31 marzo 2011

Contro la guerra in Libia: manifestazione sabato 2 aprile a Verona

Sabato 2 aprile
anche a Verona manifestiamo contro la guerra in Libia
ore 17,30
Via Roma (davanti a palazzo Carli)

Le persone, le organizzazioni e le associazioni che in questi giorni hanno sentito la necessità, attraverso appelli, prese di posizioni e promozione di iniziative, di levare la propria voce

CONTRO LA GUERRA E LA CULTURA DELLA GUERRA

PER SOSTENERE LE RIVOLUZIONI E LE LOTTE PER LA LIBERTÀ E LA DEMOCRAZIA DEI POPOLI MEDITERRANEI E DEI PAESI ARABI

CONTRO LE DITTATURE, I REGIMI, LE OCCUPAZIONI MILITARI, LE REPRESSIONI IN CORSO

PER L'ACCOGLIENZA E LA PROTEZIONE DEI PROFUGHI E DEI MIGRANTI

PER IL DISARMO, UN'ECONOMIA ED UNA SOCIETÀ GIUSTA E SOSTENIBILE

chiedono

LO STOP AI BOMBARDAMENTI E IL CESSATE IL FUOCO IN LIBIA

per fermare la guerra, la repressione ed aprire la strada a una soluzione politica coerentemente democratica.

IL 2 APRILE 2011 SARÀ UNA GRANDE GIORNATA DI MOBILITAZIONE E PARTECIPAZIONE ATTIVA A ROMA E IN TANTE PIAZZE D'ITALIA.

A partire da quella data ci impegniamo a dar vita ad un percorso diffuso sul territorio di mobilitazioni, iniziative, informazione, assemblee, incontri e solidarietà con i movimenti dei paesi arabi.

per adesioni: coordinamento2aprile@gmail.com

Prime adesioni: Arci, Action, Associazione Ya Basta Italia, Associazione Mediterranea, Associazione per il rinnovamento della sinistra, Associazione per la pace, Associazione Senzaconfine, A Sud, Attac Italia, AteneinRivolta, Comitato Fiorentino Fermiamo la guerra, Cobas, Democrazia Chilometro Zero, Emergency, ESC, FIOM–CGIL, Gruppo Abele, Horus Project, Lega diritti dei Popoli, Legambiente, Libera, Lunaria, Rete@Sinistra, Rete della Conoscenza, Rete Romana Solidarietà al Popolo Palestinese, Rete Studenti Medi, Sinistra Euromediterranea, Stryke-Yomigro, UDU, Un ponte per, Forum Ambientalista, Altraagricoltura, IPRI, ASCIA, Comunità Somala Lazio, Amig@s Sem Terra, Associazione Obiettori Nonviolenti, Punto Rosso, Senzaconfine, Rete Antirazzista Firenze, Gruppo Sconfinate, Terre del Fuoco, Iniziativa Femminista Europea

FedS, FGCI, GC, PCL, PdCI, Prc, Sinistra Critica, SeL

Altre adesioni: Rete Nazionale Radiè Resh, Associazione Donne Brasiliane in Italia, Associazione Sopra i ponti Bologna, WILPF, associazione Ecoinformazioni, Donne in nero, perUnaltracittà-Firenze, Centro ligure di documentazione per la pace, Rete controg8 per la globalizzazione dei diritti, comitato intercomunale per la Pace nel Magentino, Movimento Nuovi Profili, Unione Inquilini Federazione di Bari, Collettivo Byzantium Onlus, associazione Spirit Romanesc, Coordinamento Donne contro il razzismo - Casa Internazionale delle Donne di Roma, Rete Internazionale delle Donne per la Pace, Associazione Casa Rossa – Spoleto, Convergenza delle Culture – Milano, Rete delle donne Anti Violenza onlus – Perugia, comitato Piazza Carlo Giuliani Onlus, Comitato Internazionale di Educazione per la Pace – Ciep, Servizio Civile Internazionale, Consorzio Città dell'Altraeconomia, Reorient Onlus, Associazione Trama di terre – Imola, Centro di Solidarietà Internazionalista Alta Maremma, Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, Associazione "Periferie al Centro" - Fuori Binario, Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese, Associazione Convergenze, Il Cavatappi - Rivista Online, Comunità in Resistenza – Empoli, comitato "Lo sbarco della nave dei diritti di Genova", Freedom Flotilla Italia


29 marzo 2011

Working Class Heroes. I migranti, la guerra e l’impossibile democrazia

Sono eroi della libertà quando riempiono le piazze del Cairo, di Tunisi, di Bengasi, della Siria e del Bahrein. Al di qua del mare diventano profughi, clandestini, sfollati.
Lottare per la democrazia ha significato per loro anche aprire un varco in quelle frontiere che i regimi della paura avevano murato, con il sostegno, il denaro, la connivenza dei governi europei. Chiamandoli profughi, clandestini, sfollati, si ricostruiscono i muri sulle macerie di quelli che sono stati abbattuti.
Ponendo l’esclusiva questione del diritto d’asilo il governo italiano – ma anche quelli europei – si garantisce la possibilità di ritirare la «protezione umanitaria» una volta che la guerra sia dichiarata conclusa. Se il pericolo non sussiste, crollano anche le condizioni dell’asilo. Lo sa bene il ministro Maroni, il quale intanto invoca il principio del «burden sharing» e indica la via del diritto d’asilo europeo, mettendo così in questione la struttura portante della normativa dell’Unione in materia. Si chiama Dublin II, e significa che i migranti sono vincolati al luogo in cui fanno la richiesta d’asilo, dal quale non possono spostarsi fino a che non abbiano ottenuto risposta. Chiaro che se il principio fosse rispettato, il “peso” che l’Italia dovrebbe affrontare sarebbe eccessivo, soprattutto a quelli che hanno annunciato improbabili esodi biblici in modo da ergersi a eroi e protettori della patria. Questi eroi, che non sono i nostri eroi, hanno per anni controllato i movimenti dei migranti verso l’Europa garantendo il loro sostegno ai regimi della paura non solo dell’Africa del nord, ma ovunque fosse possibile bloccare i migranti.
Oggi bombardano uno di quei regimi e lo fanno in nome della democrazia per la quale sono scese in piazza le donne e gli uomini della Libia. Ma le donne e gli uomini della Libia, come quelli di Tunisi che ogni giorno arrivano sulle coste di questo paese, hanno combattuto anche per conquistarsi la libertà di muoversi attraverso le frontiere che in questi anni, e soprattutto in tempo di crisi, sono state tenute ben chiuse. La loro democrazia è questa libertà, su questa libertà si gioca la partita della rivoluzione nel mondo arabo. Solo grazie alla lotta di quegli uomini e di quelle donne la Tunisia ha aperto le frontiere a quei migranti che proprio dalla Tunisia e dall’Egitto, dalla Cina e dal Pakistan, avevano raggiunto la Libia per lavorarci e viverci mentre oggi se la lasciano alle spalle, con le bombe che la riducono in macerie.
La democrazia delle bombe è un’altra: alla ‘fine’ di questa guerra sarà democratico quel governo – qualunque governo – che prometterà all’Europa di vigilare con ogni mezzo necessario sulle sue frontiere, aprendo gli argini solo di fronte alle esigenze della produzione. Non dimentichiamolo: alla vigilia della guerra i padroni europei hanno richiamato in patria i loro “cittadini”, lasciando i lavoratori migranti a rischiare la vita per garantire il profitto. Non dimentichiamolo: mentre Maroni annunciava l’invasione delle nostre coste, Sacconi dichiarava che per uscire dalla crisi l’Italia avrebbe bisogno di due milioni di migranti, quattro milioni di braccia da mettere al lavoro. Allora è da qui che bisogna partire: il fatto della guerra non trasforma questi migranti in profughi o sfollati.
Non smettono di essere eroi della libertà quando attraversano il confine invisibile e armato che solca il Mediterraneo. Qualunque sarà il loro status, questi uomini e queste donne attraverseranno l’Europa con o senza permesso e in Europa vivranno, lavoreranno, faranno i conti ogni giorno con la realtà brutale del razzismo istituzionale che è l’ordinaria condizione di milioni di uomini e donne, non soltanto in Italia. Questa condizione non è determinata dall’eccezionalità della situazione di guerra; dalla guerra sarà forse aggravata, se migliaia di persone saranno costrette ad accettare condizioni di vita e lavoro persino più pesanti di quelle alle quali la Bossi-Fini o le normative europee già li costringono.
Sacrosanto è affermare il dovere d’accoglienza, ma l’attraversamento del mare non può rigettare questi uomini e queste donne dall’eroismo alla vittimizzazione, rendendoli oggetti inerti di doverose cure o assistenza dopo averli inneggiati come protagonisti di vere e proprie rivoluzioni. Il ponte tra le due sponde del Mediterraneo si costruisce prima di tutto qui, pensando che gli uomini e le donne che oggi raggiungono l’Italia e l’Europa stanno e staranno accanto a quei migranti che ordinariamente lottano sapendo di dover essere ogni giorno eroi per resistere allo sfruttamento e al razzismo che moltiplica le frontiere.
Noi diciamo no a questa guerra perché mentre parla di democrazia mira invece a chiudere ogni possibilità di movimento, in modo da bloccare gli individui e le generazioni in un posto assegnato loro una volta per tutte. La cosa più esplosiva dei movimenti di rivolta degli ultimi mesi è che essi trasformano definitivamente il contenuto stesso della democrazia, sia in Europa sia dove le rivolte hanno avuto luogo. In piazza Tahrir c’erano anche migranti provenienti da altri paesi africani che contestavano un regime odioso tanto a loro quanto agli egiziani. I movimenti dei migranti non esportano solo le loro braccia e i loro cervelli, ma una pretesa democratica che non è confinabile in un sistema politico territoriale chiuso. Questo è ciò che terrorizza il ministro Maroni, i governi europei e molti governanti dei paesi arabi: non è il numero di migranti che potrebbe arrivare a fare paura, ma la pretesa di democrazia, di uguaglianza e di libertà che viaggia con loro. Hanno passato gli ultimi anni a cercare di esportare un’impossibile democrazia e ora che se la vedono restituire a domicilio, tentano disperatamente di rinchiuderla a Lampedusa o in Sicilia, ma comunque ben lontano dalla Padania, da Parigi o da Londra.
Dire no a questa guerra, significa dire no alla democrazia dei confini e dello sfruttamento che vogliono imporre con le armi e con gli accordi di riammissione. Non cambia nulla se questi accordi sono garantiti dalla violenza dei despoti della porta accanto, fino a poche settimane fa peraltro riconosciuti e onorati, o da regimi con la patente democratica: non si può dipingere di rosso una porta nera. Chi vuole dire no a questa guerra, chi vuole ripensare alla radice la democrazia può e deve stare dalla parte dei migranti e delle migranti che sono qui e che arrivano, che lottano per muoversi e che lottano per restare, che non vogliono essere alternativamente un ‘peso’ oppure una risorsa, che ogni giorno sono gli eroi di una classe operaia ormai transnazionale. E d’altronde a working class hero is something to be...

