29 gennaio 2013

Scuola pubblica, sanità, beni comuni: di tutte/i per tutte/i

Manifestazione
Roma 2 febbraio
Partenza alle ore 14 da piazza dell'Esquilino

Il movimento delle scuole dello scorso autunno ha reclamato il diritto ad un'istruzione di qualità per tutte e tutti, contrastando l'ennesimo progetto di tagli alla scuola, attraverso l'aumento dell'orario di la­voro a parità di salario, avanzato dal governo Monti e di aziendalizzazione degli istituti, attraverso la cancellazione degli organi collegiali avanzata nel Ddl Aprea-Ghizzoni. Il governo Monti e il parlamen­to uscente, sconfessato in piazza e nelle scuole da milioni di insegnanti, studenti e cittadini, prova a far passare la privatizzazione attraverso la discriminazione tra scuole più o meno meritevoli di riceve­re i finanziamenti pubblici, che secondo quanto previsto dalla legge di stabilità dovrebbe essere appli­cata dal 2014.
La scuola pubblica è un bene comune, che garantisce un diritto fondamentale, proprio come lo sono la sanità pubblica e la gestione pubblica dell'acqua. Ci sentiamo vicini alle lavoratrici e ai lavoratori della sanità, come la scuola tagliata e ridotta ai minimi termini, e alla cittadinanza che ha chiesto con forza di ripubblicizzare la gestione del servizio idrico e che vede oggi inattuato il risultato referenda­rio. Chiediamo:
    Il rifinanziamento della scuola pubblica statale, restituendo gli otto miliardi di euro indebitamen­te sottratti dal governo Berlusconi e portando il finanziamento in linea con i paesi Ocse. Basta finan­ziamenti alle scuole private! Questo consentirebbe di rilanciare la qualità dell’istruzione pubblica, di­minuendo il numero degli alunni per classe, provvedendo agli interventi edilizi di messa in sicurezza e di adeguamento dimensionale degli istituti, aumentando gli stipendi degli insegnanti e dei lavoratori e garantendo l’accesso a percorsi di formazione permanente.
    L’assunzione dei precari a tempo indeterminato su tutti i posti vacanti, ottemperando alla nor­mativa europea che impone la stabilizzazione dei lavoratori che lavorano da oltre tre anni a tempo determinato nelle scuole.
    Il blocco dei progetti di privatizzazione e aziendalizzazione degli istituti scolastici, a partire dal disegno di legge Aprea – Ghizzoni, per una scuola pubblica democratica, laica e pluralista, che ga­rantisca a tutte e tutti una formazione di base e specialistica critica e indipendente dagli interessi del profitto privato.
    La disdetta del patto sulla produttività e la sua non applicazione al pubblico impiego. Tale ac­cordo scellerato è la via attraverso cui si vuole reintrodurre quello che il movimento ha già rigettato, cioè l’aumento dell’orario di lavoro a parità di salario.
    L'abrogazione dell'articolo 1, comma 149 della legge di stabilità che vorrebbe differenziare in base al "merito" i finanziamenti alle scuole, lasciando ancora più indietro le situazioni di disagio so­ciale, ed imponendo sistemi di valutazione che nulla hanno a che vedere con il ruolo istituzionale del­la scuola pubblica.
Difendiamo i nostri diritti contro le politiche di austerità!
 
Coordinamento Nazionale Scuola
 

Elezioni politiche 2013: Comunicato del Coordinamento Nazionale di Sinistra Critica

Pubblichiamo il documento approvato dal Coordinamento Nazionale di Sinistra Critica a proposito del voto del 24 e 25 febbraio.

Le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio sembrano costituire una vera e propria anomalia nella storia politica del nostro paese.
Lo scontro che si è acceso tra i tre principali schieramenti punta a nascondere all’attenzione degli elettori e delle elettrici il fatto che tutti e tre hanno sostenuto nel recentissimo passato il governo Monti che si è caratterizzato durante tutti i suoi 14 mesi di vita per un’ininterrotta e feroce aggressione ai diritti e a tutte le principali conquiste delle classi subalterne: la distruzione della previdenza pubblica (con la peggiore controriforma pensionistica di tutta Europa), l’annullamento dell’articolo 18 e la reintroduzione della libertà di licenziamento arbitrario, la controriforma degli ammortizzatori sociali, le disposizioni per la svendita del patrimonio pubblico e dei servizi, i tagli lineari agli enti locali, allo stato sociale, alla scuola e alla sanità pubbliche, gli aumenti delle imposte a carico dei redditi più bassi, le misure che hanno creato le condizioni per il crescere dello sfruttamento e della disoccupazione di massa e per il diffondersi della povertà sono state tutte approvate con il sostegno dei partiti di Berlusconi, Bersani, Monti e Casini.
Questi partiti, inoltre, hanno approvato norme e trattati che vincolano il nostro paese a sottostare ai diktat della Troika comunitaria, accettando che tutti i prossimi decenni siano segnati da tagli feroci alla spesa pubblica e ai diritti. Sostengono il fiscal compact e la controriforma costituzionale sul pareggio di bilancio.
Ovviamente anche SEL, per stipulare la sua alleanza strategica e strutturale con il PD, pur non avendo partecipato alla legislatura che si sta concludendo, ha solennemente sottoscritto un impegno al mantenimento di tutti gli impegni europei (e infatti Vendola si dice pronto a collaborare con Monti “sulle riforme costituzionali”, come se questa non fosse un’aggravante).
Quello che dicono questi partiti sul lavoro, sullo sviluppo, sull’equità, sui servizi pubblici, dunque, costituisce una pura ipocrisia elettoralistica per ingannare l’elettorato popolare. Ma in fondo questa sostanziale identità tra i principali schieramenti non avviene per la prima volta, è anzi il tratto distintivo degli ultimi 15 anni.
Questi sono i partiti dell’austerità.
Le liste del “Movimento 5 stelle”, che da qualche anno costituiscono una effettiva novità del panorama politico elettorale, si propongono come unica alternativa basando la propria capacità di presa sull’elettorato su una secca denuncia del carattere parassitario e corrotto della “casta” e cavalcano efficacemente il disprezzo nutrito da ampi settori popolari nei confronti dei politici.
Ma queste pur giuste denunce omettono le responsabilità di chi è realmente fautore delle attuali politiche di austerità: stiamo parlando dei banchieri, dei grandi imprenditori e finanzieri che dopo aver sfruttato ai propri fini le connivenze dei politicanti, oggi sfruttano il malcontento di massa anche per smantellare la politica come luogo del confronto democratico e di costruzione della partecipazione e del consenso. Non a caso Grillo ha strutturato il “suo” movimento in modo totalmente verticistico, con un suo potere assoluto di assenso e di veto su ogni scelta politica. Non a caso le sue critiche ai sindacati non si rivolgono contro il loro carattere burocratico ma piuttosto contro un loro presunto ruolo di intralcio allo sviluppo economico, mentre la disinvoltura nell’assecondare gli umori della piazza lo hanno portato ad ambigue proposte sui diritti degli immigrati e ad equivoci apprezzamenti di una organizzazione fascista come CasaPound.
Di fronte a questo desolante panorama, durante gli ultimi mesi del 2012 si era sviluppato nel paese un movimento di opinione con l’obiettivo di costruire una proposta elettorale nettamente e apertamente alternativa a tutti gli schieramenti che nel corso degli ultimi decenni si sono succeduti al governo.
Attorno all’appello “Cambiare si può” si erano raccolte migliaia di cittadine e di cittadini, di militanti politici, sindacali, ambientalisti, di movimento che, in un processo assembleare fortemente partecipato, hanno delineato la possibilità che quella proposta alternativa vedesse la luce e si sperimentasse nelle prossime elezioni.
Ma le contraddizioni interne al gruppo dei promotori dell’appello e, soprattutto, l’assalto elettoralistico di partiti come il Prc, il PdCI, l’IdV e i Verdi, spaventati dall’idea di non poter nuovamente sedere in Parlamento, hanno fatto approdare quel processo ad un esito che ha gravemente deluso le attese. La successiva costruzione delle liste dei candidati – nella quale spicca una imbarazzante scarsissima presenza di donne – ha confermato questo pessimo metodo, basato sullo scambio tra i partiti e sulle “promozioni” di “esponenti della società civile” direttamente scelti da Ingroia e dal suo enturage. Numerosissimi sono stati coloro che di fronte a questo esito si sono disimpegnati dal sostegno militante ma spesso anche solo elettorale alla Lista Ingroia.
Anche in seguito alla valutazione negativa su questo esito, Sinistra Critica, che pure era intervenuta con convinzione nelle due assemblee nazionali e in decine e decine di assemblee locali per sostenere il processo e le sue caratteristiche radicali e alternative, ha deciso il 28 dicembre di non partecipare al progetto elettorale e quindi di non partecipare ad alcuna “trattativa” per la definizione delle liste, né di proporre alcun/a candidata/o.
Nella risoluzione del Coordinamento nazionale si diceva che “un’eventuale nostra indicazione di voto a favore della lista in gestazione sarà verificata sulla base delle liste e del profilo politico definitivo della coalizione”.
Ora il profilo politico della lista “Ingroia – Rivoluzione civile” è sostanzialmente definito e, pur avendo assunto tra i propri punti alcune delle proposte di “Cambiare si può” esso mantiene tutta la sua ambiguità, un’impostazione aclassista e un asse imperniato unicamente nella lotta alla criminalità, come fosse la sola responsabile delle politiche di austerità e antipopolari: caratteristiche che non possiamo certamente sostenere.
Oltretutto la Lista Ingroia continua a mantenere un atteggiamento di fondo ambiguo nei confronti del PD cercando con esso un’interlocuzione sui programmi; questa disponibilità politica si è manifestata anche nel malcelato tentativo di aprire una trattativa con Bersani per una qualche forma di desistenza nelle liste per il Senato.
Quanto alle liste, infine, esse sono state composte senza alcuna partecipazione dal basso, in una trattativa a tavolino tra i partiti contraenti e i personaggi più in vista della coalizione. La presenza nelle teste di lista di tre ex ministri di governi di centrosinistra responsabili di politiche socialiberiste e perfino di azioni di guerra in Afghanistan e nei Balcani, e di una pletora di politicanti mascherati da “società civile” rischia di annullare il valore di un pur importante numero di candidate/i espressione di movimenti politico-sociali.
Per questo Sinistra Critica non appoggerà né in forma diretta né indiretta la lista “Ingroia – Rivoluzione civile”.
Sinistra Critica in queste elezioni non sosterrà quindi alcuna lista né darà alcuna indicazione di voto seppure critico, pur senza impegnarsi in una campagna astensionistica, e non presenterà proprie liste alle elezioni, ritenendo che su questo terreno non esistano oggi le condizioni, né politiche né organizzative, per una presentazione autonoma né per una presenza anticapitalista più ampia efficace e nuova. Questa presenza va costruita più che mai sul piano delle lotte e dei movimenti sociali, affinché questi possano dare vita a una forte risposta sociale e politica alla violenza dell’attacco della classe dominante.”
L’organizzazione spiegherà con tutti gli strumenti possibili a tutte/i le/gli nostre/i interlocutrici/tori le ragioni di questa scelta.
In ogni caso, siamo certi, purtroppo, che il futuro governo che nascerà dopo le elezioni di fine febbraio, qualunque esso sia, lancerà una nuova fase di politica di austerità sulla base dei diktat della Troika e della Confindustria. Sinistra Critica, perciò, continuerà in tutte le sedi il suo impegno per costruire un movimento di lotta e di resistenza contro queste politiche. Sarà questo il nostro compito fondamentale in tutta la prossima fase.
 
