luglio · ore 9.30 – Auditorium di Palazzo Rosso convegno/seminario: “Strategie comuni in Europa-Maghreb/Mashreq. Sostegno alle rivoluzioni della dignità. Per la democrazia e il lavoro, la giustizia e la pace. Contro la guerra, le occupazioni, la repressione”
· dalle ore 15.00 – Sampierdarena le piazze partecipate: Lavoro in largo Jursè, Beni comuni in piazza Modena, Migrazioni in piazza Vittorio Veneto, Contro la guerra in piazza Settembrini

· ore 17.00
piazza Montano (Sampierdarena) partenza del corteo con arrivo a piazza Caricamento (ci sarà uno spezzone di Sinistra Critica); a seguire concerto musicale con diversi gruppi e artisti

Domenica 24 luglio · ore 9.30
– San Salvatore, piazza Sarzano Assemblea internazionale: “Loro la crisi. Noi la speranza – Dalla vittoria dei referendum all’agenda internazionale di iniziative del movimento altermondialista”

Sinistra Critica
Coordinamento provinciale – Genova

"Sentenza Fiat Pomigliano. Può saltare l’accordo del 28 giugno e sarebbe una buona notizia per i lavoratori"

di Giorgio Cremaschi

Come al solito la grande stampa e la grande tv, hanno inizialmente fatto propaganda per la Fiat, spiegando che la Fiom aveva perso e che le ragioni dell’azienda erano state accolte. In particolare il giornale di famiglia, La Stampa, ha addirittura taciuto nei titoli la condanna per antisindacalità della Fiat. Poi, con un imbarazzo ben visibile, gli stessi giornali han dovuto dare notizia dei malumori e delle minacce di Marchionne contro la sentenza. Sentenza che è sicuramente contraddittoria, ma che comunque rappresenta un ostacolo enorme per la linea Fiat di distruzione dei diritti sindacali.
Da un lato, infatti, il giudice ha dato ragione alla Fiat sulla legittimità dell’accordo separato per Pomigliano e quindi anche per quelli successivi. In realtà il giudice semplicemente non ha accolto il ricorso di illegittimità da parte della Fiom nazionale su quegli accordi, mentre rimane tutto lo spazio per le cause individuali che i lavoratori intenderanno presentare per rivendicare i propri diritti contro la Newco.
D’altro lato, però, la sentenza ha condannato con chiarezza il comportamento antisindacale della Fiat, affermando che la Fiom non può essere esclusa dai diritti sulla rappresentanza in fabbrica. Nella sostanza la sentenza del giudice mette in discussione uno dei cardini della strategia antisindacale della Fiat, la cosiddetta esigibilità degli accordi, affermando che un sindacato che si oppone all’accordo, in questo caso la Fiom, non può essere escluso dalla rappresentanza aziendale. D’altra parte per la Fiat la pace sociale e il divieto di sciopero sono indispensabili per imporre le terribili condizioni di lavoro previste dall’accordo. Per questo l’azienda ha fatto sapere che sono sospesi gli investimenti a Torino, peraltro meno di un decimo di quelli inizialmente previsti per il piano Fabbrica Italia che è scomparso nel nulla. Magari è proprio una scusa, ma resta il fatto che la Fiat non accetta più un sindacalismo libero nelle proprie aziende.
A questo proposito gli avvocati dell’azienda hanno presentato in tribunale, a proprio sostegno e difesa, l’accordo del 28 giugno firmato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. È la prima volta che accade e questo atto significativamente smentisce chi aveva pensato e detto che la Fiat fosse contro l’accordo interconfederale. In realtà l’unico problema che ha l’azienda è che quell’accordo non è retroattivo. Se infatti quell’accordo fosse già operativo, la Fiom potrebbe entrare negli stabilimenti Fiat solo accettando gli accordi separati e impegnandosi a rispettarli. Quell’accordo istituisce un mostruoso maggioritario sindacale, per cui gli accordi firmati dalla maggioranza dei sindacati impongono obbedienza anche ai sindacati di minoranza non firmatari. Per questo è stato definito il “porcellum sindacale”. La Fiat ha tentato di far sì che fosse il giudice a rendere retroattivo quell’accordo, ma non c’è riuscita. La sentenza assegna alla Fiom il diritto alla rappresentanza, anche se non firmataria dell’intesa di Pomigliano.
A questo punto è evidente che o passa la linea Bonanni, il quale ha già dichiarato che chiamerà tutta la Cgil e la Fiom a rispondere dell’accordo del 28 giugno, cioè a impegnarsi ad accettare l’accordo di Pomigliano. Oppure, se la Fiom confermerà la propria posizione di non considerarsi in alcun modo vincolata dall’accordo separato, allora l’intesa interconfederale andrà clamorosamente in crisi. Con buona pace del gruppo dirigente della Cgil, che in queste settimane ha diffuso interpretazioni di quell’accordo che sono state brutalmente smentite dalla Confindustria, dalla Cisl, dalla Uil, dalla Fiat nelle stesse aule dei tribunali. Se la Fiom, come noi crediamo, continuerà la lotta contro gli accordi capestro in Fiat, ci sarà un grande beneficio per tutti i lavoratori perché l’accordo del 28 giugno sarà inesigibile alla sua prima uscita. Bisogna allora agire subito per allargare questa incrinatura e far sì che l’accordo interconfederale alla fine salti. Sarebbe la migliore notizia possibile per tutti i lavoratori italiani.