Coordinamento Migranti Bologna e provincia
www.coordinamentomigranti.splinder.com
coo.migra.bo@gmail.com
3275782056

Assemblea nazionale di AteneInRivolta

Domenica 27 si è conclusa la nostra terza assemblea nazionale. Tre giorni intensissimi, fra riunioni, assemblee pubbliche e workshop che hanno visto una partecipazione straordinaria per numeri, ricchezza dei contributi e qualità delle discussioni.

Dal movimento dell'Onda del 2008, quando dai collettivi della Sapienza fu lanciata l'idea della prima assemblea nazionale, sono cambiate tante cose, prime fra tutte noi stessi.
L'autunno appena trascorso, la rivolta che abbiamo contribuito a costruire città per città contro la riforma Gelmini, la rabbia e la rivolta di Piazza del Popolo, le campagne portate avanti a partire da quella per la ripubblicizzazione dell'acqua hanno trasformato il modo stesso di intendere la nostra militanza dentro l'università.

Siamo passati da un semplice meccanismo di rete e condivisione di esperienze, al fare di AteneinRivolta un'organizzazione, non solo studentesca ma anche di giovani precari, che si pone come primo obbiettivo l'autorganizzazione dei movimenti.
Una sfida ancora aperta perchè siamo convinti che fare dei collettivi il nostro strumento d'azione dentro le facoltà significhi mettersi sempre in gioco, con l'entusiasmo che le lotte di questi mesi ci hanno trasmesso ma consapevoli dei limiti che queste mobilitazioni hanno dimostrato.
Essere organizzazione per l'autorganizzazione per noi significa proprio questo: favorire meccanismi di partecipazione realmente democratica, unica via per superare la stagionalità della lotta giovanile.
Una problematica, quella della democrazia interna ai movimenti, che in Italia contraddistingue da troppo tempo le rivolte che si dispiegano e che probabilmente contribuisce a disgregare e impedire quel processo di ricomposizione sociale su cui tanto abbiamo discusso in questi giorni.

Abbiamo promosso questa assemblea convinti che come studenti e giovani precari possiamo svolgere un ruolo forse unico ma quanto mai necessario: passare da elemento semplicemente scatenante della rivolta a strumento per l'unità delle lotte e fare dell'università controriformata un'università sociale, luogo fisico di ricomposizione.

Nella devastazione sociale che la crisi del neoliberismo ha imposto, scuole e università emergono come ultimi luoghi d'aggregazione di massa dei giovani, la cui soggettività ha storicamente spesso determinato la nascita di processi rivoluzionari.

Quali pratiche adottare nell'ottica della politicizzazione e autorganizzazione di questo soggetto è stata la tematica principale che ha attraversato tutte le discussioni.
Abbiamo dibattuto a lungo dei controcorsi, percorsi di lavoro seminariale volti a scardinare l'università dequalificata del 3+2, con cui affrontare e analizzare la crisi economica, ecologica e sociale, i cambiamenti in atto nel mercato del lavoro e nell'istruzione, la necessità di nuove forme di diritto per soggetti ai margini della società (migranti ed lgbtiq), le questioni di genere.

Tutto questo per noi significa ridare un ruolo sociale all'università e al soggetto studentesco.

Rimettere i giovani e gli studenti al centro della società significa intrecciare le lotte per un'università pubblica e di qualità con quelle contro ogni privatizzazione e speculazione sui beni comuni, l'acqua e i territori in primis.
Significa lottare contro la guerra, strumento d'oppressione più devastante e che nell'epoca del neoliberismo è diventata il mezzo principale per la risoluzione delle difficoltà economiche (ed energetiche) delle grandi potenze.

Non abbiamo modelli vincenti ed efficaci cui guardare per ripensare la partecipazione politica, i sindacati e i partiti storicamente conosciuti stanno dimostrando tutto il loro fallimento.
Le stesse rivolte giovanili in nord-Africa come in Europa, viste attraverso gli occhi e le narrazioni dello studente tunisino e della studentessa inglese, se analizzate secondo le vecchie forme della politica risultano incomprensibili nelle pratiche che assumono e nelle questioni che pongono.

C'è un'altra prospettiva di vita, studio e partecipazione dentro e fuori le università, che non abbia la precarietà, l'addestramento e lo sfruttamento come elementi sussunti e indiscutibili.
Una strada che passa per il rifiuto della didattica quantificata in crediti, per la riappropriazione di vecchi e per la conquista di nuovi diritti.

Essere realisti è la consapevolezza che immaginarsi in questa prospettiva, e immaginarsi vincenti, significa muoversi nel campo dell'impossibile...l'unico praticabile!

22 marzo 2011

CONTRO LA GUERRA IN LIBIA: giovedì 24 marzo ore 18

Dalla parte del popolo libico.
Nessuna complicità con l’intervento militare contro la Libia.


Manifestazione
Giovedì 24 marzo
ore 18.00
- Piazza Brà

È evidente che Stati Uniti, Canada, Francia, Gran Bretagna e Italia non sono interessati alla difesa dei diritti umani del popolo libico, ma guardano con interesse strategico ai giacimenti di petrolio e di gas. La decisione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha autorizzato l’attacco, ed ora i Paesi “esportatori di democrazia” bombardano la Libia per “proteggere i civili”.
Per il popolo palestinese durante l’operazione “piombo fuso” (più di 1500 morti e 5000 feriti) nessuno di questi paesi “democratici” ha alzato un dito. Due pesi e due misure? No, la lucida criminalità dell’imperialismo americano ed europeo; i diritti umani sono esigibili solo se in cambio c’è la possibilità di mettere mano alle risorse e alle ricchezze e questa volta, dopo l’Iraq e l'Afghanistan, è il turno della Libia.
Gheddafi, fino a pochi giorni fa era uno strumento utilissimo per l'Europa: controllo e repressione spietata dell'immigrazione, vendita di armi, affari milionari per le imprese e le banche (Fiat e Unicredit su tutte). Berlusconi lo accoglieva col baciamano. Ora, messo in difficoltà dalla rivolta popolare Gheddafi è un ostacolo da rimuovere per riaffermare il controllo geopolitico occidentale nel Mediterraneo, messo in discussione dalle rivoluzioni tunisina ed egiziana.
Come sempre chi paga le conseguenze drammatiche della repressione del regime e della guerra “umanitaria” è il popolo.
Nessuna guerra è necessaria. La guerra è sempre scelta disumana che esalta la violenza, la diffonde e la amplifica.

NON VOGLIAMO ESSERE COMPLICI DELL’AGGRESISONE MILITARE USA, EUROPEA E DELL’ONU CONTRO LA LIBIA! NO ALL’USO DELLE BASI MILITARI DELLE FORZE ARMATE ITALIANE! SOLIDARIETA' CON TUTTE LE VITTIME CIVILI DELLA LIBIA!

COMITATO CONTRO LA GUERRA IN LIBIA
Assopace, Attac, Circolo Pink, Donne in Nero, Federazione della Sinistra,
Rete Radiè Resch, SinistraCritica, ...

19 marzo 2011

Sinistra Critica: Libia, cacciare Gheddafi. No all'intervento militare imperialista!

La repressione brutale del dittatore libico contro la rivoluzione popolare costituisce il miglior supporto per l'intervento militare imperialista, con l'effetto di frenare il processo rivoluzionario in corso in tutto il mondo arabo.
La 'no fly zone' decisa dal Consiglio di sicurezza dell'Onu avviene dopo che è stato concesso a Gheddafi di riprendere possesso di gran parte del territorio liberato, costringendo gli insorti di Bengasi e Tobruk - dopo aver esplicitamente rifiutato aiuti interessati per settimane - ad invocare ora comprensibilmente un aiuto internazionale di qualsiasi natura per non essere sopraffatti dal pugno di ferro del regime: questo sì è il cinico calcolo che le potenze occidentali hanno ordito ai danni del popolo libico e di tutti i popoli in rivolta nell'area, premendo loro di riconquistare margini di controllo geopolitico e sulle risorse energetiche, rimesso in discussione dall'abbattimento delle dittature in Egitto e Tunisia. Chi ha parlato finora di rivoluzioni pilotate dagli Stati Uniti ha finito per sabotare una delle più grandi sollevazioni democratiche di tutta la storia del mondo arabo, frutto della crisi capitalistica che ha fatto saltare i regimi dittatoriali alleati dell'Occidente e di Israele. Con ben altra mobilitazione possibile in tutta Europa oggi il dittatore libico avrebbe già subito la sorte di Ben Alì e di Mubarak!
Noi diciamo risolutamente NO a qualsiasi intervento militare in Libia, perchè non esiste guerra umanitaria e perchè nessun aiuto porterebbe alla lotta di liberazione. Il sostegno più grande che possiamo dare è quello di una mobilitazione di massa in tutti i paesi, schierandoci senza esitazioni per la cacciata del colonnello e contro i tentativi imperialisti di mettere le mani sulla Libia: non c'è altra soluzione. Su questo, la sinistra e il movimento operaio hanno una responsabilità enorme, per la passività e per le ambiguità dimostrate finora; mentre ogni sostegno oggi, anche 'critico', all'intervento militare di paesi della Nato costituisce una tragica sciagura.
No quindi all'intervento militare! No alla concessione delle basi italiane per l'intervento imperialista!
Esigiamo la fine della repressione e degli attacchi delle forze armate di Tripoli! Gheddafi se ne deve andare e il popolo deve decidere liberamente del proprio futuro come in Egitto e in Tunisia. Pieno e incondizionato sostegno al popolo libico in lotta!
La rivoluzione può subire battute d'arresto, ma la forza generale di cui dispone in molti paesi arabi può di nuovo far capovolgere il fronte!