Roma, 24 gennaio 2013
Coordinamento Nazionale di Sinistra Critica

19 gennaio 2013

Spagna: la "Marea blanca”, verso un nuovo sindacalismo?

Pubblichiamo la traduzione di un articolo tratto da Madrilonia.org. L'articolo prova ad analizzare il fenomeno della "marea blanca", una forma innovativa di lotta contro lo smantellamento del sistema sanitario pubblico che sta decisamente andando oltre i confini della vertenza corporativa di settore. 

Lo scorso mese di settembre la Marea Verde in difesa dell'educazione pubblica ha compiuto un anno. Un anno dopo la nascita possiamo quindi affermare che il fenomeno delle "Maree" non è qualcosa di isolato, ma identifica una nuova modalità di organizzazione (di cui la Marea Bianca è la migliore espressione).
Ci proponiamo qui di evidenziarne alcune particolarità per rispondere alla domanda iniziale: le "Maree" configurano una nuova forma di sindacalismo?
1) Dalla difesa del servizio pubblico alla comunità
La differenza essenziale del movimento delle Maree rispetto alla concezione tradizionale del sindacalismo è quella di avere abbandonato la difesa dei servizi pubblici come conflitto corporativo vincolato in forma esclusiva alle rivendicazioni salariali immediate dei lavoratori. Il successo delle mobilitazioni delle Maree Verde e Bianca, si deve al fatto che hanno saputo aprire a tutta la società la questione dei tagli alla spesa. Facendo appello alla comunità come difesa fondamentale dei servizi pubblici, si introduce l'idea che la salute e l'educazione siano appunto questioni comuni, che tutti necessariamente debbano difendere.
Aprendo la problematica alla società nel suo complesso, si inizia a rompere la barriera tra gli utenti di un servizio e personale che vi lavora. Si stabilisce il concetto fondamentale secondo il quale i centri di salute, le scuole, gli ospedali sono spazzi di e per chiunque. Superando così l'idea che un servizio pubblico sia di competenza esclusiva dell'amministrazione pubblica.
Negli ultimi anni, l'attacco neocon contro i pubblici dipendenti aveva fatto leva sulla condizione di privilegio di questi lavoratori rispetto ad altri, per le condizioni lavorative migliori e più stabili “pagate da tutti noi”. Le Maree hanno però dimostrato che non lottano solo per mantenere questi benefici sociali ed inoltre hanno reso visibile l'alto livello di precariato nel pubblico impiego (lavoratori impiegati nel settore pubblico in attesa del concorso per l'assegnazione definitiva del posto di lavoro, esternalizzazioni, subappalti). I conservatori liberali li accusavano anche di essere “pigri”, di “non fare nulla”, di “approfittare della loro condizione privilegiata”; le Maree hanno dimostrato che tanti dipendenti pubblici tengo moltissimo al loro lavoro e sono disposti a rinunciare al salario (con gli scioperi) e ai privilegi (rinunciando a incarichi di alto livello) per difendere il servizio.
Questa apertura è ricca inoltre di relazioni, complicità, intese costanti tra la comunità ed i lavoratori che creano un legame sociale, un vincolo che favorisce l'appoggio alle lotte e che trasforma ogni persona in un co-partecipante alle mobilitazioni.
2) Scioperi serrati, presa della città e comunicazione
Nelle ultime settimane abbiamo visto intensificarsi la campagna per “regolare il diritto di sciopero”. Ed il motivo è uno solo: le Maree hanno posto al centro dell'azione gli scioperi serrati, facendoli diventare uno dei meccanismi essenziali del conflitto.
E' ovvio che per bloccare la dinamica di funzionamento del proprio servizio pubblico è necessario bloccarlo in modo più o meno costante. Ciò ha costituito un dibattito intenso all'inizio della Marea Verde (sciopero a oltranza o sciopero momentaneo), mentre nel caso della Marea Bianca lo sciopero a oltranza ha rappresentato la costante ed è riuscito a reggere perché ha incorporato due elementi che possono essere fondamentali per comprenderne il successo: un sistema di rotazione che ripartisce il peso economico dello sciopero e uno zelo particolare nel mantenere una scrupolosa copertura dell'assistenza sanitaria per quelle persone o situazioni che più ne hanno bisogno.
Questo sciopero serrato non si limita solo al blocco del servizio, ma si accompagna ad un'altra serie di questioni come la democrazia, la governabilità e l'occupazione dello spazio urbano,  che puntano ad imporsi nelle vertenze aperte con l' amministrazione pubblica. 
Le Maree si prendono le città con grandi mobilitazioni che bloccano la circolazione e che attraversano i mezzi di comunicazione dimostrando l'ingovernabilità della situazione. Si tratta di produrre disordine, di dimostrare un'anomalia. Così lo sciopero si accompagna con chiusure, con azioni di disobbedienza civile, incluso la pressione diretta sulle istituzioni circondando il palazzo del parlamento a Madrid o i palazzi delle amministrazioni locali.
Tutto ciò costruito con una forza comunicativa indipendente capace di arrivare ad un'ampia platea tramite la comunicazione sui social network e un' impressionante diffusione di strumenti più tradizionali (cartelli, striscioni, adesivi, magliette...).
Relativamente all'uso dei social network, esso risulta particolarmente rilevante nella Marea Bianca, dove invece di avere un unico “account della Marea”, ce ne sono differenti aperti nei diversi luoghi di conflitto e l'idea stessa della Marea è un logo aperto, comune, accessibile da chiunque. Inoltre la strategia comunicativa ha potuto contare, sia per la Marea Bianca che per la Marea Verde, sull'ampia produzione di conoscenza teorica-tecnica per attaccare uno ad uno gli argomenti utilizzati dalla Comunità di Madrid per giustificare i tagli.
3) Paradosso sindacale e democrazia organizzativa
C'è il paradosso che quanto più strutturate e potenti sono le organizzazioni sindacali tradizionali dei servizi pubblici, più difficile risulta che le dinamiche delle Maree si sviluppino completamente. Così, la Marea Blanca che dovrebbe avere in teoria meno potenziale sindacale nel senso classico (a parte la presenza degli ordini professionali o i sindacati di tipo corporativo) rispetto al settore dell'educazione pubblica, è capace di generare una dinamica di maggior conflitto. D'altro canto invece, i servizi di trasporto pubblico o di comunicazione, con livelli più alti di sindacalizzazione, incontrano molte difficoltà a sviluppare questi tipi di pratiche e produrre un'alleanza "lavoratori-utenti" che è la chiave per l'estendersi del conflitto. Nell'ultimo sciopero della metropolitana di Madrid abbiamo potuto notare come queste differenze diminuiscano lievemente perché i social network hanno attivato un effetto di mutuo riconoscimento. Lo sciopero però non si è configurato come una Marea. Non ci sono cartelli scritti a mano che nei corridoi nella metropolitana spieghino le ragioni de conflitto, non ci invitano a mobilitazioni creative tipo "io non pago", per aumentare la partecipazione delle persone alla lotta, perché lo assumano come qualcosa di proprio. Non c'è personale nei vagoni o alle uscite della metropolitana che spieghi che la mobilitazione è per la difesa di un servizio pubblico e non solo per mantenere certe condizioni di lavoro.
Qualcosa di simile succede con le mobilitazioni in difesa di Telemadrid, con grandi difficoltà per rendere “comune” una televisione che è stata la punta di lancia della manipolazione informativa nella Comunità di Madrid (anche se con l'opposizione, questo si, delle lavoratrici e dei lavoratori).
La Marea Verde è stata chiaramente attraversata, fin dal principio, dalla relazione conflittuale che si produce nei differenti ambiti tra le istituzioni politiche tradizionali e le nuove forme di espressione politica, nate a partire dal 15M. Organizzata in forma assembleare nel quadro dell'esplodere della manifestazioni del 15M da precari, dipendenti col posto fisso e in seguito da una parte del settore dell'educazione, si è trovata a fare i conti con alcuni sindacati maggioritari che mantenendo una posizione di ascolto e favorendo degli spazi di incontro, volevano al tempo stesso restare a tutti i costi come capi riconoscibili ed interlocutori necessari rispetto alla Comunità di Madrid, a prescindere dal fatto che questa li ignorava sistematicamente.
I sindacati concertativi, che vedevano la Marea con interesse (per le potenzialità) e con sospetto (perché questa potenza poteva mettere in crisi la loro egemonia) si posizionarono per limitare la portata della mobilitazione nel timore di una possibile sconfitta che li lasciasse in una situazione ancora peggiore.
4) Possiamo sognare?
Immaginiamo uno sviluppo di queste dinamiche di Maree come realtà socio-sindacali di tipo nuovo. Potremmo pensare strutture sindacali nelle quali l'insieme di coloro che non lavorano in quel servizio pubblico, le e gli utenti abbiano voce e voto? E' possibile democratizzare le organizzazioni sindacali per porle al servizio di una dinamica comunitaria? Che tipo di rivendicazioni si potrebbero produrre? Possiamo pensare a un nuovo sindacalismo non solo in difesa delle condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici, ma anche per la difesa e lo sviluppo dei servizi pubblici che offrono? Che potere può avere in questo contesto il resto della società? La proposta delle Maree si può estendere a settori che non siano il pubblico impiego? Può sopravvivere il sindacalismo così come l'abbiamo conosciuto finora se non fa proprie queste posizioni?