17 luglio 2011

Sinistra Critica - FIAT: FIOM RESTA IN FABBRICA MA PESA SCELTA CGIL

La condanna per attività antisindacale della Fiat e’ una vittoria parziale della dignità del lavoro contro Marchionne e i suoi complici politici e sindacali: la Fiom resta in fabbrica e anche il diritto di sciopero è confermato.
Ma il respingimento da parte del giudice della contestazione della validità degli accordi separati che tolgono diritti ai lavoratori rappresenta un colpo duro e conferma il generale clima negativo che influenza inevitabilmente anche la magistratura del lavoro. E non c'è dubbio che la firma di Susanna Camusso all'accordo del 28 giugno, sbandierato in tribunale dalla Fiat e dai sindacati complici Fim-Uilm-Fismic e Ugl, abbia costituito una pugnalata alle spalle del ricorso della Fiom e rischia ulteriormente di pesare nel ricorso in appello annunciato dai legali del Lingotto proprio sulla parte della rappresentanza.
Solo la mobilitazione di tutto il mondo del lavoro e di tutte le opposizioni politiche e sociali può far saltare la gabbia costruita dalla Fiat, dal governo e dai sindacati di regime: le nuove regole imposte a Pomigliano e a Mirafiori e il contemporaneo 'patto sociale' firmato anche dalla Cgil che consente la deroga del contratto nazionale di lavoro costituiscono violazione di diritti indisponibili di lavoratori e lavoratrici e vanno cancellati. Il lavoro senza diritti non è lavoro ma schiavitù. Ma, appunto, non basta ricorrere in tribunale. Occorre ricostruire i necessari rapporti di forza. Per quanto riguarda la fabbrica bisogna puntare all’unità di tutte le forze del ‘No’: non si può pensare che resti fuori e senza diritti anche quella parte combattiva dei lavoratori organizzata dai sindacati di base.

Sinistra Critica- Organizzazione per sinistra anticapitalista

16 luglio 2011

Il loro debito non lo paghiamo!

Respingiamo la manovra lacrime e sangue del governo:
70 miliardi di euro rubati alle classi popolari

Sapevamo tutti che la crisi del capitalismo non era finita e che ben presto, dopo Grecia e Portogallo e Spagna, anche l’Italia sarebbe finita nella tormenta. Le classi dominanti in Europa, come in Italia non hanno nessun vero progetto per il futuro se non quello di scaricare sulla classe lavoratrici tutte le contraddizioni sociali, economiche ed ambientali del loro iniquo sistema basato sul profitto, la concorrenza e il mercato. Ora vogliono che l’enorme debito con cui banche e padroni si sono arricchiti nel corso degli anni sia pagato dalle classi popolari. Quando televisioni e giornali di ogni colore dicono “c’è la speculazione, abbiamo il fuoco in casa, dobbiamo fare sacrifici per rassicurare i mercati” vogliono dire che le lavoratrici e i lavoratori dovrebbero lasciarsi spogliare di salari, pensioni, tempo di lavoro e di vita, servizi sociali e sanitari per dare ai capitalisti e alla speculazione finanziaria
Per raggiungere questo obbiettivo è stata già messa insieme una “sacra unione” che unisce partiti di governo e di “opposizione”, la confindustria, le tre confederazioni sindacali (che non a caso hanno firmato un patto sociale per legare le mani ai lavoratori), con a capo il Presidente delle repubblica che svolge il ruolo di supremo rappresentante istituzionale del capitalismo italiano.
Tutti pronti a sostenere e varare rapidamente la paurosa stangata da 40 miliardi del governo Tremonti Bossi Berlusconi, (in realtà l’insieme delle misure nel corso dei prossimi anni vale circa 68 miliardi di euro), cioè una vergognosa aggressione sociale contro tutte le classi popolari.