Sinistra Critica - Organizzazione per la Sinistra Anticapitalista

17 marzo 2011

26 marzo: manifestazione nazionale per l'acqua pubblica!

Il 26 Marzo riprenderemo parola insieme ai movimenti per l'acqua pubblica.
Lo faremo per le strade di Roma, tra coloro che non si vogliono rassegnare a vedersi rubato un bene comune qual'è l'acqua.
Saremo con quel milione e quattrocentomila donne e uomini che hanno deciso di opporsi in prima persona alle politiche del Governo Berlusconi, alle privatizzazioni, alla devastazione dei territori.
Per questo la campagna referendaria, la si vuole ostacolare in ogni modo. Si preferisce mandare in fumo 300 milioni di euro, alla faccia di chi sta pagando questa crisi, pur di non accorpare i referendum alle elezioni amministrative. Lo scontro in questo referendum è chiaro.
Da una parte i comitati per il Sì ai Referendum che bloccano la privatizzazione dell'Acqua e la reintroduzione del nucleare.
Dall'altra parte le grandi aziende, le multinazionali, gli interessi economici e finanziari che vogliono fare dell'acqua, del sole, delle risorse naturali le proprie fonti di profitto usurpando i territori, i nostri diritti, il nostro futuro.
Noi sappiamo da che parte stare!

SINISTRA CRITICA
Organizzazione per la sinistra anticapitalista

PULLMAN DA VERONA

Un'Occasione perduta

Editoriale AteneinRivolta

"Le nostre vite sono determinate dalle opportunità, anche da quelle che ci lasciamo sfuggire". Così recitava il protagonista di un noto film di David Fincher.

Come abbiamo sottolineato nelle scorse settimane, ci sembra di primaria importanza cogliere l'opportunità e l'urgenza di una primavera di conflitto generalizzato nel nostro paese. Un'opportunità a cui abbiamo provato a dar voce attraverso la proposta di un'assemblea nazionale aperta, partecipata, che vedesse al centro l'idea di un nuovo protagonismo sociale e che valutasse la possibilità di lanciare un corteo nazionale nel mese di aprile. La nostra proposta parlava proprio di questa necessità, quella di non perdere l’occasione per unire tutti i soggetti sociali che si erano mobilitati in questi mesi, dagli studenti alla FIOM, dai sindacati di base ai comitati dell’acqua, dai migranti alle donne, e di provare a costruire un percorso che potesse anche intercettare quel malessere diffuso e quel disagio sociale presente nel Paese e che, spesso, a causa della mancanza di una opposizione sociale permanente, rischia di rimanere schiacciato sul semplice antiberlusconismo.
Purtroppo questo processo unitario non si è di fatto verificato e la scelta di Uniti per lo Sciopero Generale, la cui ottica, come è scritto nell’appello uscito sabato sulle pagine del Manifesto, rimane unicamente quella di guardare allo sciopero della Cgil, non permette la costruzione di un momento assembleare largo, che coinvolga anche chi guarda con criticità allo sciopero del 6 maggio e chi pensava fosse necessaria anche una manifestazione di tutte le opposizioni sociali ad Aprile.
Non riteniamo affatto lo sciopero della CGIL “una grande occasione per il cambiamento nel nostro paese”. Esso è certamente il frutto di un'ampia pressione dentro e fuori della Cgil e può rappresentare un passaggio, ma solo nella misura in cui si costruiscano le giuste premesse. Non possiamo dargli oggi una valenza che non ha. A volte per fermare la spinta dal basso, per irreggimentare la generalizzazione di uno sciopero c'è solo una cosa da fare: convocarlo. Ed esattamente questo ha fatto la CGIL. La stessa estensione dello sciopero da parte di alcune categorie – Funzione Pubblica, Commercio, FLC - appare contraddittoria: gli scioperi di otto ore erano previsti per marzo e aprile e sono stati spostati sul 6 maggio. Alla fine dei giochi lo sciopero in questi settori sarà di 4 ore in meno e posticipato rispetto a quando avrebbe dovuto tenersi in due categorie sotto costante attacco del governo. Se queste sono le premesse di primavera, appaiono freddine. Inoltre non si può consegnare a questo sciopero generale un valore di sineddoche, confondendo una parte – seppur rilevante – con il tutto. Non si può ignorare lo sciopero dell'Usb che ha portato in piazza migliaia di lavoratori proprio venerdì scorso, così come non si possono ignorare i migranti, i precari, le donne che rivendicano nuovi diritti, welfare e la propria autodeterminazione. Figure che ad oggi non trovano spazio nell'attuale dinamica della mobilitazione.
Che sembra ignorare, ad esempio, l’importanza della manifestazione dei comitati referendari dell’acqua del 26 Marzo, che oggi acquista nuova forza con l'emergenza nucleare e che corre il rischia di essere una data isolata e senza uno sbocco di mobilitazione immediata che possa creare quel filo rosso necessario per portare avanti la difficile battaglia per il raggiungimento del quorum. Per questo continueremo a lavorare per la costituzione di un percorso all'altezza delle necessità che abbiamo davanti a noi e per questo ne faremo oggetto di discussione all'interno dell'Assemblea Nazionale di AteneinRivolta che da mesi stiamo preparando alla Sapienza. Ne inizieremo a parlare la sera di venerdì 25 marzo nell'iniziativa “Costruiamo la rivolta: per una ripresa del conflitto, ripartiamo dalle opposizioni sociali” insieme ai lavoratori autoconvocati, a quelli di Cobas, Usb e Fiom, ai comitati per l'acqua pubblica, al coordinamento di lotta per la casa di Roma e ai Blocchi Precari Metropolitani, al coordinamento migranti di Bologna, agli insegnanti precari della scuola, alle donne e agli studenti medi. Perché la rivolta non aspetta e noi non vogliamo perdere la nostra occasione!

AteneinRivolta - Coordinamento Nazionale dei Collettivi

Passeggiando attraverso il libro aperto della rivoluzione tunisina

Autori: delegazione della Izquierda Anticapitalista da Tunisi, 5-6 marzo

Il nostro arrivo a Tunisi coincide con quella che sembrerebbe una nuova tappa nel processo rivoluzionario che si è aperto ormai da due mesi. Il presidente Mebazaa ha appena annunciato la convocazione di elezioni per un’Assemblea Costituente il 24 di luglio, oltre ad aver accettato gran parte delle rivendicazioni del movimento popolare. Quello stesso movimento che meno di una settimana fa ha fatto cadere il primo ministro Mohammed Ghannouchi, al caro prezzo di sette nuovi morti, di centinaia di feriti e fermati, dimostrando una volta di più che le vittorie non si regalano e che è il popolo che le conquista. Lo stesso che occupando la Casbah durante gli ultimi undici giorni ha fatto di questa piazza un simbolo della rivoluzione popolare in corso. Uno spazio autogestito e assembleare che ha riunito centinaia di persone giunte dalle zone più difficili del paese, spesso legate ai partiti della sinistra e ai movimenti sociali. Centro nevralgico delle grandi mobilitazioni che hanno attraversato la capitale tunisina, con un suo proprio centro di informazioni, un posto medico e logistico che provvedeva cibo, sicurezza e coperte per i suoi occupanti. Con Santiago Alba Rico e Lucia siamo stati nella Casbah il giorno in cui, per decisione dei suoi propri membri, si è conclusa l’occupazione. Una ritirata preventiva, motivata dalla vittoria ma tuttavia vigile rispetto ai prossimi passi che farà il governo e disposta a riprendere l’occupazione se questi non risponderanno alle rivendicazioni del popolo in lotta.
Anche se in pieno processo di smantellamento, un giro nella Casbah mostra la forza e la illusione che i processi di cambiamento producono nella gente, come se tornasse alla vita fino ad allora negata. Decine di persone, uomini e donne, giovani e anziani, formano capannelli che discutono accaloratamene, tutti parlano di politica, della rivoluzione, delle ultime notizie, si fanno fotografare con i disegni che decorano i muri o con il gruppo di soldati che continuano comunque a permanere nella piazza, ti chiamano per condividere i loro problemi, le loro esperienze o semplicemente per chiacchierare. Ripetendo in ogni momento la parola karama: dignità, una dignità per molto tempo negata e che ora, una volta ritrovata, è uno dei tesori più difesi della rivoluzione (zaura). Ricuperando tanti anni di silenzio, in una specie di rivolta contro il “tempo”: il tempo di Ben Ali è finito ed è arrivato finalmente quello del popolo, che si condensa e assume un ritmo proprio, senza routine, un tempo che gli orologi non possono misurare. Appare curiosa l’iconografia rivoluzionaria impressa sulle pareti della Casbah, ribattezzata Piazza della Rivoluzione: il ritratto del Che risorge in molti murales, così come molti slogan di reminiscenza sessantottina come “siamo realisti: chiediamo l’impossibile”. Parole d’ordine che si traducono in una realtà palpabile, che si respira e si ascolta nella strada. Uno stato d’animo, un orizzonte per il quale vale la pena di lottare.
A quanto ci racconta Santi, una delle prime conseguenze, effimera in questo caso, della rivoluzione è stata una specie di effetto magico sulla circolazione. Pieni di emozioni e di senso di responsabilità storica della rivoluzione in marcia, per la prima volta si sono rispettate le regole di circolazione e di fatto si è cancellato l’”antico regime” del caotico traffico della capitale. Una vittoria che nessun apparato poliziesco della dittatura aveva finora ottenuto.
Dal centro della città ci siamo diretti a uno dei quartieri più poveri della periferia, El Mourouj, per riunirci con un giovane che ha partecipato attivamente nel processo rivoluzionario, sia a partire dall’accampamento della Casbah che dai consigli di difesa della rivoluzione che si sono auto-organizzati nel suo quartiere. Mahmid è un esempio delle migliaia di giovani che si sono ribellati contro la dittatura di Ben Ali e che hanno diretto l’autogestione dei loro quartieri, maturando in appena due mesi una coscienza che supera quella di molti rivoluzionari. All’ultimo piano non ancora finito della sua casa, con una musica rap sullo sfondo e la bandiera di una delle squadre locali di calcio, Mahmid ci racconta di come le/gli abitanti si sono assunti gli impegni dell’autogoverno di fronte a elementi contro-rivoluzionari posti in gioco dal regime de Ben Ali. Come lui stesso afferma, questa rivoluzione si è fatta non solo per abbattere il dittatore ma anche per “cambiare le cose davvero. Non vogliamo una democrazia come la vostra. Se eravamo contro Ghannouchi non è solo perché faceva parte del vecchio regime, bensì perché continuava con le politiche di privatizzazioni di Ben Ali”. E cosa ancora più importante, non dubita nell’affermare che “questa è una rivoluzione contro il capitalismo”.
Con Mahmid, quello che risulta più interessante della nostra conversazione, al di là di condividere le sue esperienze in questo processo, è il verificare come nei momenti rivoluzionari, quando le masse irrompono sulla scena pubblica per fare politica, i calcoli e i tempi si rompono, il pragmatismo viene sopraffatto e quello che alcuni mesi fa era impossibile adesso non solo è possibile ma è diventato realtà.
5/3/2011