Madrilonia 10/01/2013

15 gennaio 2013

Tunisia, anniversario amaro

di Annamaria Rivera*
Tunisi, 15 gennaio 2013, Nena News - A due giorni dal secondo anniversario della rivoluzione tunisina, il 12 gennaio scorso, un ennesimo giovane disoccupato si è dato fuoco in pubblico, questa volta a Mnihla, quartiere povero e densamente popolato della periferia di Tunisi. Lo apprendiamo da una velina di due righe, replicata tal quale da tutti i mezzi d'informazione: nessun giornalista, nessuno dei tanto celebrati blogger si è dato la pena di percorrere i pochi chilometri dal centro della capitale a Mnihla per andare a informarsi sulla biografia, la sorte dello sventurato, le ragioni e le circostanze del suo gesto.
Ancora suicidi per fuocoQuesto suicidio per fuoco è solo il più recente di una lunga serie che ha continuato a snodarsi nel corso della cosiddetta transizione. Esso, tuttavia, non potrebbe essere più emblematico. Proprio qui, giusto due anni prima, il 12 gennaio 2011, era scoppiata una delle rivolte popolari che, partendo dalle regioni dell'interno più povere ed emarginate, sarebbero divenute il sollevamento popolare che ha affossato il regime. A Mnihla e Ettadhamen (che costituiscono un'unica municipalità), i rivoltosi saccheggiarono un magazzino, incendiarono una banca e si scontrarono con la polizia, che uccise due giovani e ne ferì altri.
È molto probabile che l'anonimo giovane disoccupato fosse uno di quei rivoltosi. Il che la dice lunga sulla disperazione di massa per la rivoluzione tradita ed espropriata ai suoi protagonisti: la racaille che niente ha guadagnato da un'insurrezione pagata con un pesante tributo di sangue e repressione. Questa «plebaglia», della quale sono parte tanti giovani disoccupati con un livello d'istruzione alto, oggi vive una condizione ancor più intollerabile: colpita dall'aumento vertiginoso della disoccupazione e del costo della vita nonché dall'aggravarsi delle disparità sociali e regionali; emarginata in agglomerati urbani abbandonati al degrado e alla povertà crescenti; stretta nella tenaglia tra il salafismo dilagante nei quartieri popolari e l'arbitrio e la violenza delle forze dell'ordine; sempre pronta, tuttavia, a ribellarsi, con sommosse ricorrenti ed effimere che quasi nessuno è in grado o vuole organizzare. Oppure, quando le organizza, è pronto a sacrificarle sull'altare di qualche accordo col governo di turno.
È accaduto a Siliana alla fine di novembre quando, durante un lungo sciopero generale sostenuto dall'Ugtt, la più importante centrale sindacale, la polizia ha ferito e/o accecato con fucili a pallettoni quasi trecento manifestanti. Per aver denunciato e condannato fermamente la violenza delle forze dell'ordine, il sindacato ha subìto un attacco alla sua sede centrale, a Tunisi, da parte degli scherani delle cosiddette Leghe di difesa della rivoluzione (in realtà milizie al servizio di Ennahda). Ma subito dopo la sua dirigenza nazionale, come consueto nella storia dell'Ugtt, infine ha ceduto: ha revocato lo sciopero generale nazionale, proclamato poco prima, e lanciato la proposta del dialogo con lo screditato governo provvisorio di Jebali, peraltro formalmente decaduto.
«La conquista del bla-bla»
Qualcuno ha scritto su Nawaat, uno dei blog più noti e impegnati, che la sola conquista della rivoluzione è stato il bla-bla: «Il piacere gratuito di conversare liberamente, di dire tutto e qualsiasi cosa senza sentirsi spiati». Il che è vero solo parzialmente. Se è innegabile che la rivoluzione ha liberato la parola pubblica e infranto la cappa di paura, è altrettanto evidente che la libertà di espressione è tutt'altro che garantita, come ha denunciato in un rapporto di pochi giorni or sono anche Amnesty International.
Si aggiunga che tuttora consuete sono pratiche come la repressione violenta delle manifestazioni, gli arresti illegali, la detenzione in prigioni segrete, perfino lo stupro, la tortura e l'omicidio in carcere e nelle caserme di polizia. Ad apparati repressivi e giudiziari rimasti sostanzialmente gli stessi si è aggiunto il bigottismo islamista quale strumento statuale di controllo e repressione. A tal proposito basta ricordare tre episodi. Il 28 marzo 2012, Ghazi Beji e Jaber Mejri, due giovani di Mahdia, sono condannati a sette anni e mezzo di carcere (il primo è riuscito a fuggire in Europa, l'altro è in prigione), per aver postato su Facebook immagini e scritti giudicati blasfemi.
Fra settembre e ottobre scorsi, una giovane che era stata fermata col suo compagno e stuprata da tre poliziotti, è denunciata e processata per oscenità in luogo pubblico, come ritorsione per aver osato rivelare la violenza subita e accusare i suoi stupratori. Per fortuna, incalzata dall'indignazione e dagli appelli internazionali, la Corte ha deciso per il non luogo a procedere. Infine, è di pochi giorni fa la notizia di una ragazza di meno di vent'anni e del suo altrettanto giovane compagno condannati a due mesi di prigione per essersi abbracciati per strada.
Insomma, a due anni dalla fuga di Ben Ali ben poco c'è da festeggiare in Tunisia. V'è chi è arrivato a scrivere che il secondo anniversario della rivoluzione del 14 gennaio è un giorno di lutto. E gli abitanti di Sidi Bouzid, la città di Mohamed Bouazizi, hanno deciso di boicottarne le celebrazioni. In effetti la ricorrenza cade in un contesto di crisi e d'inflazione economica, di forte tensione politica, di scontri, anche assai violenti, tra fazioni religiose e politiche, di profondissimo malcontento popolare e assenza di prospettive.
Il Forum sociale a marzo a Tunisi
È in questo quadro, tutt'altro che roseo, che si svolgerà a Tunisi, dal 26 al 30 marzo, il 12° Forum Sociale Mondiale. In una fase migliore della transizione, la Tunisia era stata scelta a giusta ragione in quanto culla delle «primavere arabe» e paese che vanta un ricco tessuto associativo. Oggi che le cose sembrano volgere verso un esito problematico e incerto, il Forum potrebbe comunque agire da stimolo per una nuova ondata di rivendicazioni e lotte popolari, questa volta organizzate. Purché esso si sottragga al rischio d'essere usato come fiore all'occhiello del nuovo regime. Non è un'ipotesi peregrina: nella tradizione dei regimi tunisini, di quello benalista in specie, v'è l'abilità nel servirsi della retorica dei diritti umani e della «società civile» per accreditarsi agli occhi dell'Europa e delle istituzioni internazionali. Nena News

*Questo articolo e' stato pubblicato il 15 gennaio 2013 dal quotidiano Il Manifesto.

Crisi del capitalismo e alternativa di società (relazione dal titolo provvisorio)