13 luglio 2011

Freedom Flotilla 2: tra successi e opacità, verso nuove prospettive

Di Angela Lano. La missione della Freedom Flotilla 2 si è conclusa la settimana scorsa.

Riepilogo dei fatti. Il 1° luglio, poche ore dopo che le autorità greche avevano deciso di vietare la partenza alle navi, la US Boat to Gaza salpa ma viene bloccata dalla guardia costiera greca. Anche la nave canadese 'Tahrir' tenta di partire, ma viene fermata. Il 4 luglio, quest'ultima ci riprova, e, poco dopo aver lasciato il porto, è abbordata dalla guardia costiera. La giornalista israeliana Amira Hass, inviata del quotidiano israeliano Haaretz, pubblica il racconto dell'abbordaggio nel numero di Internazionale di questa settimana; il 5 giunge la notizia secondo cui la nave francese 'Dignitè' è in viaggio verso Gaza.

Il 6, la barca greco-svedese 'Juliano' è bloccata in mare dalla guardia costiera greca; nello stesso giorno, i passeggeri della nave spagnola "Guernica", sequestrata dalle autorità greche a Creta, da dove avevano tentato di salpare per Gaza, occupano l'ambasciata di Spagna ad Atene. L'azione ha lo scopo di convincere le autorità diplomatiche spagnole a esercitare pressioni sul governo greco, affinché restituisca la barca agli attivisti.

L'8, viene fermata a Creta 'Dignité. Nella stessa giornata, la nave greco-svedese afferma di essere in acque internazionale in rotta verso Gaza, ma il 10, attracca al porto di Heraclion.

Nel frattempo, inizia la missione Airtilla, ma anche questa è vinta dalle azioni repressive di Israele (la FF2 subisce il diktat del governo greco, a sua volta vittima delle pressioni israeliane).

Le barche canadese, greco-svedese e francese sono dunque ferme, ma continuano a dichiarare di essere in procinto di partire per Gaza. Le altre navi sono sotto sequestro o ormeggiate nei porti greci, in attesa di ritornare in patria (il Paese dell'"armatore").

La Freedom Flotilla 2 sembra ormai bicefala: una parte della coalizione internazionale ha preso atto della decisione del governo greco, e, senza sentirsi sconfitta, si prepara per la prossima missione, la Freedom Flotilla 3; l'altra, va avanti a raccontare ai media, in un continuo stillicidio di messaggi, che sta per salpare per la Striscia, pur avendo la guardia costiera alle costole e pur sapendo che le "scuse" addotte dalla Grecia per bloccare la partenza della flotilla sono politiche, più che tecniche e burocratiche (anche se non sono mancate numerose défaillance da questo punto di vista, creando il pretesto giusto per le autorità elleniche).

Successo. La Freedom Flotilla 2 ha spaventato Israele, non c'è dubbio: il regime di Tel Aviv non poteva permettersi né di lasciarla passare, perché avrebbe significato la rottura dell'assedio marittimo di Gaza, né di bloccarla con un'azione spettacolare e feroce come quella dell'anno scorso, che aveva provocato nove morti e oltre 50 feriti, e la condanna unanime del mondo. Un altro attacco del genere avrebbe significato per Israele la perdita dell'immagine e tante grane politiche e diplomatiche.

Dunque, ha lavorato in modo "preventivo", per fermarla senza colpo ferire, prima della partenza. Per raggiungere questo obiettivo, ha messo in campo uno sforzo politico-diplomatico, e certamente economico, grandioso: ha scatenato emissari e propaganda in molti Paesi di provenienza dei circa 350 passeggeri; ha svolto pressioni diplomatiche sui governi e sulla stessa Onu; ha scatenato una vasta offensiva mediatica con articoli che parlavano di terroristi a bordo, di "provocatori", ecc.; ha cercato di sabatore dall'interno la coalizione con l'invio di giornalisti embedded, e altro ancora.

Come prevedibile, considerata la tragica situazione economica in cui si trova, la Grecia ha ceduto, e la Flotilla è stata fermata; tuttavia, restano un fatto innegabile sia il successo mediatico, cioè l'attenzione mondiale pre-partenza sulla missione, sia, appunto, lo sforzo esagerato messo in atto dallo stato sionista per fermare qualcosa di simile più a una carovana che a una flotta di pirati, come la propaganda israeliana ha voluto descrivere la FF2.