Passeggiando attraverso il libro aperto della rivoluzione tunisina
Diversi miti si sono propagati intorno alle rivoluzioni nel mondo arabo, o perlomeno nei racconti che se ne sono fatti sui media occidentali. Uno di questi è il protagonismo delle classi medie urbane connesse alle reti sociali attraverso i loro telefono intelligenti. Un buon esempio è la copertina della rivista Jeune Afrique che, con una giovane della classe media avvolta nella bandiera tunisina, adorna i cartelli pubblicitari del centro della città. Un altro mito abbastanza diffuso è il supposto spontaneismo della rivolta, senza una previa organizzazione e coordinata attraverso facebook, l’unica rete sociale concessa dal regime di Ben Ali date le possibilità di controllo sulla cittadinanza, soprattutto sulla gioventù, che questa consentiva.
Con l’intento di conoscere i veri scenari e protagonisti della rivoluzione tunisina ci dirigiamo a Ben Arous, grande agglomerato industriale alla periferia di Tunisi, zona operaia per definizione e fedele riproduzione del “miracolo” economico neoliberale recettore degli investimenti diretti stranieri nei settori dell’elettricità, del tessile o dell’automobile. Lì ha un peso speciale l’Unione Generale dei Lavoratori della Tunisia (UGTT), unica organizzazione sindacale legale durante i 23 anni del regime di Ben Ali e principale organizzazione sociale tunisina. In questa situazione di spazio di organizzazione politica “in esclusiva”, integrava da direzioni collaborazioniste con la dittatura a basi locali e regionali oppositrici. Una dualità che all’inizio del 2011 ha favorito le seconde dopo un lungo processo di approfondimento e radicalizzazione delle richieste operaie iniziatosi durante la rivolta dei minatori di Sidi Bouzid nel 2008, decisivo per le numerose manifestazioni degli ultimi mesi o lo Sciopero Generale del 14 gennaio che provocarono la fuga di Ben Ali. Questa mattina la sede locale della UGTT a Ben Arous c’è un certo fermento: una riunione di donne nel patio centrale convive con la vertiginosa attività nei corridoi. Mohammed Mosalmi, dirigente sindacale dell’organizzazione locale ci parla del ruolo della UGTT nelle rivolte, mettendo insieme e politicizzando le diverse rivendicazioni settoriali che negli ultimi tre anni avevano accumulato più di 1570 conflitti sul lavoro, in più dei 70 scioperi auto-convocati nei due mesi successivi al 14 gennaio o le numerose occupazioni di imprese, in alcuni casi filiali di imprese transnazionali. 12.000 nuovi iscritti al sindacato in meno di sei settimane sono solo un riflesso della crescita della coscienza di classe e della necessità di organizzarsi che ha accompagnato il fermento rivoluzionario, specialmente nelle zone industriali come Ben Arous.
All’uscita della sede della UGTT un gruppo di donne di un’impresa di elettrodomestici ci chiede di visitare il loro centro di lavoro. La maggioranza delle sue 70 lavoratrici sono da 4 giorni in sciopero davanti alla fabbrica nella quale lavorano 48 ore alla settimana per meno di 100 euro al mese in condizioni di assoluta precarietà. Il padrone, facendosi scudo con la situazione di crisi internazionale e la rivoluzione, da settimane non paga loro nemmeno questo salario irrisorio. Conosciamo così di prima mano il conflitto sul lavoro e la presa di coscienza che accompagna il processo rivoluzionario attraverso le sue anonime protagoniste che, in modo appassionato, ci circondano e ci portano le loro lamentele, le ingiustizie, le ferite sul lavoro, le loro rivendicazioni e delle speranze che le riforme politiche si traducano realmente nella loro vita materiale quotidiana. Il grido più lanciato è “dignità”, e la immagine più ripetuta è la “v” di vittoria. Ambedue riassumono tutto un programma rivoluzionario: basta con le umiliazioni salariali e lavorative, basta essere invisibili, di non avere la parola.
Se dovessimo disegnare questa rivoluzione, senza dubbio una delle immagini principali sarebbe il sorriso di queste donne in lotta.
Un sorriso contagioso, di speranza e dignità. Di ritorno in centro a Tunisi, percorriamo la Avenida Bourguiba, strada principale della città e scenario delle principali manifestazioni e del terrore scatenato dai mercenari di Ben Ali, elementi contro-rivoluzionari usciti dai numerosi corpi di polizia. Il 14 gennaio, con Ben Ali che fuggiva dal paese in aereo, la polizia bloccava in questa strada migliaia di manifestanti che, gasati con lacrimogeni e presi a fucilate da franchi tiratori nascosti sulle case, si sono rifugiati nei portoni e negli appartamenti dei palazzi, e durante la notte molti di loro sono stati vittime di una repressione alla cilena fino alla tortura e alla morte. Una settimana fa, la sera della caduta dell’ex primo ministro Ghannouchi, sette persone morivano in questa strada per mano delle milizie. Oggi, gli edifici istituzionali, incluso il tetro Ministero degli Interni dove, purtroppo si torturano le speranze del popolo tunisino, continuano a essere protetti da reticolati e dai carri armati dell’esercito che è rimasto neutrale però è intervenuto per difendere il popolo dalle milizie paramilitari. La Avenida Bourguiba è come gli specchi di Max Estrella, in cui si riflettono deformate opportunità, sfide e pericoli del processo rivoluzionario, in cui la polizia gira nelle strade coperte da manifesti, incontrando quello stesso popolo rivittorioso e represso, lottatore e torturato. Una calma tesa che si avverte a ogni passo, come se ci si aspettasse una nuova tempesta. Terrazze di caffè brulicanti, vendita ambulante proibita fino ad oggi, filo spinato, poliziotti sinistri e blindati militari sono alcuni dei fattori che compongono il quadro non finito di questo periodo storico ancora completamente aperto.
Con le prime riforme democratiche è arrivata anche la legalizzazione dei partiti politici, sia quelli appena creati che quelli di lunga traiettoria politica, sia in clandestinità che nascosti dentro le organizzazioni del vecchio regime. Uno di questi è il Partito del Lavoro patriottico e democratico, membro del Fronte del 14 gennaio. Nella sua sede appena inaugurata, a pochi metri dalla Avenida Bourguiba, ci riceve Mohamed Jmour, uno dei suoi dirigenti. Ci espone il suo programma per partecipare alla convocazione di elezioni all’Assemblea Costituente del 24 luglio con una piattaforma unitaria e ampia che riunisca diverse organizzazioni di sinistra e nazionaliste progressiste, che secondo lui potrebbero raggiungere il 30% dei voti e garantire così molte delle conquiste fatte fino ad ora. Senza dubbio, la rivoluzione tunisina ha contato e conta con una spontaneità che va oltre il calcolo e le previsioni di qualunque organizzazione rivoluzionaria; con una ampiezza sociale che ha incorporato e continua a incorporare anche le classi medie della capitale; con reti sociali come facebook convertite in strumenti di coordinamento delle rivolte. Orbene, porre tutta l’attenzione esclusivamente su questi elementi è negare la moltitudine di storie di lotta e resistenza che si sono succedute negli ultimi anni, il ruolo giocato dalle organizzazioni clandestine e segrete, le loro vittorie parziali ma importanti se non fondamentali nel processo rivoluzionario; è scattare la foto dei giovani dei quartieri auto-gestiti, delle operaie in sciopero di Ben Arous, dei sindacalisti che dalle loro piccole sedi locali coordinavano scioperi settoriali e appoggiavano le occupazioni delle fabbriche.
Non senza ragione, qualcuno ha scritto su una parete della Avenida Bourguiba: ’Thank you Facebook’. Sarebbe ingiusto che questa rivoluzione continuasse senza che nessuno riconoscesse e ringraziasse anche il resto dei suoi protagonisti. Benché sia molto probabile che molti/molte di loro non cercano il loro nome scritto su una parete né la loro faccia stampata sulla copertina di una rivista, ma piuttosto semplicemente vogliono vedere che la loro lotta, degna e valorosa, permette loro finalmente di prendere in mano le redini del futuro. E il futuro in Tunisia è oggi un libro aperto che migliaia di mani stanno scrivendo.
6/3/2011
Traduzione di Fiorella Bomè.

Tunisia: donne e sindacati tra rivoluzione e futuro

www.nena-news.com

Tunisi, 17 Marzo 2011, Nena News – Emna Aouadi ricopre alte responsabilità nella UGTT, l’Unione Generale del Lavoratori Tunisini, il più grande sindacato tunisino : è membro dell’Ufficio nazionale della Commissione delle Donne e Segretario di un sindacato di base dell’insegnamento nelle scuole primarie. Bérénice Michard, l’ha incontrata a Tunisi, alla Conferenza Nazionale delle Donne per l’Uguaglianza e la Cittadinanza, organizzata il 13 marzo dalle principale associazioni femministe tunisine.

DI BERENICE MICHARD*

Quale ruolo ha giocato l’UGTT nella ‘rivoluzione’ tunisina ?

L’UGTT ha sostenuto e accolto la rivolta attraverso i suoi attivisti, le associazioni regionali e settoriali. La maggior parte dei manifestanti tra il 17 dicembre e il 14 gennaio si sono diretti verso la sede dell’UGTT, perché non vi erano altre strutture dove fosse permesso andare: i partiti politici, le associazioni, le organizzazioni sociali erano tutte circondate; l’UGTT è stato il rifugio per giovani, sindacalisti, militanti, disoccupati…E’ dalle sedi dell’UGTT che é partita la gran parte dei cortei e manifestazioni. Il 13 gennaio abbiamo lanciato lo sciopero generale a Sfax, Jendouba, Kerouane, Gabbès… e il 14 gennaio a Tunisi. Poi ci siamo radunati davanti al ministero degli Interni fino a sera, fino alla caduta di Ben Ali.