di Marco Bertorello
Questa relazione ha un titolo fuorviante, poiché potrebbe apparire come una relazione sulla crisi attuale del capitalismo e la conseguente proposta alternativa. Un tema non originale, se vogliamo, ma spesso anche generico. Il mio intento invece è un altro, per questo ha un titolo un poco fuori tema. Quello che in questa sede proverò ad affrontare è come, data la crisi strutturale, è possibile prefigurare più concretamente un modello socio-economico alternativo. Considerata la difficoltà dell'argomento, qui verrà avanzata una proposta necessariamente abbozzata, e perciò vorrei che il titolo della relazione venisse stabilito al termine della nostra discussione, a conferma collettiva sulla possibilità di avanzare nel dibattito presente a sinistra un nuovo modello socio-economico di gestione della società. Questa ricerca di conferma collettiva mi pare essenziale per poter procedere seriamente sul tema, in quanto complesso e non risolvibile da alcuna individualità. Un'ultima considerazione preliminare ha a che fare con il fatto che mi è chiaro che per quanto si possano avanzare idee e proposte brillanti, non potranno essere risolte le attuali contraddizioni sulla base di un'elaborazione teorica che non trova riscontro e non viene suffragata dalla realtà sociale, dai conflitti della contemporaneità. Quello, dunque, di cui dobbiamo tener conto è come proporre un discorso che possieda una sua razionalità intrinseca e al contempo risulti leggibile e in sintonia con la realtà politica e culturale esistente. É necessario avere il senso dei nostri limiti e dei limiti di una proposta intellettuale se non incontra la materialità di cui parla.
La crisi rende matura la prefigurazione di un'alternativa 
In questi anni abbiamo avanzato proposte per affrontare la crisi, proposte che avevano un evidente connotato radicale, richiamando un cambio di passo, uno scarto rispetto all'esistente. Dalla ristrutturazione dei debiti sovrani alla creazione di una nuova finanza pubblica, dalla difesa e il rilancio delle tutele per il lavoro a una decisa redistribuzione dei redditi. Ma tutto ciò non è abbastanza. I nostri interlocutori spesso ci chiedono una visione d'insieme. Alla critica radicale dell'esistente è giunto il momento di far corrispondere una progetto che specifichi l'alternativa di società auspicata. É tempo di avanzare una proposta organica, una proposta che faccia comprendere meglio e concretamente ciò che vogliamo in alternativa al capitalismo. É tempo di mettere le mani nel piatto di una discussione che da troppo tempo abbiamo rinviato, o peggio considerata acquisita o scontata. La profondità della crisi sta rendendo matura la prefigurazione dell'alternativa. Non è più sufficiente il richiamo a un generico, per quanto profondo, cambiamento. Abbiamo affiancato al termine crisi due aggettivi come fossero sinonimi: strutturale e sistemica. Giuseppe De Marzo ci ricorda come mettano in evidenza due aspetti tra loro differenti. La crisi è strutturale in quanto «l'intreccio, l'interazione e la complessità delle crisi mostrano i fallimenti e i limiti del modello di sviluppo dominante», mentre è sistemica in quanto «la portata della crisi investe il paradigma di civilizzazione mettendo in discussione l'impianto etico sul quale è costruita l'egemonia del modello di sviluppo attuale»1. Come sosteniamo da alcuni anni, in campo liberal-liberista non viene proposto un percorso di vera e propria uscita dalla crisi, solo palliativi che non sono in grado di risolvere le contraddizioni che stanno alla radice, ma che nella migliore delle ipotesi rimandano i problemi quando non li incancreniscono. Dal 2008 periodicamente viene annunciata l'uscita dal tunnel, ma dopo poco si ripiomba nei medesimi problemi, magari a partire da un luogo propulsore differente. L'esplosione dei mutui sub-prime parte dagli Usa per irradiarsi sulla finanza mondiale, successivamente l'Europa è preda di debiti sovrani divenuti sempre più insostenibili a causa della necessità di fronteggiare i debiti privati, e ogni volta i paesi emergenti hanno visto ridurre i loro ritmi di crescita, finendo per non rappresentare una concreta e autonoma via d'uscita. Il corto circuito appare insuperabile. Le ricette neoliberiste e, in subordine, quelle neokeynesiane, non appaiono essere all'altezza dei problemi. La crescita non è data né con nuove iniezioni di protagonismo privato, per la verità sempre più evanescente, né con interventi pubblici, siano essi di natura meramente monetaria sia di sostegno alla domanda. Da questa condizione è andata emergendo una crisi non solo strutturale, ma persino di credibilità del sistema. La sconfitta senza appello dell'esperimento comunista non riesce a concedere che pochi anni al modello vincente. Nonostante l'assenza di una credibile alternativa il modello egemone va in crisi obbiettivamente a tal punto da far riemergere una critica sistemica. Cioè torna, seppur con minore forza (almeno per il momento), un dissenso che prova ad andare alla radice degli attuali meccanismi. Torna in campo, dunque, una pars destruens che mette in discussione gli elementi fondanti dell'accumulazione capitalista. Tale tendenza non solo va emergendo sul versante politico-culturale, ma sta tornando in forme non sempre coscienti e conseguenti, anche in una dimensione popolare e tra le classi subalterne. La crisi, infatti, nel fagocitare soggetti differenti, nel produrre un vasto impoverimento, rimescola le carte anche sul versante sociale, scompaginando vecchi confini, mandando all'aria i recinti delle classi medie, delle professioni, del lavoro autonomo e di quello salariato. Potenzialmente torna la disponibilità all'ascolto e alla diffusione di istanze radicali. Paradossalmente potrebbero emergere nuove culture anti-sistemiche che non necessariamente dovrebbero rivolgersi al populismo di destra. 
In questo contesto trova ragione la necessità di ricercare una pars costruens che non sia semplicemente la sommatoria di molteplici proposte settoriali, sempre utili, ma spesso incapaci di dare un senso compiuto alla critica. Una proposta che provi a dare risposte sistemiche, cioè in poche parole, che provi a rispondere alla domanda che spesso sentiamo rivolgerci: «ma voi che cosa proponete?». Il perimetro, dunque, è segnato dal terreno socio-economico e l'intento è quello di ragionare se e come sia possibile avanzare meccanismi di gestione della società che siano in grado di superare i limiti del capitalismo dominante e insieme quelli drammaticamente emersi nei precedenti tentativi di un suo superamento. In tal senso vanno individuati strumenti propulsori di una nuova società che siano in grado di sostituire quelli attuali, fondati sulla ricerca del profitto e dell'accumulazione del capitale, e che consentano il suo più o meno stabile riprodursi sia nelle fasi della sua affermazione sia, soprattutto, in quelle della sua “normalità”, cioè nella routine quotidiana. Avendo ben presente che le seconde saranno decisamente più prolungate delle prime.
Attualità della pianificazione  
Le classi dirigenti del capitalismo hanno sempre considerato questo sistema migliore degli altri nonostante il precipitare periodico in fasi di crisi. La celebre affermazione di Churchill secondo cui il capitalismo è il peggiore sistema che abbiamo, a parte tutti gli altri che abbiamo provato, dava il senso della convinzione di superiorità con cui veniva affrontato il tema. Ovviamente era presente la propaganda della classe vincitrice, l'ideologia che rimuoveva colonialismo, genocidi e guerre, ma tale atteggiamento prendeva le mosse dalla convinzione che l'economia di libero mercato producesse una società tendenzialmente giusta e soprattutto che avesse la capacità di funzionare. Un'efficacia che naturalmente trovava la sua forza non tanto in apparati repressivi, quanto in quelli economici e conseguentemente culturali. Il capitalismo produceva diseguaglianze e ingiustizie contemporaneamente alla capacità di produrre egemonia attraverso la finzione del mercato e del libero incontro tra domanda e offerta. Riuscendo a porre un velo ideologico sopra la strutturale sperequazione prodotta da tali meccanismi di scambio. La forza intrinseca di questo meccanismo però era riposta su una sua presunta naturalità delle relazioni che sapeva affermare attraverso la messa a valore delle spinte individuali che avrebbero fornito benefici collettivi. La teoria era, e spesso è stata convalidata, che il perseguimento del bene personale produceva automaticamente il miglior bene possibile per la società nel complesso. Questo approccio è andato in corto circuito. I meccanismi che erano considerati naturali non sono stati sufficienti a far funzionare il sistema, da cui immissione di montagne di denaro, protagonismo della mano pubblica per salvare le società troppo grandi per fallire, ecc.. A destra si è parlato di socialismo che andava a sostituire il mercato, non rendendosi conto che dietro alcuni provvedimenti, che erano la negazione alla radice dell'economia di mercato, si nascondeva l'estremo tentativo di salvare proprio l'economia di mercato, o meglio i suoi principali attori. La crisi, quindi, ci consegna un panorama che non ha saputo salvarsi con le consuete regole, anzi, nonostante la vistosa deroga, i problemi strutturali non sono stati risolti. Siamo in piena crisi economica, sociale ed ecologica. Il sistema naviga a vista senza avanzare soluzioni all'altezza delle contraddizioni emerse e senza alcun respiro di lungo periodo. Questo quadro muta i compiti per chi si pone in contrapposizione all'esistente. Alla crisi socio-economica strutturale e sistemica va contrapposto un progetto in positivo di regolazione socio-economica basato su altri presupposti. Vanno fornite al cambio di paradigma teorico gambe per marciare. Fuori dall'economia di mercato e dall'egemonia del capitalismo per cosa? La risposta che provo ad avanzare è la pianificazione e la programmazione. Di per sé non è una novità, ma allo stesso tempo non deve essere interpretata come una riproposizione del fallimento effettuato nei paesi cosiddetti socialisti. Per essere chiari non c'è nessun rimpianto per quei paesi, nessuna nostalgia. L'attualità della pianificazione e della programmazione socio-economica, dunque, deriva dall'attuale crisi e al contempo dall'impossibilità di riproporre vecchi schemi e modelli. Ma concetti come quelli di pianificazione, se definiti a partire dalla realtà odierna, possono risultare credibili. Una certa attenzione pare persino emergere nel dibattito. Toni Negri e Michael Hardt nel parlano diffusamente nel loro ultimo pamphlet2, e lo riprenderemo in seguito in chiave critica, ma considerata la loro puntuale attenzione alle novità per ora confermano di come la pianificazione possa diventare elemento dirimente di un nuovo pensiero critico. Emiliano Brancaccio e Marco Passarella hanno dedicato al tema in oggetto un capitolo dal titolo «Modernità della pianificazione». Gli autori partono dalla considerazione di come allo stato attuale non siano risolutive politiche economiche incentrate sul rilancio della domanda e concludono:
L'esigenza che si pone, allora, non può che consistere nella definizione di un meccanismo di sviluppo che ridimensioni il ruolo dei prezzi di mercato, e in particolare dei prezzi che si formano sui mercati finanziari, nella determinazione del livello e della composizione della domanda e della produzione. Come è noto esiste un solo modo razionale per approssimarsi a un tale obiettivo: occorre riprendere e attualizzare il tema della «pianificazione». Bisogna cioè indagare sulla potenziale modernità del «piano», nelle sue varie declinazioni. Perché il piano rappresenta, in fin dei conti, il punto di riferimento concettuale per tutte le soluzioni di sviluppo che si differenzino, almeno nelle linee essenziali, dalla meccanica dell'odierno regime di accumulazione trainato dalla finanza privata.3
Non penso sia un caso che questo tema con questa chiarezza venga proposto nel 2012 da economisti che in qualche misura si potrebbero definire «post-keynesiani». Questi autori naturalmente tracciano una possibile prospettiva che andrà arricchita di contenuti e fatta vivere nelle lotte e negli obiettivi di trasformazione della contemporaneità, ma che per il momento descrive come la questione della pianificazione rappresenti lo sviluppo delle attuali critiche alla realtà esistente. La necessità di pianificare emerge da varie tendenze che non necessariamente provengono da sinistra e neppure dalla politica in senso stretto. Gennaro Matino, docente di teologia pastorale, mette in relazione in un recente libro4 i termini utopia e pianificazione per «rilanciare speranza in tempi disperati», consapevole, dal suo punto di vista di religioso, di come la crisi non si esaurisca certo nella dimensione economica. Matino poi, citando un testo di Lorenzetti del 1982, propone una mediazione politica per consentire «una programmazione democratica dell'economia che vada oltre la logica capitalistica della produzione». Un punto di vista magari diverso e poco famigliare per chi scrive, ma sufficiente per confermare di come vi sia una spinta obiettiva verso un ragionamento su controllo e progettazione sociale dell'economia. Questo tema, va sottolineato, penso sia nelle corde del vivere odierno, sia il frutto delle attuali contraddizioni. Se queste appaiono insuperabili nel campo del capitale viene spontaneo e più comprensibile che in passato porre l'accento su un'altra impalcatura della società e dell'economia.