Opacità. Restano, però, molti nodi da sciogliere: prima di tutto, le coalizioni nazionali stesse, disomogenee e improvvisate, con troppi personalismi e scarse competenze; la mancanza, voluta e incomprensibile, di un media team internazionale che avrebbe dovuto prendersi cura dei tanti giornalisti arrivati in Grecia, e di quelli, altrettanto numerosi, rimasti nelle redazioni, ma interessati a ricevere notizie confermate, puntuali e chiare (cosa che invece non è affatto avvenuta); una coalizione internazionale che si è dimostrata nei fatti bicefala, affollata e con linee politiche non proprio comuni.

La prima Freedom Flotilla è passata alla storia, o meglio, ha agito nella storia; la seconda è certamente preparatoria alla terza: possiamo dire che è stata una grande "prova generale". Sta agli organizzatori rivedere i copioni e le parti, e creare la basi per una grande, nuova opera, scegliendo accuratamente protagonisti e comparse.

12 luglio 2011

La coesione sociale di Napolitano e Berlusconi


Coesione
Il paese va a rotoli, per effetto di politiche dissennate, di un malgoverno spudorato, non solo dell’ultimo periodo: ma, solennemente, il presidente della repubblica ne ricava la solita ricetta: ci vuole coesione, bisogna fare squadra, ci vuole confronto e dialogo… E la cosiddetta opposizione coglie subito l’occasione per risparmiarsi di fare ammuina, e annuncia che ridurrà ad alcuni punti (quali?) gli emendamenti, e dopo aver proclamato la sua contrarietà, faciliterà il passaggio della manovra, naturalmente… per salvare il paese. Uno sforzo in più, chiede Berlusconi, dopo il lungo silenzio nei giorni in cui crollavano le borse (si vergognava forse di piangere ancora miseria per la condanna all’azienda di famiglia – che tra l’altro se la cava meglio della concorrente SIR - in un momento come questo?), e per “senso di responsabilità” ottiene subito una risposta positiva. L’impudenza di un governo in cui il ministro più vezzeggiato dalle opposizioni, Tremonti, non si vergognava di ottenere in omaggio un appartamento da 8.500 euro al mese (quanto molti precari non prendono in un anno), in cui lo scambio di insulti a mezza voce a microfoni accesi non è raro né casuale, ma anche un governo che non accenna minimamente a fare quel “passo indietro” che gli chiede periodicamente Bersani, il cui partito è evidentemente incapace di fare qualche gesto concreto e si limita a implorare l’avversario, ha una spiegazione semplice: le opposizioni non hanno l’ombra di un progetto alternativo, se fossero state loro al governo avrebbero fatto più o meno la stessa manovra (e quando ci sono state, ne hanno fatte effettivamente anche di peggiori). Lo stesso Di Pietro, anche quando rimprovera le indecisioni e i pasticci del PD, e dice che il suo partito farà “seria opposizione” alla manovra, non dice cosa propone di diverso, e dà per scontato che il totale debba essere lo stesso.
Non c’è nessuno che parli delle spese militari, a parte la Lega, che le critica però solo per le “imprese umanitarie”, perché indirettamente provocano un aumento delle correnti migratorie verso l’Italia, che pure sono ridottissime rispetto a quelle che la Germania ha assorbito dopo il 1989. Ma almeno un po’ le critica e quindi si prende qualche merito con questa pseudo dissociazione, soprattutto quando muore qualche altro dei “nostri ragazzi”. Eppure questo sarebbe il primo taglio logico da fare a spese esorbitanti.