Da molto tempo l’UGTT è a fianco della società civile nelle manifestazioni e nelle comunicazioni, in particolare con la Lega Tunisina dei Diritti dell’Uomo. Durante le proteste del bacino minerario di Gafsa-Redeyef nel 2008, abbiamo organizzato dei comitati di sostegno ai prigionieri e alle loro famiglie ed è grazie alle nostre pressioni che sono stati liberati nel 2009.

Quale é il ruolo della Commissione della Donna lavoratrice all’interno di UGTT ?

La sua funzione è di tipo consultivo, e non è indipendente. All’interno del sindacato le donne sono presenti, anche nei posti di responsabilità delle sezioni regionali e settoriali, ma nessuna donna è nell’esecutivo nazionale, composto da 13 uomini! Le donne sono più numerose nei settori tessile, turistico, nell’elettronica, nell’insegnamento, quello sanitario e delle pulizie…Mentre nel settore privato, soprattutto nei subappalti, la sindacalizzazione è molto più difficile, a causa della precarietà e della paura di essere licenziate. Il nostro ruolo è di migliorare le condizioni delle donne nel lavoro, attraverso l’informazione, la formazione, azioni di sostegno alle lavoratrici in lotta e la realizzazione di ricerche sulla loro realtà.

Quale ruolo gioca la Commissione Donne de l’UGTT nel movimento femminista ?

Siamo in contatto con la società civile per uno scambio di idee e esperienze, con lo scopo di compiere azioni per le lavoratrici. Abbiamo festeggiato l’8 Marzo con le associazioni e realizzato attività nel corso di diversi giorni: una tavola rotonda sulla partecipazione femminile nella rivoluzione, con una mostra e il 12 marzo abbiamo organizzato una marcia sul viale Bourghiba e alla fine un concerto. I nostri slogan sono stati “uguaglianza e parità”, per alcune anche la laicità, ma non tutte hanno lo stesso approccio: bisogna capire che all’interno di UGTT coesistono diverse correnti di pensiero, perché l’UGTT per lungo tempo è stato un “rifugio” per gli attivisti perseguitati, quindi parliamo di un mosaico vario di opinioni, senza però gli islamici.

Come considerate di contribuire a questo periodo di transizione?

L’UGTT ha già una grande esperienza di democrazia alle spalle. Abbiamo dato spazio a tutte le opinioni e i movimenti – tranne quello islamico – abbiamo un’esperienza nelle elezioni, in qualità di osservatori, nella costituzione di liste e nell’organizzazione di campagne. Si tratta di una vera pratica democratica e siamo certamente coloro con più esperienza nel settore delle elezioni, cosa che è una scommessa in vista delle elezioni del 24 luglio. L’UGTT è un’organizzazione conosciuta in tutte le regioni, con una legittimazione perché ha partecipato all’indipendenza dei paese in tutti i periodi più recenti.

L’UGTT ha sempre giocato e continuerà a giocare un ruolo in due sensi : sia sociale che nazionale. Un « fardello nazionale » che il sindacato esercita in tempo di crisi, come nell’ultimo periodo : la pressioni dell’UGTT hanno fatto cadere i due governi Ghannouchi e portato alla dissoluzione di un governo illegittimo. E’ possibile che siano attivisti dell’UGTT a formare delle liste indipendenti, se i partiti politici non riusciranno ad accordarsi e a rafforzarsi prima delle elezioni.

Come donna sindacalista, come vedi il futuro ?

Sono molto preoccupata per i diritti delle donne, perchè esiste la minaccia di un ritorno dell’RCD (Rassemblement Constitutionnel Démocratique) e degli islamisti, ma in contesto che non è il loro. Un contesto di modernità, di uguaglianza tra i sessi, di protezione del Codice dello Statuto personale. Ma come donna lavoratrice, credo nella modernità, quella difesa da Tahar Haddad[1]. Le elezioni del 24 luglio rappresentano una grande sfida. Faccio appello a tutte le persone democratiche e ai giovani che hanno sventolato e chiesto a gran voce libertà, uguaglianza, dignità e democrazia, a difendere la rivoluzione, a recarsi alle urne scegliendo coloro che rappresentano un progetto di società tunisina moderna, aperta, democratica, in linea con il suo patrimonio storico: una modernità che ingloba la laicità, il comunismo…faccio appello alle donne perché siano vigili, perché non si fidino di chi vuole riportarle indietro e riportare la donna al focolare.

Infine come sindacalista, faccio appello agli uomini e alle donne ad attivarsi e lavorare duro per la difesa e la messa in pratica degli slogan rivoluzionari. Occorre avere un contatto diretto con la gente, discutere, negoziare alleanze sulla base di un minimo comune democratico, con coloro che rispettano i diritti umani e l’uguaglianza tra donne e uomini, che hanno preso parte alla rivoluzione gli uni affianco alle altre. Le donne hanno il diritto di godere dei frutti di questa rivoluzione.

Quale é il messaggio che vuoi inviare all’Europa ?

Vorrei dire a coloro i quali sono stati sordi fino ad oggi che devono adesso stare affianco del popolo tunisino. Non abbiamo paura degli islamisti, non agiteremo questo spettro : possiamo discutere, confrontarci, forse convincerli. Il popolo che ha sconfitto Ben Ali il 14 gennaio e detto no alla dittatura è capace di fare lo stesso con ogni altra dittatura…Soprattutto le donne tunisine sono pronte, a difendere le loro conquiste per migliorarle, come hanno fatto in questa rivoluzione. Abbiamo un appuntamento con la Storia ! Nena News

*Bérénice Michard,Politologa, ex-coordinatrice area Maghreb per l’ONG spagnola ACSUR Las Segovias.

Traduzione dall’articolo in originale francese di Barbara Antonelli.


[1] Tahar Haddad (1899-1935), giornalista e sindacalista tunisino. Famoso per gli scritti in favore dei diritti dei lavoratori e dell’emancipazione della donna. Ha pubblicato in particolare « I lavoratori tunisini e la nascita del movimento sindacale » nel 1927 e « La nostra donna nella sharia e la società » nel 1930..

15 marzo 2011

Nucleare: scacco matto a Fukushima

di Marco Bersani


E' ancora una volta la realtà, con tutta la sua drammaticità, a spiegare cosa significa concretamente cosa significa la scelta nucleare. Mentre il Forum Nucleare spendeva 2 milioni di euro per presentare un’ingannevole campagna sul nucleare come una discussione da salotto tra una mossa di scacchi e l’altra; mentre il prof. Veronesi dichiarava che avrebbe dormito senza alcun problema con le scorie radioattive sotto il letto (non risulta al momento pervenuta l’opinione dei condomini); mentre Kikko Testa si sbracciava tra un dibattito e l’altro a spiegare le magnifiche sorti e progressive del nucleare (e del suo conto corrente da quando ha abbandonato l’ecologismo), la realtà, ancora una volta e con tutta la sua drammaticità, si premurava di spiegare cosa significa concretamente la scelta nucleare. Il terremoto che ha stravolto il Giappone ha provocato un’esplosione dentro un reattore nucleare a Fukushima, provocando una nube radioattiva, l’evacuazione di 140.000 persone e il ricovero immediato di oltre un centinaio di persone; nel frattempo, anche il sistema di raffreddamento di altri due reattori dello stesso complesso nucleare dimostra anomalie non ancora risolte e foriere di ulteriori drammatiche preoccupazioni. Di fronte a tale scientifica dimostrazione del fatto che le centrali nucleari sono intrinsecamente insicure, per cui ogni consesso civile dovrebbe fare l’unica scelta di buon senso possibile – l’ abbandono di una strada energetica obsoleta, insicura, diseconomica e pericolosa- riparte la campagna ideologica dei nuclearisti sulla base delle ormai vetuste dichiarazioni “da noi non potrebbe mai succedere” / “le nuove centrali non comporterebbero questi problemi”/ “e comunque in Giappone non è successo nulla di grave” etc. etc.
Non succederà certo un’inversione di rotta del Governo e dei poteri forti.
Ma quello che può succedere è la ribellione popolare a chi non esita a destinare 40 mld di euro per una tecnologia che rimette l’energia, la sicurezza e la democrazia nelle mani dei soliti noti.
Il popolo dell’acqua ha convocato per il prossimo 26 marzo a Roma una manifestazione nazionale per la ripubblicizzazione dell’acqua e per la difesa dei beni comuni, dei diritti e della democrazia.
Sarà la manifestazione di quanti lottano per la vita e contro la sua consegna ai profitti dei mercati finanziari.
Dovrà essere il luogo dentro il quale anche l’opposizione antinucleare dimostri la propria capacità di presenza diffusa e reticolare, la propria radicale alternativa verso un modello energetico “pulito, territoriale e democratico”, il proprio insopprimibile desiderio di futuro per il pianeta, le generazioni presenti e future.
Tutte e tutti assieme, allegri e determinati, attivi per non divenire radioattivi, pronti a sommergere con tre valanghe di SI ai referendum della prossima primavera i poteri forti della privatizzazione dell’acqua e del ritorno al nucleare.
Tutte e tutti in piazza, perché tra la Borsa e la vita, abbiamo scelto la vita e la speranza di futuro.

