Corinne Quentin
L’intifada tunisina è nata in un contesto di impoverimento della popolazione e di crescente disoccupazione giovanile – in particolare tra i diplomati. Di fronte a ciò una prima reazione è stata la fuga verso l’emigrazione e, per uno scherzo del destino, anche l’Algeria è diventata una terra di esilio economico per alcune popolazioni di frontiera. Una seconda conseguenza sono stati i suicidi di giovani disoccupati – alcuni di essi dandosi fuoco (ci sono stati 11 suicidi di giovani disoccupati solo nella città di Bousalem nel 2010).
Una terza conseguenza è stata la crescita di lotte operaie con un picco di scioperi nel marzo dello scorso anno e rivolte contro la disoccupazione e per il lavoro. Queste ultime hanno avuto luogo soprattutto tra il gennaio e il giugno 2008 nella regione mineraria di Gafsa-Redeyef e, nel 2010, nella città di La Skhira e nella regione di Ben Guardane.
A Sidi Bouzid, una regione agricola, i contadini di Regueb sono stati i primi a occupare, lo scorso giugno, le terre dalle quali rischiavano di essere espulsi da parte delle banche. Regueb – la regione da cui proviene la famiglia del giovane Bouaziri che si è immolato il 17 dicembre – è stata la scintilla che ha acceso Tunisi.
Il movimento è iniziato nel centro del paese e ora la popolazione manifesta spontaneamente per il lavoro in ogni parte del paese. Partecipano al movimento numerosi giovani diplomati disoccupati e sindacalisti. Il movimento si è poi allargato agli avvocati, categoria in prima fila nella lotta contro la dittatura e la ripresa delle lezioni dovrebbe permettere l’entrata nella lotta degli studenti delle secondarie e delle università, condannati ala disoccupazione. I manifestanti chiedono lavoro. Denunciano la corruzione del partito al potere, la “Trabelsia” – cioè la famiglia al potere che ha saccheggiato la ricchezza del paese. Chiedono le dimissioni di Ben Alì, presidente da quasi 23 anni.
I luoghi più odiati sono attaccati direttamente: stazioni della polizia e della guardia nazionale, i monumenti eretti a gloria della dittatura, le sedi più importanti delle delegazioni governative.
La risposta del potere è la stessa da 23 anni: dispiegamento delle forze di polizia, arresti, torture, processi e aggressioni fisiche, in particolare verso giornalisti e avvocati che cercano di rompere l’omertà.
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