“La stampa”, che è diventato il giornale più combattivo dell’opposizione, almeno ogni tanto tira fuori qualche dato, sia pure senza avanzare minimamente la proposta di tagli. Ad esempio in due pagine dell’11 luglio dedicate alle incursioni aeree in Libia, con tanto di servizio fotografico del giornalista embedded, schemi e cartine, si lascia scappare una cifra agghiacciante: un’ora solo di volo di un ricognitore Awacs costa 18.700 dollari, una missione da Trapani Birgi dura in media 10 ore, quindi siamo già a 187.000 dollari in un giorno, e ci sono tre Awacs in servizio, più 142 cacciabombardieri...Non sono tutti italiani, certo, ma c’è un paese europeo che non lamenti gli effetti della crisi economica? E gli Stati Uniti, che si trovano sull’orlo della bancarotta (tecnicamente già arrivata per il Minnesota, “piccolo” Stato con un territorio pari a due terzi di quello italiano) a che livello di spesa militare stanno? Ne ha parlato ieri con la consueta precisione Antonio Mazzeo, in Obama: Spese militari e costi umani e per altri aspetti dei traffici connessi a queste imprese anche Gigi Malabarba in Libia, armi e affari. È vergognoso quindi che si chieda “coesione” tra l’opposizione e questo governo del malaffare e delle avventure militari, ma è scandaloso che la si offra senza fiatare. Ma come fare diversamente, se il centrosinistra ha fatto lo stesso quando governava, e ha sempre votato il rifinanziamento delle “missioni umanitarie”, come sono chiamate nella “neolingua” in vigore…
Dobbiamo evitare di finire come la Grecia, ci si dice, ed è una menzogna: la Grecia è stata solo il terreno di sperimentazione di una politica di riduzione secca dei livelli salariali e pensionistici, conquistati con decenni di lotte, di tagli a tutti i servizi scolastici, sanitari e all’intero apparato statale. Lo scopo era quello di ripagare le banche tedesche, francesi, italiane che avevano offerto alla Grecia prestiti che potrebbero essere denunciati come “illegittimi”, e che avevano spesso rifilato prodotti finanziari tossici. Il debito della Grecia poteva essere affrontato senza drammatizzazioni dato che rappresentava una percentuale minima dei bilanci complessivi dell’Europa. Se la Grecia fallisse, il guaio maggiore sarebbe per le banche che l’hanno portata ad avere quel “debito odioso”, e che continuano a chiedere “all’Europa” altri contributi, che non arriveranno mai in Grecia. Il fallimento dell’Argentina non fu una tragedia per quel paese, anche se inizialmente i governanti infami avevano tentato di far pagare i loro misfatti a tutti, ceto medio delle casseruole incluso. Il risultato fu un terremoto politico, che spazzò via vari governanti corrotti, e soprattutto fu una bella botta per chi anche dall’Italia si era buttato a comprare quei prodotti finanziari che rendevano tanto: ha perso in genere il 70% dei suoi capitali, mentre l’Argentina (anche grazie all’aiuto del Venezuela e del Brasile), si è risollevata. Oggi forse sta per attraversare una nuova fase difficile, anche per debolezze inveterate della sua sinistra, che ha aperto le porte a un nuovo rilancio della destra peronista, ma è tutt’altra questione, e comunque sono passati dieci anni!Oltre a ricordare il recente Grecia o Islanda?, rinvio su questi temi al più articolato saggio di François Chesnais, tradotto dai compagni di Solidarietà Ticino, sui Debiti illegittimi che inserisco contemporaneamente.
(a. m. 12/7/11) tratto da http://antoniomoscato.altervista.org