14 marzo 2011

Palestina 15 marzo: fine della divisione

Ramallah, 14 marzo 201, Nena News
In un appello congiunto, numerose organizzazioni giovanili, hanno convocato una manifestazione popolare per chiedere la fine della divisione del popolo palestinese e proclamato il 15 marzo “giornata della riconciliazione”. Nella giornata di martedì, le maggiori città della Cisgiordania e della Striscia di Gaza si mobiliteranno per richiedere ai rispettivi rappresentanti (al-Fatah e Hamas) una rinnovata unità basata sui principi e i valori condivisi da tutti. Le stesse organizzazioni, che rivendicano la propria indipendenza rispetto ad ogni partito politico, hanno posto come principio base l’illegittimità della detenzione politica ed esigono in primo luogo “il rilascio di tutti i prigionieri politici detenuti dal governo di Gaza e dall’Autorità Palestinese in Cisgiordania”.
La fine della divisione, si legge nel comunicato, può cristallizzarsi solamente attraverso “la completa ristrutturazione del Palestinian National Council, e la creazione di un nuovo modello elettorale per l’insediamento di un governo democratico che rappresenti equamente tutti i palestinesi nel mondo (Cisgiordania, Striscia di Gaza, territorio del ’48, campi rifugiati e palestinesi della diaspora)”. Con pregevole acume lo stesso documento, non solo contempla il rischio che entrambi i governi possano sfruttare la “giornata della riconciliazione” a proprio favore, ma ne denuncia esplicitamente le intenzioni: “il governo Fayyad di Cisgiordania e quello di Hamas a Gaza stanno cercando di cooptare il movimento per servire i propri interessi ed auto-legittimarsi. Quello del 15 marzo è un movimento del popolo per il popolo in cui ogni appartenenza politica o sostegno istituzionale deve rimanere escluso”.
Dall’appello emerge con chiarezza come i giovani palestinesi siano consci che le spaccature all’interno della società siano ben più di un semplice attrito e che ci siano degli interessi politici ed economici atti a mantenerle tali. Inoltre, che gli stessi interessi facciano in qualche modo parte di un quadro più ampio al cui interno campeggiano sia Israele che U.S., è una sensazione che sembra permeare la popolazione benché a dichiararla siano solo in pochi ma che ha avuto come ultima prova le rivelazioni emerse dai files di Wikileaks a proposito delle trattative per Gerusalemme Est e il diritto al ritorno.
L’appuntamento del 15 marzo, nonostante sembri essere nutrito da rivendicazioni del tutto legate alla questione palestinese, probabilmente non avrebbe acquisito forma (o almeno non con tale tempestività) senza la spinta dei nuovi eventi che stanno coinvolgendo il vicino e il medio oriente, dal Libano alla Tunisia, dalla Giordania al Bahrein. Se fino ad oggi non si può dire che le dimostrazioni a supporto delle rivoluzioni e dei popoli che stanno lottando per la libertà siano state imponenti, ciò non significa che i palestinesi siano disattenti a quello che gli accade intorno. Essi, al contrario, seguono con grande attenzione il fluire degli avvenimenti ma non possono che dimostrarsi prudenti, inchiodati alla duplice stretta dell’occupazione israeliana e dei contrasti politici interni. Per di più, fatta eccezione dei “numeri”, le manifestazioni di sostegno da parte della società civile sono state puntuali e visibili, e sembrano salire di intensità ad ogni occasione. La “giornata della riconciliazione” può quindi essere interpretata anche come la “declinazione palestinese” dello stesso “malcontento popolare panarabo” che sta svalicando i confini nazionali (laddove di confini si può parlare) unendo con particolare entusiasmo le giovani generazioni.
Come preludio all’evento è in corso da qualche giorno uno sciopero della fame da parte di alcuni ragazzi e ragazze che nei giorni scorsi hanno svolto un sit-in di protesta ad al-Manara, la piazza centrale di Ramallah.

A tale proposito, vale la pena ricordare che l’appello del 15 marzo si rivolge con particolare enfasi ai giovani: è dalla loro voce che deve partire la spinta verso l’unità di tutto un popolo, unità considerata la prima e fondamentale arma per la lotta contro l’occupazione israeliana. Nena News

11 marzo 2011

11 marzo: contro Berlusconi e contro Marchionne. La mobilitazione che serve, la mobilitazione che si può fare

Berlusconi, Marchionne e Marcegaglia, con il pieno sostegno dei “sindacati complici” Cisl,Uil e Ugl continuano nelle politiche di massacro sociale per scaricare i costi della crisi sui lavoratori e le lavoratrici; facendo di questa un alibi e un grimaldello per cancellare diritti e conquiste sociali,imponendo la “legge del più forte”, cioè dei padroni nei luoghi di lavoro e nella società.
In tutta Europa si impongono ai lavoratori politiche di austerità in nome del risanamento di un debito pubblico di cui essi non portano alcuna responsabilità e che è diretta conseguenza del salvataggio delle banche operato da tutti i governi dopo l’esplosione della cosiddetta “bolla finan ziaria” che ha anticipato e preparato la recessione.
Dagli accordi separati di Pomigliano e Mirafiori,ai colpi della crisi economica e della drammatica riduzione del valore dei salari e delle pensioni si sono aggiunti gli effetti dei brutali tagli operati sui trasporti,servizi sociali,scuola e sanità.Padroni ,governo,una “opposizione” compiacente e sindacati complici e corrotti vogliono ingabbiare la volontà di lotta del movimento dei lavoratori rendendo sempre più difficile l’esercizio del diritto di sciopero e limitando fino a cancellare la stessa rappresentanza sindacale diretta del lavoro dipendente.
Gli ennesimi accordi separati ,prima nel pubblico impiego e poi nel commercio,determinano una situazione ancora più difficile per i lavoratori e le lavoratrici ed indicano la strada che padroni e Governo Berlusconi- su questo pienamente d’accordo vogliono perseguire:frammentare,ridurre, cancellare la forza collettiva dei lavoratori,colpire insieme salario,occupazione,diritti,rendere sistematica la precarietà e l’incertezza del proprio futuro.
In tutta Europa i lavoratori e i giovani hanno rifiutato con le lotte e vere e proprie rivolte sociali l’austerità che vogliono imporgli;il vento che spira dai paesi del mondo arabo indica che popoli oppressi da decenni hanno imboccato con fatica e sacrifici la strada della dignità ritrovata, del riscatto, della propria emancipazione e liberazione. Quel vento arriva fino a noi e si contamina con le resistenze sociali e i movimenti di massa che si esprimono nelle piazze e nelle città italiane ed europee.
Le giornate del 14 dicembre scorso a Roma ,di cui sono stati protagonisti studenti medi ,universitari,ricercatori e docenti ,giovani precari e giovani delle periferie delle nostre città, e lo sciopero promosso dalla Fiom e da alcuni sindacati di base il 28 gennaio hanno dimostrato quale è il potenziale delle lotte sociali e della volontà di ribellarsi allo sfruttamento, all’oppressione e all’esclusione sociale di giovani,studenti,operai,migranti,lavoratori pubblici. Il 1 marzo abbiamo assistito,dopo l’esperienza dello scorso anno e le lotte di Brescia,Milano, Rosarno,Bologna,Casal di Principe e Castelvolturno,al ritorno in campo dei migranti, del loro protagonismo della loro spinta all’autorganizzazione.Il 26 Marzo,poi, saraà la volta del movimento per l’Acqua Pubblica e per i Beni comuni, che scenderà in piazza a Roma insieme ai protagonisti delle tante vertenze territoriali e ambientali che attraversano questo paese e le sue comunità locali,da Terzigno alla Val di Susa,ai cittadini terremotati de L’Aquila
La giornata di sciopero generale dell’11 marzo promossa dall’Usb e quella del 15 aprile della Cub sono altrettante occasioni per dare continuità a quelle mobilitazioni ,rimettendo di nuovo al centro dello scontro la dignità e la voglia di riscatto dei lavoratori pubblici e privati ,interpretata da organizzazioni sindacali di base che si sono costruite,faticosamente,contro le politiche concertative, da sempre, e contestando il monopolio burocratico della rappresentanza, che oggi arriva a colpire la Fiom e minaccia la stessa Cgil con la strada scelta da governo e sindacati complici degli accordi separati per ridisegnare relazioni sindacali e modelli contrattuali..Ma queste scadenze,sole e isolate una dall’altra,non sono sufficienti.
Occorre raccogliere gli appelli lanciati da diversi soggetti di movimento,e in particolare dall’ Assemblea nazionale dei delegati e lavoratori/trici autoconvocati/e che si è svolta a Roma il 26 febbraio , a quello analogo promosso dagli studenti di Atenei In Rivolta de La Sapienza di Roma e altre Università di questo paese per un percorso unitario di mobilitazioni ,inclusivo di tutti i soggetti come “Uniti contro la crisi” e i movimenti in corso. Un’Assemblea nazionale unitaria a Roma sarebbe in grado di convocare una grande manifestazione nazionale di massa da realizzare entro Aprile che riunifichi insieme tutte le opposizioni sociali, sindacali e politiche a Berlusconi e Marchionne.Un grande Manifestazione nazionale che dica forte e chiaro” questa crisi noi non la paghiamo, la paghino i padroni, via il governo delle cricche e dei comitati di affari,che se ne vadano Berlusconi e Marchionne e tutti i loro amici”.Una Manifestazione che voglia trasformare il centro della capitale nella nostra Piazza Tahrir. Luogo di espressione ed autorganizzazione di una protesta di massa capace di diventare rivolta sociale.
“Attraversare” anche lo sciopero indetto dalla Cgil il 6 maggio, del tutto inadeguato e funzionale alla
ricontrattazione del proprio ruolo concertativo con governo e padroni ,sarà possibile solo se questo appuntamento diventa lo sbocco di un percorso di mobilitazione dal basso contro le politiche di austerità in atto che abbia come bersaglio il governo insieme ai padroni e che sia in grado di mettere in moto tutti protagonisti del conflitto sociale:giovani precari,studenti,operai e lavoratori del pubblico,migranti e donne e movimenti femministi scesi in piazza il 13 febbraio . Quello che serve è uno sciopero generale prolungato per tutta la giornata in tutte le categorie e generalizzato, cioè capace di coinvolgere strati di lavoratori,precari e non, che “normalmente” non riescono ad esercitare il proprio diritto di sciopero. Uno sciopero che sia capace di “far male” a padroni e governo interrompendo il flusso delle merci,ostacolando i trasporti,la logistica e la distribuzione,bloccando strade,porti,aereoporti,snodi di traffico e ferrovie.
In una parola,occorre agire unitariamente contro la crisi,unificando lotte,movimenti,vertenze per il reddito e il salario,contro la precarietà e i licenziamenti,per redistribuire il lavoro tra tutti e tutte,per difendere diritti e conquistarne di nuovi,dimostrandosi capaci ,dal basso di sconfiggere insieme Berlusconi,Marchionne,Brunetta e Marcegaglia.

Perché ribellarsi non è soltanto giusto e necessario. Può anche essere vincente.