Un nuovo contesto, una nuova acquisizione 
Esistono due elementi che rendono il tema diverso rispetto al passato, e per questo motivo più aderente alle dinamiche odierne. Il primo è di ordine oggettivo e sostanziale. In passato comunismo e socialismo hanno dovuto, e per molti aspetti voluto, misurarsi con il capitalismo dentro una gara basata su parametri quantitativi e qualitativi sostanzialmente stabiliti dal modello capitalista. Senza in questa sede approfondire la dimensione antropologica che questo approccio avrebbe soddisfatto, si tratta di registrare come la questione ecologica modifichi alla radice le coordinate della partita. Tale obiettivo possiede intrinsecamente una natura socio-economica ben precisa, in quanto l'inquinamento e il progressivo esaurimento delle risorse non colpiscono in maniera indifferenziata tutte le classi sociali. Esistono dei segmenti sociali, e sono la maggioranza della popolazione globale, che vengono colpite prima e più duramente dalla distruzione della natura. In questo caso il fallimento del capitalismo è macroscopico, ma soprattutto più grave, perché oltre a produrre ingiustizie e diseguaglianze, determina distruzione globale. È ormai chiaro come le libere dinamiche del capitalismo non solo non riescano a invertire la rotta, ma acuiscano costantemente il problema. I continui fallimenti dei vertici mondiali ne sono la rappresentazione plastica.
Una nuova società non può ambire a fare di più e meglio di quella capitalista, bensì a fare diversamente. Si impone una nuova gerarchia dei valori e delle priorità da perseguire. La sopravvivenza eco-sistemica impone di stare su un altro piano. L'incombenza ecologica impone un differente terreno di confronto/competizione tra capitalismo e modello alternativo. Non può essere una dissennata quanto disastrosa rincorsa quantitativa su produzioni e consumi a determinare la superiorità di un sistema rispetto all'altro. In questo senso mutano significativamente le coordinate per misurare il grado di efficienza di un sistema socio-economico. Il nuovo modello deve funzionare primariamente per salvare la Terra, per evitare la distruzione della nostra specie. Ricchezza e consumi sociali devono divenire inevitabilmente delle subordinate a questo meta-obiettivo. La rincorsa sovietica per superare il mondo occidentale, ammesso che in passato abbia avuto un senso, oggi non ha più ragion d'essere. Non è la sconfitta sul piano quantitativo che dobbiamo temere.
Vale la pena considerare che il marxismo e il pensiero liberale sono stati imbevuti di positivismo e affascinati dal mito tecnicista. L'Urss grazie alla tecnica non solo riusciva a lanciare per prima un essere vivente nello spazio, ma poteva raggiungere obiettivi quantitativi che si sarebbero tramutati presto in vantaggi socio-economici per tutti. In principio il socialismo in Russia doveva essere Soviet ed elettrificazione; repentinamente è andata a finire che i Soviet sono stati svuotati e l'elettrificazione ha contribuito a costruire edifici industriali non dissimili, per disciplina e alienazione, a quelli presenti in Occidente. Risultato: poca o niente emancipazione, livelli di inquinamento e devastazione ambientale paragonabili, in alcuni casi persino peggiori, a quelli prodotti dal capitale.
Il secondo punto riguarda invece la sfera politico-strategica e la cultura politica sottostante. La società alternativa dovrà ribaltare uno degli assunti che sottotraccia ha caratterizzato il marxismo quanto il liberismo. Cioè la staticità della società comunista per i marxisti e di quella dominante per i liberisti. In qualche misura l'ambizione di entrambi i filoni politico-culturali era il raggiungimento di una «fine della storia», un punto di approdo in cui le principali, se non addirittura tutte, contraddizioni fossero risolte. La tensione per raggiungere una fase di calma, di pace sociale. Il problema per il marxismo proviene dai suoi primi protagonisti. Marx ed Engels ne «L'ideologia tedesca» descrivono una società futura che nel suo semplicismo risulta caricaturale
Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile oggi fare questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico. [Marx K., Engels F., L'ideologia tedesca, p. 24]
Questa descrizione impregnata di messianesimo segna, magari in misura diversa, tutte le correnti marxiste. La brama di una società senza contraddizioni, la lotta per il cosiddetto Sol dell'avvenir non ha contraddistinto unicamente il filone marxista che si è fatto Stato. Si è affermata una visione religiosa che è giunta fino a noi.
Ribaltare questo assunto implica pensare alla società di domani come una società in continuo movimento, profondamente caratterizzata dal disequilibrio, in costante tensione verso un equilibrio mai raggiungibile in maniera definitiva. Questo è l'approdo più credibile: un contesto in disequilibrio che cerca un equilibrio provvisorio, pronto a un ulteriore cambiamento. Questa sarebbe l'unica società davvero aperta. Dove il conflitto è congenito, non espunto una volta per tutte dalle consuete formule di convivenza. Perciò la pianificazione socio-economica non può che essere un permanente esercizio di messa a punto, di ridefinizione sulla base delle necessità in continua evoluzione e dei limiti emersi. Libertà significa riformulazione continua delle coordinate politiche, economiche e sociali verso assetti egualitari e giusti. Si pensi alle molteplici contraddizioni che non si esauriscono certo con il cambio di status della proprietà, ma che per certi versi hanno una natura più profonda che ha le radici nella differenza tra i sessi, nei gusti sessuali oppure nell'etnia.
La crisi della narrazione capitalistica interrompe l'approccio progressivo liberale, crea un vulnus nella crescita esponenziale del capitale e di conseguenza nelle dimensioni di dominio prevalenti. L'instabilità è vissuta oggi dal capitale con intolleranza. Nella società auspicata, invece, deve essere interpretata come fattore positivo, come intrinseca a un modello radicalmente democratico che ricerca costantemente il soddisfacimento dei bisogni comuni e individuali. Nella narrazione di una società alternativa, dunque, il disequilibrio si trasforma da necessità in virtù. Da problema a elemento regolatore da cui partire per tornare successivamente lungo un ciclo in perenne divenire.
Privato e statale versus pubblico (o comune)
Se l'economia di mercato e il dominio del capitale, smentendo persino le loro logiche di libero mercato, hanno aumentato il ruolo di monopoli e rendita, non riuscendo a dare soluzioni strutturali e sistemiche e se la crisi ecologica sta raggiungendo un punto di non ritorno, allora si tratta di entrare nel merito di quali possono essere i nuovi meccanismi socio-economici che dovrebbero arginare queste tendenze. La prima questione da affrontare con nettezza consiste nel fatto che, come in una legge del pendolo, l'economia deve ritornare a porre l'attenzione e le sue principali energie sul versante pubblico. Dal privato al pubblico dunque. Vedremo successivamente che pubblico non dovrà equivalere in maniera totalizzante alla dimensione collettiva, ma per il momento si tratta di sottolineare come è possibile contrastare la privatizzazione dell'economico attraverso la pubblicizzazione dell'economico. Una sorta di equidistanza del privato e del pubblico per andare, come spesso si sente affermare, oltre, per raggiungere il comune o la socializzazione, rappresenta un salto logico oltre che politico. La sconfitta delle trame privatiste si afferma con il primato del ruolo pubblico. Questo passaggio rappresenta un prerequisito per qualsiasi sperimentazione che vada nel senso della socializzazione. Utilizzo il termine pubblico e non statale, in quanto ritengo che meglio esprima la necessità di superare la contrapposizione tra Stato e privato mediante l'affermazione di una nuova proprietà di tutti. Cioè a dire che le passate e odierne proprietà statali di servizi e industria non possono in alcun modo rappresentare un modello. Non solo per un uso sempre più marcato in senso privatistico di tali risorse, ma per le modalità di gestione aziendale slegate da un legame sociale e poi per l'assenza di una classe dirigente e gestionale con la volontà di una funzione pubblica. Guido Viale nella recente vicenda Ilva di Taranto mette bene a fuoco la questione. Non si tratta come chiede «Bertinotti e altri come lui» di nazionalizzare la fabbrica, perché il problema sarebbe da chi verrebbe governata. I manager dell'industria di Stato non ci sono più e in una situazione come questa non avrebbero la cultura per salvare ambiente, produzione e occupazione. Dato che riguardo a un'industria pubblica siamo nel deserto, tanto vale non ricominciare da zero, ma da «quello che già c’è, per imboccare una strada del tutto diversa. E quello che c’è è il Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti, che quella fabbrica la conosce perfettamente come conosce perfettamente la città e i suoi malanni, ed è ben radicato in entrambe. Ma che ha anche i collegamenti e i titoli per chiamare a raccolta una miriade di competenze tecniche, economiche, ambientali, sanitarie e sociali per costituire innanzitutto il nucleo di una struttura di controllo sulle prossime mosse del management aziendale e dei governi, sia quello nazionale che quelli locali; ma poi anche per candidarsi alla gestione del risanamento del sito e del territorio e di una produzione siderurgica ridimensionata e impostata su basi nuove e più sane»5. Insomma per tante industrie in crisi, magari inquinanti, si tratta di uscire dal dilemma tra occupazione malata e disoccupazione salubre non attraverso lo slogan facile e che richiama vecchi fallimenti come quello delle «nazionalizzazioni». Si tratta di evidenziare come l'alternativa al privato non sia la statalizzazione che abbiamo conosciuto nel comunismo reale e nelle esperienze keynesiane, ma una nuova ed inedita riappropriazione collettiva e dal basso dei principali strumenti dell'economico. Solo attraverso questo bagno delle grandi proprietà nel potere pubblico e diffuso sarà possibile sperimentare differenti forme di gestione. Qui il dilemma (affrontato sicuramente nelle relazioni che mi hanno preceduto) è come trovare formule e canali che realizzino e successivamente stabilizzino forme di partecipazione e di potere collettivo, cercando da un lato di prevenire fenomeni di burocratizzazione e separatezza e dall'altro di verificare come queste forme di gestione possano dare vita a organismi che effettivamente forniscano beni e servizi comuni in forma egualitaria e non discriminatoria. Questo obiettivo potrebbe forse essere confrontato con il comune di cui parla Toni Negri, ma con la chiarezza che non esiste passaggio che annulli la grande proprietà privata se non attraverso una pubblicizzazione di essa, nelle forme e nei modi da sperimentare. Necessarie diventano forme nuove di governo della società, che prevedano una ripartizione dei compiti a rotazione, una divisione del tempo di lavoro tra impegno professionale e politico-rappresentativo. Una sorta di istituzionalizzazione del ruolo di servizio alla comunità.
