Sono eroi della libertà quando riempiono le piazze del Cairo, di Tunisi, di Bengasi, della Siria e del Bahrein. Al di qua del mare diventano profughi, clandestini, sfollati.
Lottare per la democrazia ha significato per loro anche aprire un varco in quelle frontiere che i regimi della paura avevano murato, con il sostegno, il denaro, la connivenza dei governi europei. Chiamandoli profughi, clandestini, sfollati, si ricostruiscono i muri sulle macerie di quelli che sono stati abbattuti.
Ponendo l’esclusiva questione del diritto d’asilo il governo italiano – ma anche quelli europei – si garantisce la possibilità di ritirare la «protezione umanitaria» una volta che la guerra sia dichiarata conclusa. Se il pericolo non sussiste, crollano anche le condizioni dell’asilo. Lo sa bene il ministro Maroni, il quale intanto invoca il principio del «burden sharing» e indica la via del diritto d’asilo europeo, mettendo così in questione la struttura portante della normativa dell’Unione in materia. Si chiama Dublin II, e significa che i migranti sono vincolati al luogo in cui fanno la richiesta d’asilo, dal quale non possono spostarsi fino a che non abbiano ottenuto risposta. Chiaro che se il principio fosse rispettato, il “peso” che l’Italia dovrebbe affrontare sarebbe eccessivo, soprattutto a quelli che hanno annunciato improbabili esodi biblici in modo da ergersi a eroi e protettori della patria. Questi eroi, che non sono i nostri eroi, hanno per anni controllato i movimenti dei migranti verso l’Europa garantendo il loro sostegno ai regimi della paura non solo dell’Africa del nord, ma ovunque fosse possibile bloccare i migranti.
Oggi bombardano uno di quei regimi e lo fanno in nome della democrazia per la quale sono scese in piazza le donne e gli uomini della Libia. Ma le donne e gli uomini della Libia, come quelli di Tunisi che ogni giorno arrivano sulle coste di questo paese, hanno combattuto anche per conquistarsi la libertà di muoversi attraverso le frontiere che in questi anni, e soprattutto in tempo di crisi, sono state tenute ben chiuse. La loro democrazia è questa libertà, su questa libertà si gioca la partita della rivoluzione nel mondo arabo. Solo grazie alla lotta di quegli uomini e di quelle donne la Tunisia ha aperto le frontiere a quei migranti che proprio dalla Tunisia e dall’Egitto, dalla Cina e dal Pakistan, avevano raggiunto la Libia per lavorarci e viverci mentre oggi se la lasciano alle spalle, con le bombe che la riducono in macerie.
La democrazia delle bombe è un’altra: alla ‘fine’ di questa guerra sarà democratico quel governo – qualunque governo – che prometterà all’Europa di vigilare con ogni mezzo necessario sulle sue frontiere, aprendo gli argini solo di fronte alle esigenze della produzione. Non dimentichiamolo: alla vigilia della guerra i padroni europei hanno richiamato in patria i loro “cittadini”, lasciando i lavoratori migranti a rischiare la vita per garantire il profitto. Non dimentichiamolo: mentre Maroni annunciava l’invasione delle nostre coste, Sacconi dichiarava che per uscire dalla crisi l’Italia avrebbe bisogno di due milioni di migranti, quattro milioni di braccia da mettere al lavoro. Allora è da qui che bisogna partire: il fatto della guerra non trasforma questi migranti in profughi o sfollati.
Non smettono di essere eroi della libertà quando attraversano il confine invisibile e armato che solca il Mediterraneo. Qualunque sarà il loro status, questi uomini e queste donne attraverseranno l’Europa con o senza permesso e in Europa vivranno, lavoreranno, faranno i conti ogni giorno con la realtà brutale del razzismo istituzionale che è l’ordinaria condizione di milioni di uomini e donne, non soltanto in Italia. Questa condizione non è determinata dall’eccezionalità della situazione di guerra; dalla guerra sarà forse aggravata, se migliaia di persone saranno costrette ad accettare condizioni di vita e lavoro persino più pesanti di quelle alle quali la Bossi-Fini o le normative europee già li costringono.
Sacrosanto è affermare il dovere d’accoglienza, ma l’attraversamento del mare non può rigettare questi uomini e queste donne dall’eroismo alla vittimizzazione, rendendoli oggetti inerti di doverose cure o assistenza dopo averli inneggiati come protagonisti di vere e proprie rivoluzioni. Il ponte tra le due sponde del Mediterraneo si costruisce prima di tutto qui, pensando che gli uomini e le donne che oggi raggiungono l’Italia e l’Europa stanno e staranno accanto a quei migranti che ordinariamente lottano sapendo di dover essere ogni giorno eroi per resistere allo sfruttamento e al razzismo che moltiplica le frontiere.