Sinistra Critica - Organizzazione per la Sinistra Anticapitalista

8 marzo: Donne in rosso

10 marzo 2011

Chi ha paura dei movimenti per l'acqua?

di Marco Bersani
Attac Italia

Quanto più si avvicina la primavera referendaria per la ripubblicizzazione dell’acqua, tanto più i poteri forti entrano nel panico. “Chi ha paura dei movimenti per l’acqua?” viene da domandarsi. “Molti e diversi fra loro” è l’inevitabile risposta.
Ne ha paura il Governo che, con l’art. 23bis, ha tentato la definitiva consegna della gestione del servizio idrico nelle mani delle multinazionali e del capitale finanziario, ricavandone una ribellione diffusa e reticolare che ha prodotto il record di 1,4 milioni di firme in calce ai quesiti referendari. Pronto a richiamarsi alla volontà del popolo ogni volta che il premier è in difficoltà, il Governo sprofonda nell’incubo all’idea che finalmente il popolo possa davvero pronunciarsi, su un tema preciso e aldilà di ogni appartenenza partitica : ecco perché preferisce caricare sulla spesa pubblica altri 400 milioni di euro – in tempi di crisi!- piuttosto che accorpare elezioni amministrative e voto referendario, come buon senso ed etica pubblica imporrebbero.
Ne ha paura il Pdl, che ha appena chiamato -8 marzo a Roma- i propri amministratori locali per una giornata di studio sponsorizzata da Veolia, ovvero la più grande multinazionale dell’acqua, già famosa per le “efficienti” gestioni dell’acqua ad Aprilia, in Calabria, in Piemonte, Liguria ed Emilia.
Ne ha paura la Lega Nord, che dovrà spiegare ai suoi sindaci e ai suoi elettori –molti firmatari dei quesiti referendari- come si concilia il federalismo con l’espropriazione di ogni possibilità di decisione da parte degli enti locali sulla gestione di un bene essenziale come l’acqua. Ma anche nell’opposizione le fobie non mancano. A partire dalla segreteria nazionale del Partito Democratico, incapace ad oggi a prendere posizione a favore dei SI, perché ad una base, che in molti territori -più che benvenuta- si è impegnata nei banchetti di raccolta firme, continua a preferire i potentati locali che da oltre due decenni hanno costruito alleanze di potere fondate sulle Spa a capitale misto pubblico/privato.
E che dire del vertice dell’Italia dei Valori che, dopo aver raccolto le firme su un proprio quesito sonoramente bocciato dalla Corte Costituzionale, non perde occasione per accreditarsi come promotore anche dei referendum sull’acqua, mettendoli tutti al servizio di una campagna politicista unicamente incentrata sull’antiberlusconismo?
Grande è il disordine sotto il cielo, si diceva una volta. Ma noi che abbiamo indirizzato lo sguardo al futuro preferiamo guardare a tutte quelle donne e quegli uomini che, indipendentemente dal loro punto di partenza, hanno deciso di camminare assieme per liberare l’acqua e la democrazia, realizzando un imponente percorso di partecipazione sociale dal basso e riuscendo ad imporre la gestione dell’acqua nell’agenda politica di questo Paese.
Temono il voto sull’acqua, perché rimetterebbe in discussione tutte le politiche liberiste di questi ultimi decenni e costringerebbe a discutere di un altro modello economico e sociale, fondato sulla riappropriazione sociale dei beni comuni e sulla gestione partecipativa delle comunità locali. Ma temono anche il riconoscimento di una nuova soggettività sociale che ha superato il binomio “espressione di un bisogno/delega al Palazzo” per farsi costruzione di un percorso di partecipazione collettiva dal basso che, nel dire “fuori l’acqua dal mercato, fuori i profitti dall’acqua”, afferma la necessità di un nuovo paradigma : su ciò che a tutti appartiene, tutte e tutti devono decidere.
Sono le donne e gli uomini che il 26 marzo riempiranno di allegria e determinazione le strade e le piazze di Roma in una grande manifestazione nazionale. Sono le donne e gli uomini che dal giorno successivo esporranno da finestre e balconi migliaia di bandiere dell’acqua per sostituire dal basso l’informazione che dall’alto continua colpevolmente a latitare. Chi ha voglia di capire come sta cambiando il mondo, non ha che da seguirli. Per una volta ascoltandoli con rispetto.

Libia: pacifisti contro l'ingerenza armata occidentale

In tutto il mondo cresce la mobilitazione contro un attacco militare, e non solo, da parte degli Stati Uniti, dell'Europa e della Nato contro la Libia

di Marinella Correggia
Nena News

La redazione dell’appello, drastica nella presa di posizione (niente intervento, di nessun tipo) e chiara anche nella condanna della natura dei regimi che sono sotto attacco, è stata affidata all’attivista per la nonviolenza Kathy Kelly, che dopo molti anni di opposizione all’embargo all’Iraq, nella primavera 2003 era a Baghdad durante l’invasione e l’occupazione, con diversi pacifisti internazionali membri dell’Iraq Peace Team. Allora c’era Bush, ora Obama. Ma la guerra è guerra. L’Unac si è così posto al centro del dibattito, e sta preparando per il 9 aprile a New York e per il 10 a San Francisco due grandi manifestazioni contro tutte le guerre Usa.
2. In Francia è stato diffuso un appello franco-arabo – «Non à l’intervention étrangère en Libye» – contro l’intervento militare. L’appello (ne circolano altri due analoghi in Francia) sostiene “la lotta per i processi in corso nei paesi arabi” e denuncia “le forze esterne che intendono interferire per sabotare il processo. I popoli della Tunisia e dell’Egitto con i loro movimenti rivoluzionari sono riusciti a rovesciare dittatori legati e sostenuti da potenze imperialiste. Come nel caso di altri popoli, adesso spetta al popolo libico decidere del proprio avvenire e senza ingerenze, che violerebbero la Carta delle Nazioni Unite” (non è infatti in ballo alcuna aggressione ad altri paesi, unica possibile legittimazione a interventi militari Onu). L’appello cita anche il caso dei crimini di guerra su Gaza, lasciati cadere nel vuoto dalla comunità internazionale; e denuncia il “battage mediatico unilaterale”.
3. In Italia è la rete Disarmiamoli a parlare allo stesso modo: “Il movimento contro la guerra nei giorni scorsi si è mobilitato al fianco delle comunità magrebine, scese in piazza per sostenere le salutari rivolte che stanno sconvolgendo il Maghreb e molti altri paesi africani. La solidarietà nostra va ai popoli in lotta contro tutti i regimi messi in discussione dai moti popolari, senza cadere nei tranelli costruiti ad arte per giustificare nuove ingerenze o invasioni imperialiste, così come sta avvenendo nel caso libico. Siamo per l’autodeterminazione del popolo libico e di tutti i popoli in lotta in Nord Africa, non certo per assecondare la tristemente nota pax occidentale”.
4. Queste motivazioni a favore delle rivolte arabe e perciò contro l’interventismo di stati esteri si ritrovano nell’accurata analisi storica e attuale dell’esperto di mondo arabo e musulmano Mohamed Hassan, etiope, ex diplomatico per il suo paese, autore nel 2003 del libro “L’Iraq sous occupation”, nell’intervista rilasciata al media online Investig’Action. Secondo Hassan, “intervenire in Libia permetterebbe a Washington di spezzare il movimento rivoluzionario nell’intera area ed evitare che si estenda a tutto il mondo arabo e all’Africa”: Gli Usa e l’Occidente, presi in contropiede dalle rivoluzioni tunisina e ancor più egiziana, stanno cercando di “recuperare” quei movimenti popolari, che però sfuggono loro di mano (nello stesso Egitto dove gli Usa contano sull’esercito per mantenere un “sistema accettabile”, ci sarebbero in tante caserme giovani ufficiali che si organizzano in comitati rivoluzionari per lavorare con il popolo).

Il pericolo che con un intervento gli Usa vorrebbero scongiurare è di veder emergere governi antimperialisti in Tunisia ed Egitto (in un momento già di crisi anche di fronte alla prepotente avanzata cinese); in questo caso Gheddafi potrebbe rinunciare agli accordi conclusi con l’Occidente, “non sarebbe la prima volta che cambia cavallo”. Hassan sottolinea che il rigetto della proposta di mediazione avanzata dal presidente venezuelano Hugo Chavez e da diversi paesi latinoamericani (e appoggiata da diversi movimenti popolari e da Fidel Castro nel suo ormai noto articolo del 3 marzo “La guerra inevitabile della Nato”) è segno che non si vuole una via d’uscita pacifica al conflitto in Libia. Il popolo libico, prosegue Hassan, “non merita un’aggressione militare”. E “merita di meglio di questo movimento di opposizione che sta precipitando la Libia nel caos”. La sua impressione è che i sentimenti di quella parte della popolazione che è stufa del regime (e di tutti i suoi numerosissimi errori e della corruzione) siano strumentalizzati dall’opposizione dell’est del paese che vuole la parte della torta: “Chi sono del resto i ribelli? E se volessero davvero condurre una rivoluzione democratica, perché hanno come insegna la bandiera del re Idriss, di quando la Pirenaica dominava tutto il paese? Hanno chiesto il parere agli altri libici?”. Hassan si chiede infine come si può considerare democratico un movimento che “massacra i neri” considerati mercenari di Gheddafi, cerca una guerra civile e chiede un intervento militare straniero.
5. Intanto chi si fa domande cerca di ricostruire i percorsi di disinformazione che alimentano l’appello all’intervento, non solo da parte dei rivoltosi dell’Est libico. Non ci sono prove di alcun tipo dei “massacri di civili” e dei “bombardamenti sulle città”. Le cifre apocalittiche delle prime ore, 10mila morti e 50mila feriti avanzate dall’emittente saudita Al Arabyia che citava un falso rappresentante del Tribunale penale internazionale si sono rivelate campate in aria. Il 22 febbraio la Bbc e Al Jazeera inoltre riportavano di bombardamenti su quartieri di Bengasi e Tripoli, ma come riporta la tivù russa Rt, i satelliti dell’esercito russo fin dall’inizio dalla crisi “non hanno registrato alcun bombardamento” e del resto non ci sono foto né video che attestino distruzioni.

09 marzo 2011

9 marzo: inaugurazione dell'università popolare

UNIVERSITA' POPOLARE

>>>> WORKSHOP DI AUTOFORMAZIONE SULLA CRISI <<<<

Attac e Sinistra Critica propongono un seminario di autoformazione su alcuni specifici aspetti della crisi. Per favorire la partecipazione, la discussione e l'apprendimento, abbiamo pensato di definire la seguente modalità organizzativa: non è prevista la presenza di un relatore che tenga delle esposizioni frontali, ma un facilitatore che si limiti ad introdurre e seguire i corso della discussione. Al termine di ogni incontro verrà distribuito del materiale da leggere in previsione dell'incontro successivo, nel quale verrà discusso in modo quanto più partecipato il tema definito. Il workshop è totalmente autofinanziato e sarà quindi richiesto un contributo simbolico di 2 euro ad incontro per le spese.
Ai fini organizzativi si richiede di far pervenire l'adesione ai contatti sotto indicati.