09 luglio 2011

Libia: chi c'è al crocevia tra affari, guerra e politica?

di Gigi Malabarba
(da Globalist.it)

Premessa: nessuna persona che abbia un minimo di onestà intellettuale può aver creduto che l'intervento della Nato in Libia fosse dovuto all'umanitaria protezione delle popolazioni della Cirenaica, insorte contro Muhammar Gheddafi. E' comprensibile che i ribelli di Bengasi, in tutto simili alla generazione protagonista della primavera araba che ha abbattuto Ben Alì e Mubarak e sconvolto l'intero Nordafrica e Medioriente, invocassero l'intervento armato dei paesi europei. E a loro e a tutti coloro che si ribellano alle dittature deve andare il nostro pieno sostegno e, per quel che mi riguarda, anche al di là di quello strettamente umanitario (specialmente se provenienti da forze politiche e sociali solidali, più che dai governi).
Che l'Italia, la Francia e la Gran Bretagna - in tempi e modi diversi, dovuti alle diverse dinamiche politiche interne e agli interessi economici concorrenti nell'area - abbiano voluto approfittare della sollevazione popolare (e soprattutto della reazione criminale del raìs) per ragioni molto lontane da quelle ipocritamente dichiarate dalla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite, non è difficile da immaginare. Temendo innanzi tutto, Stati Uniti compresi, che l'incendio del Maghreb e del Mashreq, che ha fatto saltare i regimi reazionari arabi asserviti all'Occidente, se non prontamente addomesticato e fermato, avrebbe potuto assumere una dinamica sociale 'pericolosa', grazie alla crisi economica in corso. Che cosa c'è di meglio di un intervento militare diretto a partire dall'anello debole della rivolta?
Tralasciando la farsa dei trionfali ricevimenti di Gheddafi a Roma, 'traditi' dai bombardamenti italiani e dell'Alleanza di appena qualche tempo dopo (mai fronte di guerra si è così rapidamente rovesciato con gli stessi protagonisti in sella.), merita attenzione il richiamo di Gianni Cipriani sull'armamento diretto del Cnt, il Consiglio nazionale transitorio di Bengasi, fuori dalle disposizioni Onu e persino prima dell'analogo sostegno francese (oggi ammesso). Si tratta di un fatto assai rilevante, ma che in Italia non susciti alcun dibattito politico non stupisce, perché non c'è alcuna forza politica in Parlamento - nessuna - che si oppone realmente alla guerra e le quotidiane sollecitazioni interventiste del Quirinale costituiscono l'humus più fertile per coltivare politiche bipartisan.
Naturalmente, e più esplicitamente, non si parla più di 'protezione dei civili', ma di ruolo di potenza a cui l'Italia non può rinunciare: in questo il Centrosinistra si è persino più esposto della destra di governo, alle prese con la difficile quadratura dei conti pubblici.
Quindi la Marina militare già ai primi di marzo invia armi leggere e munizioni al Cnt, prelevate dai depositi dell'Aise, il servizio segreto militare, in Sardegna, cercando in tal modo di mantenere una presunta egemonia italiana nell'area, contando sulle relazioni con esponenti della rete diplomatica e del governo libico passati armi e bagagli dalla parte degli insorti. Parliamo di appoggio su uomini fedeli a Gheddafi fino al giorno prima, quindi, e non certo sul lavoro dell'intelligence italiana che - contrariamente a quanto afferma l'ineffabile ministro Frattini - non sembra affatto disporre di conoscenze 'migliori degli altri'. O perlomeno non più.
Da quando gli amici del Bisignani di turno - ma forse il capo supremo di tutti i servizi, Gianni De Gennaro 'ne sa qualcosa' - hanno letteralmente smantellato quel che restava della squadra di Nicola Calipari nel mondo arabo. Forse anche il vicepresidente dell'Eni Umberto Saccone, già capocentro del Sismi in Arabia Saudita, 'ne sa qualcosa'. E l'Eni qualche problema di concorrenza con altre multinazionali del petrolio ce l'ha; ma qui si aprirebbe un altro capitolo, che ci porterebbe lontano.
E' un fatto che Tavolara, la Maddalena, Capo Marrargiu (qualcuno se lo ricorda forse come base del Sifar passato alla notorietà come struttura 'Stay behind' della Nato, ossia Gladio, tuttora operativo come distaccamento C del Rud) sono le basi da cui clandestinamente si è provveduto ad approvigionare di armi gli insorti di Bengasi. C'è da sospettare che ai ribelli non siano neppure arrivate, ma che siano rimaste in mani più 'amiche'.
Insomma, c'è materia da cui dedurre l'esistenza di un crocevia di affari, guerra e condizionamenti politici del tutto indisturbati - senza bisogno di scomodare grembiulini massonici, perché i riti cambiano ma non le sostanze - anche perché c'è chi ha saputo manovrare a destra e a manca con un certo savoir faire. Sta a vedere che 'ne sa qualcosa' il responsabile politico dei servizi di sicurezza, nonché sottosegretario alla presidenza del consiglio, nonché candidato quasi ufficiale di Silvio Berlusconi al Quirinale. Come ai tempi di Andreotti e dei rapporti tra Stato e Mafia: difficile farne il nome, ma sicuramente tra quelli più conosciuti che si conoscano.

05 luglio 2011

Freedom Flotilla una nave salpa eludendo i controlli

Si è nascosta per tre giorni nel canale artificiale vicino alla piccola città di Salamina e stamani all’alba la Dignité, uno dei due battelli francesi della Flotilla 2 «Stay Human», ha lasciato la Grecia e ha fatto rotta su Gaza. Gli occhi di tutto il mondo ora sono puntati su questo questo piccolo yacht di 13 metri, che in 72 ore di navigazione si avvicinerà alle coste di Gaza per portare alla popolazione palestinese sotto assedio israeliano dal 2007 la solidarietà politica di tutta la Flotilla 2. E’ improbabile però che la Dignité riesca a raggiungere le coste palestinesi. La Marina militare israeliana appare decisa a fermare anche questa piccola imbarcazione con a bordo solo 9 tra attivisti, parlamentari e giornalisti, tra i quali Olivier Besancenot, Nicole Kiil-Nielsen, deputata di Europa–Ecologia, Annick Coupé, portavoce del sindacato Solidaires e Nabil Ennasri, presidente del Collettivo dei musulmani di Francia, e l’inviato di Libèration Quentin Girard. La tensione perciò è nuovamente salita nelle acque del Mediterraneo e si teme nelle prossime ore un arrembaggio della Dignité da parte di commando israeliani.