Noi diciamo no a questa guerra perché mentre parla di democrazia mira invece a chiudere ogni possibilità di movimento, in modo da bloccare gli individui e le generazioni in un posto assegnato loro una volta per tutte. La cosa più esplosiva dei movimenti di rivolta degli ultimi mesi è che essi trasformano definitivamente il contenuto stesso della democrazia, sia in Europa sia dove le rivolte hanno avuto luogo. In piazza Tahrir c’erano anche migranti provenienti da altri paesi africani che contestavano un regime odioso tanto a loro quanto agli egiziani. I movimenti dei migranti non esportano solo le loro braccia e i loro cervelli, ma una pretesa democratica che non è confinabile in un sistema politico territoriale chiuso. Questo è ciò che terrorizza il ministro Maroni, i governi europei e molti governanti dei paesi arabi: non è il numero di migranti che potrebbe arrivare a fare paura, ma la pretesa di democrazia, di uguaglianza e di libertà che viaggia con loro. Hanno passato gli ultimi anni a cercare di esportare un’impossibile democrazia e ora che se la vedono restituire a domicilio, tentano disperatamente di rinchiuderla a Lampedusa o in Sicilia, ma comunque ben lontano dalla Padania, da Parigi o da Londra.
Dire no a questa guerra, significa dire no alla democrazia dei confini e dello sfruttamento che vogliono imporre con le armi e con gli accordi di riammissione. Non cambia nulla se questi accordi sono garantiti dalla violenza dei despoti della porta accanto, fino a poche settimane fa peraltro riconosciuti e onorati, o da regimi con la patente democratica: non si può dipingere di rosso una porta nera. Chi vuole dire no a questa guerra, chi vuole ripensare alla radice la democrazia può e deve stare dalla parte dei migranti e delle migranti che sono qui e che arrivano, che lottano per muoversi e che lottano per restare, che non vogliono essere alternativamente un ‘peso’ oppure una risorsa, che ogni giorno sono gli eroi di una classe operaia ormai transnazionale. E d’altronde a working class hero is something to be...
Coordinamento Migranti Bologna e provincia
www.coordinamentomigranti.splinder.com
coo.migra.bo@gmail.com
3275782056
Lottare per la democrazia ha significato per loro anche aprire un varco in quelle frontiere che i regimi della paura avevano murato, con il sostegno, il denaro, la connivenza dei governi europei. Chiamandoli profughi, clandestini, sfollati, si ricostruiscono i muri sulle macerie di quelli che sono stati abbattuti.
Ponendo l’esclusiva questione del diritto d’asilo il governo italiano – ma anche quelli europei – si garantisce la possibilità di ritirare la «protezione umanitaria» una volta che la guerra sia dichiarata conclusa. Se il pericolo non sussiste, crollano anche le condizioni dell’asilo. Lo sa bene il ministro Maroni, il quale intanto invoca il principio del «burden sharing» e indica la via del diritto d’asilo europeo, mettendo così in questione la struttura portante della normativa dell’Unione in materia. Si chiama Dublin II, e significa che i migranti sono vincolati al luogo in cui fanno la richiesta d’asilo, dal quale non possono spostarsi fino a che non abbiano ottenuto risposta. Chiaro che se il principio fosse rispettato, il “peso” che l’Italia dovrebbe affrontare sarebbe eccessivo, soprattutto a quelli che hanno annunciato improbabili esodi biblici in modo da ergersi a eroi e protettori della patria. Questi eroi, che non sono i nostri eroi, hanno per anni controllato i movimenti dei migranti verso l’Europa garantendo il loro sostegno ai regimi della paura non solo dell’Africa del nord, ma ovunque fosse possibile bloccare i migranti.
Oggi bombardano uno di quei regimi e lo fanno in nome della democrazia per la quale sono scese in piazza le donne e gli uomini della Libia. Ma le donne e gli uomini della Libia, come quelli di Tunisi che ogni giorno arrivano sulle coste di questo paese, hanno combattuto anche per conquistarsi la libertà di muoversi attraverso le frontiere che in questi anni, e soprattutto in tempo di crisi, sono state tenute ben chiuse. La loro democrazia è questa libertà, su questa libertà si gioca la partita della rivoluzione nel mondo arabo. Solo grazie alla lotta di quegli uomini e di quelle donne la Tunisia ha aperto le frontiere a quei migranti che proprio dalla Tunisia e dall’Egitto, dalla Cina e dal Pakistan, avevano raggiunto la Libia per lavorarci e viverci mentre oggi se la lasciano alle spalle, con le bombe che la riducono in macerie.
