Il debito pubblico oggi è il pretesto per giustificare un assalto senza precedenti al welfare europeo, ai diritti dei lavoratori, alla spesa sociale. Come avvenne all’inizio degli anni ‘80 nei confronti dei paesi del Sud del mondo che furono oggetto di “piani di aggiustamento strutturale” da parte del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale con uno spaventoso trasferimento di risorse dai popoli più poveri ai forzieri delle banche più ricche del mondo capitalista, anche oggi si sta realizzando un meccanismo analogo. Lo scoppio della crisi nel 2007-2008 ha trasferito un enorme debito privato ai debiti pubblici e oggi il conto viene fatto pagare al pubblico impiego, ai lavoratori, ai servizi sociali, ai diritti del lavoro. Il caso della manovra di agosto del governo Berlusconi è più che esplicito. Oggi i piani di aggiustamento strutturale in Europa sono portati avanti da una nuova “troika”: il Fondo monetario con l’ausilio determinante di Commissione europea e Banca centrale europea propongono dappertutto, in Grecia come in Spagna, in Portogallo come in Italia, le stesse ricette. Riduzione dei salari pubblici, licenziamenti o blocco del turn over, allungamento dell’età pensionistica, privatizzazioni.
Il motivo, chiaramente, è sempre lo stesso: non è possibile sostenere un deficit crescente del bilancio statale né un peso eccessivo dell’indebitamento pubblico. Eppure la dilatazione dei debiti è stata una precisa scelta delle politiche compiute in Europa negli ultimi 10-15 anni da tutti i governi, fossero di destra o di sinistra. Gli anni 1990-2000 hanno visto in Europa l’applicazione di politiche neoliberiste basate su ipotesi di riduzione della pressione fiscale con la diminuzione delle tasse verso gli strati più alti della società o verso le società private. Nel 2007, con la prima finanziaria del secondo governo Prodi l’Ires sulle imprese vide ridurre la propria aliquota dal 33 al 28% mentre l’Irap scendeva sotto il 4%. E se il governo Berlusconi nel 2005 ridusse l’aliquota Irpef più alta dal 45 al 43% il successivo governo di centrosinistra lasciò inalterata questa situazione; mentre con la riduzione del cuneo fiscale si regalavano in modo permanente 7 miliardi all’anno a imprese, banche e assicurazioni. Contestualmente sono aumentate le imposte indirette che si scaricano direttamente sui redditi fissi – si pensi a benzina o bollette – nonché un aumento generalizzato e costante del costo della vita.
A partire dal 2008 il salvataggio di una serie di banche sull’orlo del fallimento, in particolare nei paesi del Nord, meno in Italia, ha scaricato sui conti pubblici il costo delle grandi speculazioni finanziarie che hanno garantito profitti record a banche e società finanziarie. Questo dilatarsi del debito sovrano dei principali paesi occidentali ha ridotto le distanze con quei debiti, come quello italiano o giapponese, che da tempo rappresentavano una grandezza preoccupante. In Italia sono state salvate meno banche e c'è stato un intervento ridotto nell'economia reale, a causa dei già disastrati conti pubblici, ma ciò non ha impedito il sovrapporsi dei problemi contingenti causati dalla crisi a quelli strutturali. La tendenza generale a ridurre le tasse per imprese e redditi alti si aggiunge a una modesta pressione fiscale che ha radici lontane. Si pensi che già nel 1970 la pressione fiscale italiana in proporzione al Pil era inferiore a quella tedesca e francese di ben 10 punti. Nei cinque anni successivi la pressione fiscale in Italia rimaneva stazionaria, mentre nei due principali paesi europei aumentava per far fronte al crescere della spesa pubblica, approfondendo queste differenze. Nel 1975 in Francia e Germania, nonostante il maggior impegno di spesa profuso, si aveva un disavanzo primario pari rispettivamente al 1.2 e 4.2% del Pil, mentre in Italia saliva all'8.1. Quando si parla del debito che ereditiamo, come fosse un accidente che è capitato non si considera quali siano stati i soggetti che in particolare hanno beneficiato di queste politiche.