Il governo francese, per bocca del portavoce del ministero degli esteri, Romain Nadal, ha detto che la partenza della Dignitè è stata una “cattiva idea” ma a Parigi oggi tantissimi attivisti scenderanno in piazza per chiedere che la Francia faccia pressioni perchè siano garantite la sicurezza e l’incolumità dei passeggeri. Restano in Grecia nel frattempo le altre imbarcazioni della Flotilla 2, bloccate per ordine del governo Papandreou che negli ultimi tempi ha stretto i legami con Israele. Le navi della «Freedom flotilla» sono sequestrate a norma di un articolo del codice di navigazione greco applicabile solo in caso di guerra o di emergenza interna.
In Italia, in reazione alla linea dura contro la Flotilla adottata da Atene, sono state avviate iniziative di protesta davanti all’ambasciata e ai consolati greci mentre si levano voci che chiedono il boicottaggio dei prodotti greci ed esortano i turisti di non andare in vacanza in Grecia. Resta intanto in carcere John Klusmire, il capitano della nave Usa «Audacity of hope» dove su 52 persone in attesa di imbarco ben 30 sono cittadini Usa di religione ebraica. Fino a ieri nessun rappresentante dell’ambasciata americana lo aveva incontrato né chiesto un colloquio con lui.

No Tav: il giorno che l'Italia venne giù

di Giuseppe Genna
www.ilmegafonoquotidiano.it

Se lo dicono Pierferdinando Casini e Pierluigi Bersani e se ha l'avvallo di un ex comunista che ebbe i permessi Cia per andarsene negli States in anni impossibili, allora è vero. E' tutto vero: è gravissimo quanto è accaduto oggi in Val di Susa. Deve essere vero, perché lo dicono a destra e sinistra non si sa più di che cosa. Deve essere vero se lo afferma "la Repubblica" insieme al "Corriere della Sera". E, di fatto, è vero. Però non è vero al modo in cui lo intendono questi spettri che deambulano nella storia universale delle meschinerie. Se 70mila persone si mobilitano e vanno a formare una massa che confligge con apparati polizieschi di Stato, significa che è stato abbattuto un filtro decisivo e che si va a compiere quanto è iniziato a slittare dalla tragedia del G8 di Genova: l'Italia è uscita definitivamente da ciò che cominciò nei primi Ottanta. Cambia tutto. Oggi abbiamo assistito a una guerra e siamo attualmente sommersi da un rovinoso tentativo di mistificazione e di disinformazione.