La democrazia delle bombe è un’altra: alla ‘fine’ di questa guerra sarà democratico quel governo – qualunque governo – che prometterà all’Europa di vigilare con ogni mezzo necessario sulle sue frontiere, aprendo gli argini solo di fronte alle esigenze della produzione. Non dimentichiamolo: alla vigilia della guerra i padroni europei hanno richiamato in patria i loro “cittadini”, lasciando i lavoratori migranti a rischiare la vita per garantire il profitto. Non dimentichiamolo: mentre Maroni annunciava l’invasione delle nostre coste, Sacconi dichiarava che per uscire dalla crisi l’Italia avrebbe bisogno di due milioni di migranti, quattro milioni di braccia da mettere al lavoro. Allora è da qui che bisogna partire: il fatto della guerra non trasforma questi migranti in profughi o sfollati.
Non smettono di essere eroi della libertà quando attraversano il confine invisibile e armato che solca il Mediterraneo. Qualunque sarà il loro status, questi uomini e queste donne attraverseranno l’Europa con o senza permesso e in Europa vivranno, lavoreranno, faranno i conti ogni giorno con la realtà brutale del razzismo istituzionale che è l’ordinaria condizione di milioni di uomini e donne, non soltanto in Italia. Questa condizione non è determinata dall’eccezionalità della situazione di guerra; dalla guerra sarà forse aggravata, se migliaia di persone saranno costrette ad accettare condizioni di vita e lavoro persino più pesanti di quelle alle quali la Bossi-Fini o le normative europee già li costringono.
Sacrosanto è affermare il dovere d’accoglienza, ma l’attraversamento del mare non può rigettare questi uomini e queste donne dall’eroismo alla vittimizzazione, rendendoli oggetti inerti di doverose cure o assistenza dopo averli inneggiati come protagonisti di vere e proprie rivoluzioni. Il ponte tra le due sponde del Mediterraneo si costruisce prima di tutto qui, pensando che gli uomini e le donne che oggi raggiungono l’Italia e l’Europa stanno e staranno accanto a quei migranti che ordinariamente lottano sapendo di dover essere ogni giorno eroi per resistere allo sfruttamento e al razzismo che moltiplica le frontiere.
Noi diciamo no a questa guerra perché mentre parla di democrazia mira invece a chiudere ogni possibilità di movimento, in modo da bloccare gli individui e le generazioni in un posto assegnato loro una volta per tutte. La cosa più esplosiva dei movimenti di rivolta degli ultimi mesi è che essi trasformano definitivamente il contenuto stesso della democrazia, sia in Europa sia dove le rivolte hanno avuto luogo. In piazza Tahrir c’erano anche migranti provenienti da altri paesi africani che contestavano un regime odioso tanto a loro quanto agli egiziani. I movimenti dei migranti non esportano solo le loro braccia e i loro cervelli, ma una pretesa democratica che non è confinabile in un sistema politico territoriale chiuso. Questo è ciò che terrorizza il ministro Maroni, i governi europei e molti governanti dei paesi arabi: non è il numero di migranti che potrebbe arrivare a fare paura, ma la pretesa di democrazia, di uguaglianza e di libertà che viaggia con loro. Hanno passato gli ultimi anni a cercare di esportare un’impossibile democrazia e ora che se la vedono restituire a domicilio, tentano disperatamente di rinchiuderla a Lampedusa o in Sicilia, ma comunque ben lontano dalla Padania, da Parigi o da Londra.
Dire no a questa guerra, significa dire no alla democrazia dei confini e dello sfruttamento che vogliono imporre con le armi e con gli accordi di riammissione. Non cambia nulla se questi accordi sono garantiti dalla violenza dei despoti della porta accanto, fino a poche settimane fa peraltro riconosciuti e onorati, o da regimi con la patente democratica: non si può dipingere di rosso una porta nera. Chi vuole dire no a questa guerra, chi vuole ripensare alla radice la democrazia può e deve stare dalla parte dei migranti e delle migranti che sono qui e che arrivano, che lottano per muoversi e che lottano per restare, che non vogliono essere alternativamente un ‘peso’ oppure una risorsa, che ogni giorno sono gli eroi di una classe operaia ormai transnazionale. E d’altronde a working class hero is something to be...
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