La crisi ecologica ed economica impone un ripensamento per tutti i gangli fondamentali dell'economico. Il sistema finanziario e bancario, i settori energetici, i trasporti, le produzioni ad essi connessi, sono i settori che dovrebbero essere resi pubblici per realizzare una riconversione industriale di ampia portata. C'è la necessità di una razionalizzazione dell'uso di energia e trasporti, un ritorno al perseguimento del bene collettivo nel sistema finanziario per riequilibrare le funzioni di indirizzo che la ricchezza monetaria potrebbe avere in una società differente. Del credito si può aver bisogno, la raccolta di moneta oppure la sua creazione possono rappresentare fattori che favoriscono un dato sviluppo (per noi quello eco-sociale), ma a condizione che il rapporto tra creditore e debitore abbia un momento di chiusura, sia dunque costituito da una sua circolarità. Quello tra creditore e debitore non può diventare un rapporto permanente di dipendenza e sottomissione. Tale rapporto deve allora prevedere anticipatamente un momento in cui si dà la chiusura, la sua fine. Massimo Amato e Luca Fantacci, sebbene da un punto di vista che non è il mio, propongono proprio una finanza a tempo, cioè non un rapporto di dominio permanente, ove la moneta diventa merce, ove di credito e moneta si fa mercato, ma in cui le relazione tra debitori e creditori «siano costruite per giungere a fine nel pagamento, lasciando spazio alla produzione e circolazione delle merci»6. Un'economia in cui non esiste la distinzione tra ciò che è bene economico e ciò che non lo è. Esiste infine la proposta di abolire le Borse di Francois Morin7 per due ordini di motivi. Il primo è di ordine simbolico, cioè per quello che rappresentano, e il secondo è pratico, cioè per contrastare la funzione di piattaforme finanziarie funzionali all'economia dominante, ove sono di impulso per il primato di un criterio di redditività calibrato sulla dimensione unica dell'azionista-investitore. L'obiettivo è ridurre la dipendenza dal denaro e dal mercato a vantaggio di una rifondazione dei meccanismi e dei soggetti pubblici. Queste sono proposte per dare immediatamente una nuova impronta all'economico. La società alternativa potrà essere intravista se si iniziano a pubblicizzare alcuni settori strategici, tale complesso processo rappresenterebbe il cambiamento di paradigma, dentro al quale sarebbero necessari una molteplicità di ulteriori passaggi e sperimentazioni. Uscire dal capitalismo presuppone un lungo percorso, con passaggi contraddittori, tentativi ed errori, cioè un processo difficile e pieno di insidie, in cui non vi sarà un percorso lineare, ma una sorta di stop and go, in cui gli stop non dovranno essere assegnati ad una presunta resistenza controrivoluzionaria e i go non potranno essere considerati definitivi o incontrovertibili.
La pubblicizzazione degli assi strategici dell'economico e la loro coincidente trasformazione per gestione e per natura delle politiche perseguite costituiscono il primo passaggio che produrrà il cambiamento sociale. L'esperienza precedente insegna come la logica delle politiche dei due tempi non abbia mai funzionato, né nel capitalismo né nel comunismo reale. I sacrifici oggi per un futuro radioso, sono solo un espediente per rimandare sine die il secondo tempo. La società a cui aspiriamo non può che sperimentare contemporaneamente produzione e consumo adeguati, sacrificio e ricompensa, comando e controllo. Uno sfasamento temporale di questi due poli rappresenterebbe l'inizio della fine dell'esperimento. La pubblicizzazione degli assi strategici però non implica automaticamente la pubblicizzazione di qualsiasi segmento produttivo. Quello di cui sto parlando è un cambio di bilanciamento nell'economico. Non c'è posto per una visione totalizzante e soffocante della realtà, in cui ogni passaggio dell'economico sia di pertinenza del pubblico. Tale approccio però apre a una serie di interrogativi e contraddizioni su cui vale la pena riflettere per non banalizzare la complessità dei problemi. Penso al filone della distribuzione per i consumi. Un segmento che ha a che fare tanto con i livelli sociali di consumo quanto con i livelli di inquinamento e sperpero di risorse naturali finite. Nella distribuzione in questi ultimi decenni si è verificata la distruzione di una significativa quantità di esercizi commerciali al dettaglio sostituiti da quelle che qualcuno ha definito cattedrali del consumo. Una vera e propria industria dei consumi che induce con sofisticati strumenti pubblicitari al consumo continuo di nuovi prodotti dalla breve durata. Una specie di obsolescenza programmata, prevista a monte del sistema produttivo per incentivare un costante ricambio di merci. Un industria spesso dell'effimero e del non necessario, che ha sostenuto consumi che altrimenti sarebbero crollati più di quanto è avvenuto. In tale comparto la concentrazione nella proprietà e nei luoghi ha significativamente cambiato di segno rispetto alla presunta natura del libero mercato. A pensarci per certi versi sembrerebbe il sogno di una società comunista novecentesca: scomparsa di pezzi di piccola borghesia, estensione del lavoro salariato, concentrazione e uniformizzazione nei consumi. L'esperienza insegna, invece, che questo comparto deve rispondere a nuove e più adeguate problematiche. Le grandi dimensioni, l'industrializzazione e la concentrazione hanno prodotto consumi spesso assurdi e inquinanti, che non possono essere sopportati ulteriormente e specialmente non possono essere generalizzati ai paesi emergenti. La trasformazione necessaria in questo comparto dovrebbe prevedere una sorta di programmazione pubblica che spezzi i livelli di concentrazione, che promuova un più profondo ritorno a piccole produzioni, specialmente nel settore alimentare, e canali su scala minore nella commercializzazione e nella distribuzione. Gli attuali GAS (Gruppi di Acquisti Solidali) sono degli apripista in questa direzione, ma esiste una sensibilità al ritorno alla terra, alle produzioni a chilometri zero che, nel contrastare gli attuali livelli di insostenibilità ambientale, indicano una nuova strada. Qui appare chiaro e inedito allo stesso tempo come una società alternativa non si basi necessariamente su una ridondanza politica, su un progetto calato da soggetti esterni, ma possieda una propria spinta dal basso, una sua spontaneità, che andrebbe registrata e incentivata semplicemente. Cooperative e piccola proprietà possono rappresentare le ragioni sociali di questo nuovo comparto. Non la mano “pesante” dello Stato, ma neppure quella più leggera del pubblico, quanto forme di autorganizzazione diffusa che intendano cambiare e migliorare la qualità della vita. Queste sperimentazioni possono rappresentare una importante seconda gamba del nuovo modello di sviluppo, una gamba che cresce su meccanismi anche spontanei, che incarna l'espressione non mediata e auto-prodotta da settori significativi della società.
Pianificare luoghi fuori mercato 
Aver individuato una scaletta dei settori da rendere pubblici oppure gestiti diversamente dalle logiche del capitale significa ragionare su come porre le basi materiali per rendere possibile l'attuazione di una nuova pianificazione economica. Cambiare la natura della proprietà dei principali mezzi di produzione implica porre una delle precondizioni per rendere praticabile il cambiamento dei connotati all'economico. Aprire una nuova fase nelle relazioni di produzione e di scambio. Ho descritto le coordinate del pubblico, o comune: tale forma della proprietà socializzata può consentire l'affermarsi di una pianificazione economica che ponga al centro la natura e la giustizia sociale. É ipotizzabile un piano generale di riconversione ecologica delle produzioni e della circolazione di merci e persone. Un piano che sostituisca l'immobilismo o la presunta neutralità del capitale privato. L'attuale gestione, ove si afferma la pressoché completa de-responsabilizzazione del capitale e dell'impresa dalle vicende comuni, determina una separazione tra economico e società in cui il primo dei due fattori è andato mangiandosi il secondo. Tale separazione va erosa, si tratta di porre le basi per un ricongiungimento della società con l'economico. L'economia capitalistica ha dimostrato la sua inefficacia nel risanare l'ambiente e nel determinare produzioni eco-compatibili, ma non è pensabile perseguire un progetto di salvataggio ambientale senza la messa in opera dell'economia al servizio della società. Da dove se non dalle imprese, siano esse dedite a produzioni materiali quanto immateriali, dovrebbe iniziare la riconversione ecologica? Si tratta di elaborare un piano che dia nuove coordinate e priorità alla sfera economica, che individui una nuova dimensione eco-sociale che manca nelle transazioni dello scambio di mercato. La differenza determinante tra le due formule non è un'assegnazione perfetta delle risorse da parte del piano rispetto al mercato, ma un'assegnazione diretta ex ante da parte del piano piuttosto che ex post come avviene per il mercato. In tal sensosi prova a considerare le risorse produttive attraverso una valutazione ex ante di un organismo sociale anziché considerarle incerte oppure ignote per poi rivelarle ex post mediante il mercato. Queste due formule, come vedremo, non vanno assolutizzate e considerate opposte e incompatibili tra loro, ma possono essere combinate in un processo di ibridazione in cui vanno definiti gerarchie e priorità. Superare il principio della competitività su scala globale, provando invece a mettere l'economico al servizio di bisogni diffusi, mediante un ampio processo di determinazione sociale dei suoi elementi fondanti. Qui sta un dilemma difficile da risolvere, ma che va considerato per la sua portata contraddittoria. Quali bisogni si affermano in una società? Esponenti del pensiero femminista si interrogano sul senso della distinzione tra desiderio e necessità e sottolineano la possibilità di ricomporre tale scissione attraverso una definizione più adeguata quale «decessità»8. Come ci ricorda Daniel Bensaid, la crescita mercantile promuove bisogni artificiali riconducibili alle logiche di profitto, ma quale soggetto è «autorizzato a decidere tra i bisogni veri e quelli falsi, quelli buoni e quelli cattivi? Certamente non un aeropago di esperti, ma la decisione democratica dei produttori e degli utenti associati»9. Questo per dire che i bisogni sono relativi e storicamente determinati, ma solo attraverso un processo di trasformazione politico-culturale di massa insieme a cambiamenti economici è ipotizzabile una trasformazione fondata su solidi presupposti. Solo la forza sinergica di questi elementi può determinare una società nuova: nessuna spinta dall'alto, per quanto illuminata, può sostituirsi efficacemente ai processi politici e socio-economici determinati dal basso e dalla partecipazione. Tali processi non devono condurre a uniformità e convergenze negli stili di vita e consumo, ma prevedere il diritto alla diversificazione, che poi è quella tendenza amplificata dalle nuove tecnologie e che Chris Anderson ha definito la «coda lunga»10 dei consumi, cioè quel meccanismo secondo cui tendenzialmente i consumi di nicchia e quelli frammentati diventano più consistenti di quelli presunti di massa. Un cambio di paradigma che si va affermando attraverso la diffusione della comunicazione e delle informazioni sui prodotti di ogni genere. Nuove gerarchie di spesa e di investimento attraverso le quali coordinare le imprese e le produzioni, a partire da quelle pubbliche, per realizzare la riconversione industriale e dei consumi. Ecologia e redistribuzione dei redditi sono due obiettivi che possono essere perseguiti attraverso un duplice e coincidente intervento sul lato dello scambio e su quello della produzione. Non è pensabile redistribuire ricchezza senza intaccare i principali meccanismi di produzione e di scambio del capitalismo. Le determinazioni politico-economiche definite da un piano, come già espresso, devono essere la risultante di processi radicalmente democratici, devono essere in grado di affermare una nuova visione d'insieme, indirizzando risorse verso obiettivi eco-egualitari, ma allo stesso tempo che determinino una produttività adeguata e capacità di accumulazione sufficiente alle grandi sfide ambientali che ci attendono. Da questo punto di vista deve essere chiaro che se da un lato si tratta di concepire inediti modelli di consumo basati su sobrietà e razionalizzazione, dall'altro sono necessari grandi investimenti per rifondare trasporti e produzioni inquinanti. Su tale aspetto la teoria della decrescita non ci aiuta, per risanare e salvare la terra ci vuole anche tanta crescita di risorse per un uso differente dal passato. Nelle società complesse e popolose della contemporaneità non è sufficiente un ritorno a consumi e produzioni su scala minore (aspetti in una certa misura necessari), ma anche progetti organizzati e pensati per numeri elevati, per incontrare bisogni e necessità di milioni di individui concentrati in megalopoli e non soltanto in terre poco densamente popolate. Sono queste grandezze il grosso dilemma che va affrontato. Il tema dei trasporti ad esempio non si risolve solo con un ritorno alla bicicletta, ma anche con investimenti ingenti su trasporti pubblici diffusi e collettivi che trasformino il profilo delle metropoli. La pianificazione deve prendere di petto i problemi macro-economici, deve essere lo strumento che prova a gestire e indirizzare il senso di marcia complessivo dell'economia. Bisogna cambiare gli equilibri dell'economico spingendo fuori mercato quote importanti di produzione e distribuzione. Cioè non abbandonando questi segmenti alla semplice legge della domanda e dell'offerta nella determinazione dei prezzi e nelle quote di produzione. Pianificazione e programmazione per arrestare la logica cieca del profitto e impostare i rapporti secondo criteri tendenzialmente egualitari e di partecipazione. La pianificazione dovrebbe consistere in una costante ricerca di nuovi equilibri sul lato delle produzioni come su quello dei consumi, con organismi radicalmente democratici che a più livelli in una chiara logica di tentativi ed errori provino a mettere a fuoco le dinamiche in corso. Non esiste un percorso più o meno a tappe forzate verso il socialismo, verso una meta incontrovertibile, ma, come sostenevo all'inizio, la consapevolezza che la nuova società sarà la risultante di percorsi tortuosi e mai dati in modo definitivo. La concezione della fine della storia non ci può appartenere.