Secondo le autorità - non si sa oramai nemmeno loro autorità di cosa e rispetto a chi - i manifestanti erano 6-7mila. Erano invece circa 70mila. Ciò è comprovabile. La giornata è controllabile da qualunque prospettiva, da ovunque, è già compattata in migliaia di archivi digitali, resi disponibili e reperibili on line. Spezzettata e frammentata in un organismo vivente di immagini, suoni, voci. Twitter soprattutto e Facebook in parte hanno canalizzato un'informazione capillare e incontrovertibile da parte di qualunque tentativo di falsificazione. Basta informarsi qui, qui, qui o qui e si potrebbe andare avanti all'indefinito.
Eppure il Presidente della Repubblica, questo sir bisnonno d'Italia che tiene tantissimo al 150° compleanno non si sa di chi o di cosa e se proprio o altrui, questo finissimo conoscitore dell'inglese e delle intelligence di mezzo mondo, questo portavoce delle più raffinate ordinanze antisociali e mercantiliste dell'Europa che sarebbe unita non si sa in nome di cosa o di chi - costui ha dunque preso la parola e condannato informando tutti i cittadini della verità che è smentita praticamente da tutta la Rete italiana: "Quel che è accaduto in Val di Susa - sostiene l'anziano migliorista -, per responsabilità di gruppi addestrati a pratiche di violenza eversiva, sollecita tutte le isituzioni e le componenti politiche democratiche a ribadire la più netta condanna, e le forze dello Stato a vigilare e intervenire ancora con la massima fermezza. Non si può tollerare che a legittime manifestazioni di dissenso cui partecipino pacificamente cittadini e famiglie si sovrappongano, provenienti dal di fuori, squadre militarizzate per condurre inaudite azioni aggressive contro i reparti di polizia chiamati a far rispettare la legge". Parole del Capo dello Stato di Cose.
Ecco, non c'è più lo Stato di Cose. Il Presidente è fuori dalla Storia come tutti i Presidenti, così come anche tutti i sodali di un Parlamento che appare oggi, e drammaticamente, distantissimo dal sentire comune. E' significativo che si manifesti come dominatrice neomediatica l'intollerabile verve populista di Beppe Grillo, con il suo giustizialismo antropologicamente autoritario, col suo antipoliziottismo poliziesco, con la sua ribadita assenza di spiegazioni circa la questione dei suoi sostenitori bancarii. E' significativo perché c'è il Comico contro il Re, a vederla da fuori. Il frame da indurre nelle menti beote sarebbe: le parole di Beppe Grillo vs le parole della Politica e dello Stato di Cose. Frame errato, ovviamente. Poiché oggi sono in convergenza molteplici frame in Val di Susa, luogo che rischia davvero di diventare, magari anche soltanto emblematicamente, il Vietnam di questa classe dirigente. Senza neppure desiderare di entrare nella questione di merito circa il progetto TAV, è evidente che siamo di fronte al crollo del paradigma fintopacifista ed ex borghese, alla saldatura trasversale di classi anagrafiche che fa crollare il tentativo statuale di imporre al Paese come modello unico la lotta tra generazioni, all'ipocrisia di un'Europa che dovrebbe essere unita soltanto nelle lordure e non nelle proteste (non si capisce perché dovrebbero protestare soltanto gli italiani e non contestatori francesi o inglesi o tedeschi, visto che peraltro si dice di volere il cantiere TAV per rimanere agganciati all'Europa...).
Migliaia, decine di migliaia di persone che vanno tra alberi e coste a bosco, vecchi bambini donne giovani maschi e sindaci e parenti e serpenti e chiunque abbia desiderato manifestare - che popolo è? Sono gli inquietanti black-block? Sono gli scalmanati sbarazzini di un tempo? Sono i violenti mestatori che fecero e fanno e faranno scendere la notte sulla Repubblica? E che dire del bouncing che l'informazione degli old media ha subìto e sta tuttora sperimentando di fronte agli scotimenti della testa di mezzo mondo, che risponde su Twitter al monologo sempreguale del potere italiano e delle sue leggi d'emergenza eternamente in vigore? Non si parla qui soltanto dei telegiornali berlsuconiani, e cioè tutti tranne il tg3, che sarà sicuramente un telegiornale napolitano. A vedersi escluso dalla storia è il generale atteggiamento di un'intera classe, politica e giornalistica e opinionistica e preoccupata e meditabonda. Non vale affatto il rovesciamento pasoliniano tra borghesi rivoluzionari e poliziotti proletari. I proletari che furono tali, in Italia, secondo l'Istat, sono oggi ben felici del padronato. Però qualcosa sfugge allo schema. Qui e ora si è al di là dell'operaiato fordista e postfordista e di tutte le categorie che hanno retto trent'anni di vicariato della politica in Italia. Senza aderire minimamente alle analisi da Toni Negri dei poveri spiriti, la manifestazione diffusa della violenza e della mobilitazione in un contesto non urbano, anzi naturale, ma con la visuale perenne della connessione, lascia intendere fino a quale profondità sia giunta la frattura tra lo Stato di Cose e le persone che costituirebbero il popolo che si riunirebbe teoricamente nello Stato stesso. Il quale Stato si fotte bellamente dello stato di cose non napolitano, ma napoletano. Il quale Stato effettua una manovra economica doppia rispetto alla greca, però tra un anno, a ribadire l'urgenza che c'è di vararla e che impoverirà ingiustamente, in nome della finanziarizzazione dell'esistenza, milioni di italiani.
Il crollo delle maschere e la diffusione transnazionale delle notizie stanno testimoniando che si compie una facile profezia in Italia, al di là di ingiustificati entusiasmi primaverili: la gente si è rotta i coglioni e, se si rompe i coglioni, non è che si confronta con il televisore - va direttamente dall'unico possibile rappresentante che lo Stato di Cose può schierare di fronte ai cittadini oggi, cioè il Poliziotto. Questo atto è testimoniato. Inizia di un totale inizio una lunghissima battaglia, che è in realtà una guerra, anzi: più guerre. Si incendiano zone sovrapposte del vivere civile: le lotte per l'ambiente, per la dignità della vita, per i diritti inalienabili di un'etica universale, per l'uguaglianza, per l'abbattimento dei filtri all'informazione diffusa.
Ogni inizio segna una fine. Oggi terminano in Italia gli anni Ottanta e Novanta e Zero Zero - compiendo quella trasformazione che ha in piazza Alimonda a Genova il cominciamento autentico e sanguinario di questo inizio.