Il debito pubblico è la stratificazione delle politiche seguite finora, la leva di una politica economica che da oltre trent’anni sposta reddito dalle classi sociali più basse verso l’alto. Tale processo si è ulteriormente approfondito nel nuovo secolo. Tra il 2002 e il 2007 gli stipendi reggono a malapena l’aumento dell’inflazione mentre i profitti delle 1400 imprese più grandi crescono dell’89,5% e quelli di tutte le grandi imprese del 63,5%. Lo scarto è impressionante e non può essere sottaciuto quando si parla di debito: debito di chi verso chi? E chi è davvero in credito? In questo senso ha ragione il Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo quando chiede l’annullamento della parte illegittima del debito, cioè quello realizzato per sostenere i profitti, per garantire la speculazione delle grandi banche e per sorreggere un’economia capitalistica in crisi di sbocchi, e quindi di margini di profitto, e bisognosa di una bolla finanziaria in grado di garantire l’attività.
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Il motivo, chiaramente, è sempre lo stesso: non è possibile sostenere un deficit crescente del bilancio statale né un peso eccessivo dell’indebitamento pubblico. Eppure la dilatazione dei debiti è stata una precisa scelta delle politiche compiute in Europa negli ultimi 10-15 anni da tutti i governi, fossero di destra o di sinistra. Gli anni 1990-2000 hanno visto in Europa l’applicazione di politiche neoliberiste basate su ipotesi di riduzione della pressione fiscale con la diminuzione delle tasse verso gli strati più alti della società o verso le società private. Nel 2007, con la prima finanziaria del secondo governo Prodi l’Ires sulle imprese vide ridurre la propria aliquota dal 33 al 28% mentre l’Irap scendeva sotto il 4%. E se il governo Berlusconi nel 2005 ridusse l’aliquota Irpef più alta dal 45 al 43% il successivo governo di centrosinistra lasciò inalterata questa situazione; mentre con la riduzione del cuneo fiscale si regalavano in modo permanente 7 miliardi all’anno a imprese, banche e assicurazioni. Contestualmente sono aumentate le imposte indirette che si scaricano direttamente sui redditi fissi – si pensi a benzina o bollette – nonché un aumento generalizzato e costante del costo della vita.
A partire dal 2008 il salvataggio di una serie di banche sull’orlo del fallimento, in particolare nei paesi del Nord, meno in Italia, ha scaricato sui conti pubblici il costo delle grandi speculazioni finanziarie che hanno garantito profitti record a banche e società finanziarie. Questo dilatarsi del debito sovrano dei principali paesi occidentali ha ridotto le distanze con quei debiti, come quello italiano o giapponese, che da tempo rappresentavano una grandezza preoccupante. In Italia sono state salvate meno banche e c'è stato un intervento ridotto nell'economia reale, a causa dei già disastrati conti pubblici, ma ciò non ha impedito il sovrapporsi dei problemi contingenti causati dalla crisi a quelli strutturali. La tendenza generale a ridurre le tasse per imprese e redditi alti si aggiunge a una modesta pressione fiscale che ha radici lontane. Si pensi che già nel 1970 la pressione fiscale italiana in proporzione al Pil era inferiore a quella tedesca e francese di ben 10 punti. Nei cinque anni successivi la pressione fiscale in Italia rimaneva stazionaria, mentre nei due principali paesi europei aumentava per far fronte al crescere della spesa pubblica, approfondendo queste differenze. Nel 1975 in Francia e Germania, nonostante il maggior impegno di spesa profuso, si aveva un disavanzo primario pari rispettivamente al 1.2 e 4.2% del Pil, mentre in Italia saliva all'8.1. Quando si parla del debito che ereditiamo, come fosse un accidente che è capitato non si considera quali siano stati i soggetti che in particolare hanno beneficiato di queste politiche.
Il debito pubblico è la stratificazione delle politiche seguite finora, la leva di una politica economica che da oltre trent’anni sposta reddito dalle classi sociali più basse verso l’alto. Tale processo si è ulteriormente approfondito nel nuovo secolo. Tra il 2002 e il 2007 gli stipendi reggono a malapena l’aumento dell’inflazione mentre i profitti delle 1400 imprese più grandi crescono dell’89,5% e quelli di tutte le grandi imprese del 63,5%. Lo scarto è impressionante e non può essere sottaciuto quando si parla di debito: debito di chi verso chi? E chi è davvero in credito? In questo senso ha ragione il Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo quando chiede l’annullamento della parte illegittima del debito, cioè quello realizzato per sostenere i profitti, per garantire la speculazione delle grandi banche e per sorreggere un’economia capitalistica in crisi di sbocchi, e quindi di margini di profitto, e bisognosa di una bolla finanziaria in grado di garantire l’attività.