Problemi e limiti della pianificazione 
Esiste un problema di come sostituire un'economia dal funzionamento semiautomatico determinato da regole di mercato autonome (nonostante sul versante macroeconomico segnate da concentrazioni, assenza di competizione tra capitali e rendita di posizioni). È chiaro che i mercati non siano un meccanismo allocativo efficiente dal punto di vista socio-ambientale, ma sostenere ciò non è sufficiente. É utile, in questo senso, riflettere sulle esperienze passate. Le economie socialiste hanno dimostrato come provare a uscire dalla centralità del mercato fosse più complesso di quanto ci si potesse attendere. A partire dall'economia sovietica non si riesce a sbarazzarsi delle caratteristiche di una crescita estensiva, l'obiettivo di un passaggio a uno sviluppo intensivo non riesce, non aumentano i rendimenti, non si riesce a ridurre gli sprechi. La penuria e le strozzature diventano caratteristiche del modello rigido e dall'alto della pianificazione. Poi esiste un problema di carenza di forza lavoro combinato con la sovra-occupazione. Quest'ultimo problema non riguarda tanto il fatto che un azienda sovietica occupa un numero ben superiore di addetti rispetto a una capitalista (confronto spesso discutibile), quanto che buona parte delle ore di lavoro o alcune fasi della produzione non sono operative, o anche che una determinata produzione potrebbe spesso essere realizzata con meno addetti. In definitiva la piena occupazione quando si realizza non equivale a buona occupazione, sia sul piano di una corrispondenza fra mansioni assunte e qualificazione acquisite, sia su quello dell'equilibrio generale della distribuzione sociale del lavoro tra le varie branche11. Questi ed altri limiti del modello sovietico e affini negli ultimi anni non hanno dato vita a una riflessione adeguata. Come se con il crollo del Muro di Berlino venisse rimosso il dilemma, come se la vittoria schiacciante del capitalismo inducesse a non pensare più a delle alternative sistemiche davvero praticabili. La crisi rimette in discussione questi assunti. Ma la produzione teorica langue. Anche se si parla di pianificazione, l'esercizio di fare i conti con il passato risulta ostico. Persino Toni Negri e Michael Hardt, che non possono certo essere considerati dei nostalgici di vecchi dibattiti, nel riproporre «la necessità» della pianificazione sembrano riesumare un vecchio schema di impronta trotskista. Essi, infatti, ipotizzano come le pratiche tradizionali della pianificazione cambino di segno quando a intervenire sia il comune attraverso procedure democratiche e partecipative. Ecco un passo significativo nei confronti delle esperienze passate:
Le forme di pianificazione praticate dal socialismo di stato hanno fallito in modo miserevole […] La crudeltà e l'inefficienza di queste pratiche dipendevano principalmente dalla centralizzazione del processo decisionale (il corsivo è mio). Le burocrazie socialiste contribuivano sia a mantenere la separazione e l'isolamento di coloro che ne erano al centro (impedendo il fluire centripeto delle forze sociali), sia a dispensare le direttive all'intero corpo sociale (facilitando il fluire centrifugo del comando)12.
Questa interpretazione dei limiti del sistema racchiude indubbiamente una parte di verità: il potere burocratico, infatti, determinava storture irreparabili. Gli stessi dibattiti che a più riprese provavano ad arginare il fenomeno, tentando di allargare le maglie dei processi decisionali e di comando, oppure di inserire pratiche di pianificazione di mercato, nella misura in cui iniziavano a far vacillare i poteri burocratici venivano presto censurate. A un breve periodo di relativa libertà faceva seguito una nuova stretta autoritaria. Ma non possiamo attestarci su questi aspetti se intendiamo proporre un nuovo progetto di pianificazione dell'economico. Non è abbastanza. Rischia di minimizzare problemi più profondi. Non è semplicemente quella che potremmo definire una sorta di sovrastruttura del potere burocratico a far degenerare tutte le società socialiste. Altrimenti sarebbe stata sufficiente una rivoluzione politica capace di abbassare il baricentro sociale delle scelte politiche per arginare il fenomeno. La diffusione dei problemi in realtà dimostra che oltre al problema burocratico c'era la mancanza di meccanismi di funzionamento intrinseci, in grado di stabilizzare forme quotidiane di protagonismo sociale, meccanismi che funzionano con un'elevata dose di automatismi materiali. La stessa definizione di capitalismo di Stato nel ricondurre il fallimento al Dna del capitalismo ridimensiona la portata della sconfitta di un esperimento storico. Invece questa sconfitta è più difficile da digerire proprio in quanto quel modello non è tornato fondamentalmente alle origini, ma nel tentare di superare il capitalismo ha prodotto un diverso modello dalle caratteristiche mostruose. Il problema, dunque, non sta unicamente nel capitalismo (di Stato o meno), ma nelle difficoltà incontrate nel costruire qualcosa di diverso. É quel processo singolare ad essere stato profondamente inadeguato, rendendo più complesso trovare una nuova via d'uscita. 
La pianificazione deve, dunque, presupporre un surplus politico per oliare il funzionamento di una società fondata su una prevalenza di reciprocità e redistribuzione. Questo è il punto. Tale surplus non può che essere il frutto di decisioni, di scelte operative democraticamente assunte, cioè socialmente sospinte. Ma il problema è la difficoltà di infondere un senso di partecipazione e di coinvolgimento personale nelle organizzazioni permanenti e di grandi dimensioni. In questo senso bisogna ipotizzare sistemi multipli di gestione dell'economico in cui alla pianificazione macroeconomica vengano affiancati altri segmenti con diverse movenze all'agire. Fuori da una visione totalizzante la pianificazione, frutto di scelte politiche per quanto democraticamente assunte, deve convivere con altri meccanismi di funzionamento dell'economico che dispongano di una loro forza intrinseca. Il mercato è uno di questi. Il ragionamento può apparire contraddittorio, ma condurre tanta parte dell'economia strategica fuori mercato, non implica la messa al bando del mercato in quanto tale. È una questione di bilanciamenti, di pesi specifici differenti tra comparti che concorrono attraverso un sistema ibrido a un nuovo modello socio-economico. Karl Polany sottolineava come prima del nostro tempo non è mai esistita un'economia che anche in linea di principio fosse controllata dai mercati […] il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai prima svolto una parte importante nell'economia e per quanto l'istituzione del mercato fosse abbastanza comune a partire dalla tarda età della pietra, il suo ruolo era soltanto incidentale nei confronti della vita economica.13
Il mercato non solo può non contraddire la pianificazione, ma deve poter rappresentare una funzione complementare che svolge un ruolo significativo in diversi comparti produttivi, come nelle forme di consumo. Il denaro, o forme equivalenti di possesso per lo scambio, non devono essere abolite, anzi va garantita la libertà di scelta nei consumi. Un cittadino deve essere libero di scegliere cosa acquistare come ricompensa per il suo lavoro. I consumi liberi rappresentano addirittura un utile e ineliminabile indicatore per le scelte macroeconomiche strategiche. La pianificazione nel suo evolvere e adeguarsi alla realtà necessita proprio di molteplici spinte dal basso che possono provenire da decisioni politiche quanto da scelte nelle preferenze che emergono dal mercato. Questo significa procedere per tentativi ed errori. Ciò significa provare a coniugare macro e micro, generale e particolare, collettivo e individuale. Una tale prospettiva non sarà certo priva di conflitti, ma può essere perseguita nell'intento di superare le aporie prodotte dal capitalismo. Un altro aspetto è l'istituzionalizzazione di forme di appropriazione cooperativa di parti delle produzioni materiali e immateriali. Forme di gestione che prevedano di poter stare nel mercato con i propri prodotti, provando a intercettare bisogni e gusti sociali, in cui sia previsto un riconoscimento di reddito per i risultati ottenuti, in cui vi sia una quota di utili ripartiti tra i soci-lavoratori. Anche in questo caso abbiamo già degli esperimenti in corso come quelli delle fabbriche argentine autogestite, luoghi recuperati dai propri lavoratori in cui è stato impedito che i beni dell'impresa venissero usati per pagare i creditori del fallimento precedente. Un fenomeno in crescita dal 2001 a oggi, che è andato stabilizzandosi uscendo dal settore metallurgico per giungere fino ad alcune società di servizi e instaurando un proficuo rapporto con i territori circostanti. Come afferma Francesco Gesualdi nella prefazione al libro Lavorare senza padroni, «succede spesso che iniziative assunte per stato di necessità poi si trasformino in proposte di grande portata politica»14. Ma la diffusione di queste pratiche non è esente da problemi. Il caso jugoslavo, per quanto in definitiva non fosse estraneo ai processi di burocratizzazione e autoritarismo, rappresenta un condensato di contraddizioni rispetto alla prospettiva qui proposta. La Jugoslavia dopo la rottura con Stalin nel 1948 avvia un percorso autonomo di sperimentazione caratterizzato dall'autogestione nelle fabbriche e dal progressivo reinserimento di elementi di mercato. Tali scelte da un lato riportano autonomia nelle classi subalterne, ma rapidamente ripropongono problemi di sperequazione tra soggetti sociali e nazionali. La Jugoslavia, infatti, è un luogo dove si intersecano fattori decisivi per avviare processi di emancipazione: dalla contraddizione capitale-lavoro a quella multinazionale. Il centro tenta di creare nuovi legami con le unità produttive mediante l'utilizzo di quelli che vengono definiti «strumenti economici». Si parla di pianificazione decentrata, autogestione, autofinanziamento, autonomia contabile. In questo quadro la Jugoslavia rappresenta il principale tentativo dei paesi socialisti di provare a utilizzare il mercato per incrementare lo sviluppo delle forze produttive e quindi realizzare rapporti «socialisti di autogestione». La crescita basata sul mercato per realizzare la gestione sociale del piano. Il processo, però, nel diffondersi crea problemi tali da andare a inficiare persino l'obiettivo dell'autogestione. La pressione mercantile, che determinava prezzi differenti in base ai settori produttivi, coniugata al decentramento produce differenziazioni tra imprese e tra lavoratori/trici, con la tendenza a una ripartizione diseguale degli utili e della qualità dei prodotti. In questo caso l'introduzione di elementi di mercato conduce paradossalmente, ma neppure troppo, alla limitazione della trasformazione democratica del sistema. Questi sono problemi aperti, ancora insoluti dalla teoria della trasformazione. Abbiamo oggi la consapevolezza che in un nuovo esperimento si dovrà affermare il controllo prima e il contenimento dopo delle differenze sociali, coniugati con la ricerca di forme di efficienza produttiva tali da consentire una base per pratiche economiche differenti. L'articolazione del rapporto piano/mercato è questione aperta, che certamente non potrà che essere in qualche misura ricomposta attraverso processi materiali e di confronto democratico, senza avere la presunzione di risolverli in maniera definitiva e incontrovertibile. Quello che è certo è che la liberazione non sarà mai un processo finito.
PS: Come avrete notato ho provato a stare, come si dice, sui contenuti, nel merito dei problemi contemporanei, ma non mi sfugge che per sistematizzare e rendere più e meglio comprensibile ciò che propongo si deve fare uno sforzo anche lessicale e di definizioni, tale da consentire un nostro posizionamento adeguato nel dibattito pubblico. Uno sforzo per farsi comprendere e creare consensi intorno alle nostre proposte. I simboli hanno la loro importanza e non sono certo per sottovalutarli. É compito di questo seminario iniziare a ragionare anche di questo, in quanto il sottoscritto è privo di fantasia.