MERCOLEDI' 9 MARZO ore 20.45
>>> ASSEMBLEA PUBBLICA di apertura: "Crisi ed Europa: PIGS* attenti al lupo!" *(Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna)
Relatore: Giulio Palermo (insegna Economia Internazionale e International economic growth all' Università di Brescia).

MERCOLEDI' 23 MARZO ore 20.45
>>> "Politiche economiche e monetarie europee"
Facilitatore: Fabrizio Valli (Attac e Sinistra Critica)

MERCOLEDI' 06 APRILE ore 20.45
>>> "Lavoro, stato sociale e politiche redistributive"
Facilitatore: Fabrizio Valli

MERCOLEDI' 20 APRILE ore 20.45
>>>"Finanziarizzazione dell'economia, mutui e derivati"
Focus sul caso del Comune di Verona
Facilitatore: Aldo Balestreri (Attac)

MERCOLEDI' 04 MAGGIO ore 20.45
>>> "Crisi economica e crisi ecologica, quale idea di sviluppo per uscire dalla crisi?"
Facilitatore: Fabrizio Valli

MERCOLEDI' 18 MAGGIO ore 20.45
>>> "L'emancipazione malata. La crisi ed il lavoro delle donne"
Facilitatrice: Giulia Lobba (Sinistra Critica)


Gli incontri si terranno presso
CICLOFFICINA LA SCATENATA
via dietro campanile san tomaso 4 / lungadige san micheli 9, giù dalle scalette

INFO E CONTATTI:
Marco 347 2592560 CorsivoCristiano 347 5308104
attacvr@libero.it
scverona@gmail.com

Attac ::: Sinistra Critica

08 marzo 2011

Egitto: le spie di Mubarak al contrattacco

Per la prima volta dalle dimissioni dell’ex raìs Hosni Mubarak, dozzine di agenti dell'odiata Sicurezza dello Stato hanno aggredito i dimostranti che protestavano contro la distruzione di documenti segreti. Oggi la presentazione del nuovo governo

Il Cairo, 7 marzo 2011, Nena News – Decine di spie in abiti civili appartenenti all’odiata Sicurezza dello Stato (Amn al Dawla), uno dei principali strumenti di oppressione del regime dell’ex presidente Hosni Mubarak, hanno attaccato con bottiglie molotov, bastoni e coltelli la folla che ieri sera cercava di entrare in una delle sedi del servizio di sicurezza per impedire la distruzione di documenti segreti. L’aggressione è stata molto violenta, i feriti si contano a decine e solo l’intervento dell’esercito, che ha dovuto sparare in aria per diversi minuti per disperdere le due parti, ha evitato conseguenze peggiori.
Da giorni migliaia di dimostranti della «rivoluzione del 25 gennaio» che lo scorso 11 febbraio ha costretto a dimettersi Mubarak, tentato di entrare nelle sedi della Sicurezza dello Stato per impedire la distruzione di decine di migliaia di file da parte degli agenti segreti. Questi ultimi temono l’avvio di inchieste da parte della magistratura – che si sta rendendo sempre più indipendente dall’esecutivo – in relazione ai gravissimi abusi (e torture) ordinati da Mubarak e il suo governo. Per questo gli agenti segreti stanno distruggendo i file. Il movimento rivoluzionario sta perciò tentando di salvare i documenti e sino ad oggi ha tentato, e in molti casi riuscendovi, ad entrare in 11 sedi della Sicurezza dello Stato, responsabile di corruzione diffusa, di prepotenze e di torture, di aver imposto nomi per la direzione di media, fino alle morti di persone detenute, grazie alle leggi d’emergenza che consentivano di non notificare gli arresti ai parenti e di trattenere all’infinito i «sospetti».
In questo clima di tensione altissima arriva oggila presentazione del nuovo governo di Essam Sharaf, successore di Ahmad Shafiq, l’ultimo premier scelto da Mubarak. Sharaf, almeno in apparenza, ha deciso di puntare sulla rottura con il passato, scegliendo come volevano gli egiziani nuovi ministri degli Esteri, della Giustizia e dell’Interno. Il nome più eccelente tra i silurati è quello di Ahmed Abul Gheit, alla guida della diplomazia egiziana dal 2004 e braccio destro di Mubarak nella linea di appoggio alle politiche israeliane nella regione, a cominciare dall’assedio di Gaza. Al suo posto è stato scelto Nabil Elaraby, ex giudice della Corte internazionale di giustizia, ex rappresentante permanente presso l’Onu e vicino all’Assemblea per il Cambiamento del riformista Mohamad ElBaradei.
Comincia male intanto l’incarico del nuovo ministro dell’Interno, Mansour El Essawy
che accettanto il dicastero aveva affermato che la missione della Sicurezza dello Stato sarà limitata alla «lotta al terrorismo» senza interferire nella vita quotidiana dei cittadini. Ma dopo le violenze di ieri sera il suo compito si fa ancora più arduo. Intanto ieri sono cominciati a circolare i dettagli sull’organizzazione del referendum costituzionale indetto per il 19 marzo. Il voto sarà sorvegliato da 16.000 giudici, suddivisi in trenta commissioni. Il riformista Mohammed ElBaradei ha espresso forti riserve sul previsto referendum, affermando che non bastano gli emendamenti a pochi articoli della Costituzione per garantire la democrazia ma è necessario riscrivere l’intera Carta Costituzione perchè quella in vigore assegna troppi poteri al presidente. Nena News

8 marzo: riprendiamoci le nostre vite, indecorose e libere

Negli ultimi mesi un’energia nuova e dirompente è emersa dalle mobilitazioni delle università e dei precari, dalla resistenza degli operai e dei migranti, fino a giungere alle ribellioni dell’Egitto e delle coste del Mediterraneo.
E’ un grido di rivolta che denuncia un sistema sociale ingiusto e si rifiuta di pagarne i costi.

Il 13 febbraio scorso noi donne ci siamo opposte alle politiche che soffocano le nostre vite e che hanno portato al progressivo restringimento dei nostri diritti e dei nostri spazi di libertà. Abbiamo attraversato piazza del Popolo, invaso le strade di Roma e ci siamo spinte fino a Montecitorio per “restituire al mittente” le leggi contro le donne approvate negli ultimi anni dai governi sia di centrodestra che di centrosinistra: le dimissioni in bianco, il collegato lavoro, la legge 40 sulla procreazione assistita, l’innalzamento dell’età pensionabile, il pacchetto sicurezza e tante altre.

Anche l’8 marzo vogliamo riportare in piazza la stessa voce e, con lo stesso linguaggio impetuoso, rimettere al centro la questione della redistribuzione delle ricchezze: tra chi fa i profitti e chi sta pagando questa crisi, tra chi possiede palazzi e chi non ha casa, tra chi si giova di stipendi milionari e chi non ha un lavoro.
Vogliamo contestare chi mette in discussione la nostra autodeterminazione saturando le strutture pubbliche di obiettori di coscienza, limitando la diffusione della pillola RU486 o sostenendo la privatizzazione delle strutture sanitarie come i consultori (vedi la proposta di legge Tarzia per la regione Lazio), luoghi che noi invece vorremmo reinventare partendo dai nostri attuali bisogni.

Vogliamo ribellarci a una cultura e a un immaginario usati per controllare e disciplinare i nostri corpi e la nostra sessualità. Dal lavoro alla sanità, infatti, l’unico ruolo legittimato per le donne è quello di moglie e madre. Eppure spesso nel momento dell’assunzione ci vengono fatti firmare fogli di “dimissioni in bianco” che il datore di lavoro potrà tirar fuori nel momento in cui dovessimo dichiarare di essere incinte.

Viviamo nel Paese della doppia morale, dove l’unico modello accettato e promosso è la famiglia eterosessuale, quella stessa famiglia in cui, come le statistiche ufficiali ci raccontano, avvengono la maggior parte delle violenze sulle donne attuate da mariti, compagni e padri. E’ anche per questo che rifiutiamo la precarietà: perché ci obbliga a dipendere economicamente e culturalmente da un modello relazionale che ci impedisce di poter scegliere dove, come, quando e con chi essere o NON essere madri.

Eppure la stessa retorica familista che dichiara di promuovere e sostenere la genitorialità, di fatto ne ostacola la possibilità a lesbiche, single, gay, trans e a tutti quei soggetti che sfuggono alla norma eterosessuale e cattolica. Ed è sempre la stessa logica che da un lato stigmatizza e criminalizza le sex workers attraverso pacchetto sicurezza e campagne moraliste e sul “decoro”, e dall’altro ne fa un uso “spettacolarizzato” e strumentale al piacere maschile diffuso all'interno dei Palazzi del potere, ma non solo.

L’8 marzo scenderemo in piazza anche per smascherare le politiche razziste di questo governo che sfrutta il lavoro di cura svolto per la maggior parte da donne migranti e contemporaneamente le trasforma in “pericolose” protagoniste dell'“emergenza immigrati” oppure le priva della libertà e le rende vittime di violenze nei CIE.
Per tutte queste ragioni saremo in piazza l’8 marzo, per rivendicare diritti e libertà, perchè i nostri desideri non hanno né famiglia né nazione, noi non siamo “italiane per-bene": siamo precarie, studentesse, lesbiche, trans, siamo donne che rifiutano il modello di welfare familistico, nazionalista, cattolico ed eterosessista.
Vogliamo riappropriarci delle nostre voci e dei nostri corpi e anche delle strade, della notte e delle nostre relazioni: rivendichiamo diritti, welfare e autodeterminazione.

Siamo tutte DONNE in CARNEvale e OSSA!!
L'otto... m'arzo e m'arrivolto!

CORTEO NOTTURNO - MARTEDì 8 MARZO 2011
Partenza ORE 18 - Piazza Bocca della Verità - Roma

Centro Donna Lisa, Donnedasud, Infosex-Esc, le Facinorosse, le Malefiche, la Meladieva, le Ribellule, Lucha y Siesta Action-A, SuiGeneris