1De Marzo G., Anatomia di una rivoluzione, Castelvecchi, Roma 2012, p. 17.


2Negri A., Hardt M., Questo non è un manifesto, Feltrinelli, Milano 2012, soprattutto pp.72-73.


3Brancaccio E., Passarella M., L'austerità è di destra, Il Saggiatore, Milano 2012, p.121.


4Matino, G., Economia della crisi, Baldini&Castoldi, Milano 2012.


5Viale G., Nazionalizzare: non basta la parola, in «il manifesto», 4 dicembre 2012.


6Amato M., Fantacci L., Fine della finanza, Donzelli, Roma 2009, p. 12.


7Morin F., Un mondo senza Wall Street?, Tropea, Milano 2012.


8Le alternative alla crisi da un punto di vista femminista, Intervista a Amaia Perez de Orozco, dattiloscritto.


9Bensaid D, Trent'anni dopo: introduzione critica all'Introduzione al marxismo di Ernest Mandel.


10Anderson C., La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Codice, Milano 2007.


11Samary C., Piano, mercato e democrazia, ciclostilato, 1988.


12Negri a., Hardt M., Op. cit., pp. 90-91.


13Polany K., Economie primitive, arcaiche e moderne. Ricerca storica e antropologia economica, Einaudi, Torino 1980, p. 5.


14Corona E., Lavorare senza padroni, EMI, Bologna 2011, p. 13.

04 gennaio 2013

Esecutivo nazionale di Sinistra Critica su "Cambiare si può"

1. L’assemblea del 22 dicembre al teatro Quirino di “Cambiare si può” ha chiuso una serie di assemblee locali, svoltesi nel fine settimana precedente, in cui sono state espresse le speranze per un progetto nuovo, programmaticamente ancorato a sinistra e fondato su modalità nuove di costruzione delle liste e nettamente distinto dal centrosinistra.
Queste richieste e proposte si sono scontrate con l’operazione di De Magistris e Ingroia (sostenuta in particolare da IDV e PdCI, con l’assenso di Rifondazione e Verdi), finalizzata ad sussumere nel loro progetto quanti si sono mobilitati intorno a «Cambiare si può».
Come in altre occasioni le assemblee di base sono il luogo di una sensibilità a sinistra, ma poi le decisioni di fondo di segno moderato vengono prese in ambiti più ristretti dai gruppi dirigenti.
Così l’assemblea, al di là della richiesta di alcune correzioni programmatiche, non ha avuto la forza di chiarire i nodi fondamentali di una possibile presenza alle elezioni davvero alternativa al centrosinistra, prima e soprattutto dopo le elezioni.
Questa situazione è stata determinata prevalentemente dall’invasione di campo, sul piano del metodo e dei contenuti politici, della candidatura di Ingroia e dal ruolo dei partiti. Questi due fattori accentuano le ambiguità attuali; il ruolo leaderistico di Ingroia e del suo “decalogo” spingono a una sintesi prodotta dalle forze favorevoli ad accordi col centrosinistra (forse meno in campagna elettorale, necessariamente, ma certamente dopo sul piano istituzionale nel caso in cui la lista avesse eletti in parlamento) e peseranno anche nelle scelte delle candidature.
Per tutte queste ragioni le nostre compagne e i nostri compagni non hanno partecipato al voto sui quesiti proposti per il referendum on line.

2. Sinistra Critica si è impegnata nelle assemblee locali e anche nelle due assemblee nazionali nel dibattito sul progetto elettorale alternativo di Cambiare si può, riscontrando significative convergenze ed interlocuzioni politiche sulle sue proposte programmatiche e di metodo. Nelle assemblee dei prossimi giorni le nostre compagne e i nostri compagni interverranno per spiegare che, mentre nel processo partecipativo che l’appello Cambiare si può aveva innescato stavano profilandosi le condizioni per un nostro impegno nelle liste, il nuovo progetto di Ingroia e dei partiti che lo sostengono ha preso il sopravvento, determinando altri equilibri e profili politici da noi non condivisibili: per questo Sinistra Critica non sarà impegnata in questo progetto elettorale.
Porteremo anche nella discussione, come per altro già fatto nelle assemblee, la necessità della convergenza nella costruzione sul piano sociale di una “Agenda alternativa” al liberismo del centrosinistra, distinta dal “decalogo” di Ingroia, e distinta dai progetti elettorali in gestazione, capace cioè di operare prima e dopo le elezioni.
Va infine specificato che un’eventuale nostra indicazione di voto a favore della lista in gestazione sarà verificata sulla base delle liste e del profilo politico definitivo della coalizione arancione.
Il Coordinamento Nazionale di Sinistra Critica invita naturalmente le/i compagne/i dei circoli territoriali a non avanzare a nome di Sinistra Critica alcuna proposta di candidatura di compagne/i dell’organizzazione (e/o a nome della stessa) nelle liste di questo percorso elettorale.
3. Sinistra Critica non presenterà proprie liste alle elezioni, ritenendo che su questo terreno non esistano oggi le condizioni, né politiche né organizzative, per una presentazione autonoma né per una presenza anticapitalista più ampia efficace e nuova. Questa presenza va costruita più che mai sul piano delle lotte e dei movimenti sociali, affinché questi possano dare vita a una forte risposta sociale e politica alla violenza dell’attacco della classe dominante.