11 febbraio 2013

Un progetto per l’area anticapitalista – Relazioni al seminario di Magenta, gennaio 2013

Pubblichiamo qui le relazioni che sono state presentate al seminario del 4/6 gennaio scorso, tenutosi a Magenta (MI), organizzato dalle/dai compagne/i che al Congresso di Sinistra Critica hanno presentato il documento che proponeva la costruzione dell’area anticapitalista. Il seminario ha visto la partecipazione di un centinaio di compagne/i, con una forte componente giovanile. La relazione che trovate qui completa è quella che più in specifico riguarda il progetto di costruzione dell’area anticapitalista.

Un progetto per l’area anticapitalista
di Daniele Dambra
Al congresso di Sinistra Critica dello scorso anno abbiamo avanzato un progetto ambizioso, quello dell’Area Anticapitalista. E’ il momento che questa proposta passi ad una fase operativa e inizi a vivere in alcune sperimentazioni concrete.
Questa necessità ci è data ancor più se guardiamo all’attuale contesto politico e alla tornata elettorale ormai prossima. Risulta ormai evidente come queste elezioni non portino in alcun modo alla nascita di uno spazio utile alla ricostruzione di una sinistra d’alternativa. Il percorso a cui aveva parzialmente alluso Cambiare si Può è stato fagocitato dalle esigenze elettoralistiche dei partiti che sostengono oggi Ingroia e la sua Rivoluzione Civile.
Esigenze che oltre a deludere le attese iniziali verso quel processo, minano in partenza la solidità dello stesso percorso elettorale e lo svuotano completamente della partecipazione che si era vista nelle assemblee iniziali. Un’ulteriore conferma che non si riprende dai momenti elettorali la costruzione di una Sinistra Anticapitalista.
Ma se è questo il quadro in cui ci muoviamo, allora dobbiamo tener conto di due fronti su cui sarà necessario agire nel prossimo periodo: da una parte la costruzione di un’Area che non sia l’ennesima riproposizione di un rassemblement tra organizzazioni politiche deboli, dall’altra la disponibilità a partecipare a reti e percorsi che dovessero nascere sul piano dell’ “opposizione sociale e politica” all’austerità e alle misure che il futuro governo metterà in campo. Un percorso che per essere utile dovrà essere aperto, volto a recuperare aree di attivismo sociale e non l’obsoleto schema da “intergruppi”, mettendo quindi al centro il protagonismo dei soggetti sociali più che quello dei vecchi dirigenti della sinistra radicale.
La costruzione dell’Area va quindi intesa a partire da un piano immediatamente operativo, attraverso la costruzione di strumenti, campagne, iniziativa politica. Se “il processo sinergico che aveva costretto il capitalismo a cambiare” è finito e soprattutto se ha perso di funzionalità la sua forma classica (il partito) dobbiamo chiederci quale forma risponde al contesto dato, sulla base delle discussioni fatte finora. Per dirla con una metafora, potremmo riferirci a quella dei vasi comunicanti.
Forme e dimensioni diverse, ma in equilibrio tra loro. Un equilibrio dato non da una scala gerarchica tra i vari contenitori, ma da una struttura di fondo che li pone in relazione dialettica. In cui l’azione politica, l’elaborazione teorica, le esperienze concrete di uno dei contenitori possa proficuamente influenzare anche i corrispettivi degli altri. L’area anticapitalista in questa metafora è rappresentata esattamente dalla struttura che rende questo possibile e che sulla base di ciò prova a crescere. Gli strumenti per l’autorganizzazione sono ovviamente i contenitori di forma e dimensioni diverse.
Le questioni che abbiamo di fronte riguardano dunque come riempire questi contenitori e soprattutto come rendere possibile questa relazione dialettica in modo diverso rispetto a quanto fatto finora. Non c’è una formula precisa, uno strumento valido per ogni territorio. Fatto sta che la loro costruzione debba essere la priorità di lavoro che ci diamo e che questa vada intesa non “a freddo”, in un vuoto di relazioni, ma anche e soprattutto all’interno di percorsi a cui diamo vita assieme ad altri.
Un esempio emblematico può essere proprio il percorso sul tema del debito e della nuova finanza pubblica, attraverso la costituzione degli “audit locali”, l’articolazione della campagna per la “Cassa Depositi e Prestiti”, in dialettica con il percorso di RiD che assieme ad altr* stiamo costruendo da ormai oltre un anno.
Altri esempi sul piano locale sono costituiti da Occupy Maflow a Milano, Ops ai Castelli romani, così come Fare Spazio nell’area nord della provincia di Napoli. Un altro esempio in tal senso possono essere i percorsi di occupazione e riappropriazione di spazi volti a dare un luogo fisico ai nostri strumenti, che rendano possibile l’iniziativa sociale e politica dal basso e la promozione dell’autorganizzazione dei soggetti coinvolti.
Se non possiamo darci una formula univoca, possiamo comunque individuarne alcune premesse:
 
1) Camminare domandando (perché è camminando che il mondo vive);In un contesto lacerato e non più sinergico, è essenziale il rapporto dialettico tra movimenti sociali e costruzione di un’identità politica. Un rapporto non più costituito da una soggettività in cui risiedono tutte le risposte che prova a trasmettere nei luoghi in cui interviene (semmai tale rapporto abbia mai avuto una sua veridicità), ma da un costante confronto con questi stessi luoghi e da una permanente ridefinizione del proprio essere e del proprio agire.
Possiamo notare come una piccola organizzazione marxista tendenzialmente slegata dalle comunità locali (l’EZLN) sia divenuta punto di riferimento degli indios nel momento in cui è riuscita a praticare una relazione di questo tipo, anche attraverso alcuni espedienti organizzativi e comunicativi.
La questione non è nuova: nei carteggi del 1843 Marx affronta un problema analogo quando in polemica con gli idealisti afferma la necessità di “… illustrare al mondo nuovi princìpi, traendoli dai princìpi del mondo. Noi non gli diciamo: abbandona le tue lotte, sono sciocchezze… noi gli mostreremo soltanto perché effettivamente combatte”.
E’ quindi tanto necessario che l’Area anticapitalista cammini nei movimenti sociali, quanto il fatto che si ponga e ponga continuamente loro delle domande. Considerando, per dirla con le parole di Lukacs, “la teoria della coscienza di classe come teoria della sua possibilità oggettiva” immanente allo sviluppo storico e non come proprietà ideale.
Un primo passaggio di verifica di questi primi passi e al tempo stesso di lancio di un percorso più ampio sarà un festival da organizzare nel corso di quest’anno, il quale favorisca l’inizio della discussione comune tra i vari soggetti interessati o che intendiamo coinvolgere: collettivi sociali e politici, spazi occupati, singoli/e militanti e attivist* di movimento. Un festival ad alto contenuto conflittuale, in grado di rappresentare la cartina al tornasole dell’Area che si vuole costruire.
 
2) Don’t hate the media, become the media;
Accanto al progetto più specificamente militante si pone la questione della riflessione teorica e degli spazi di dibattito politico. L’assenza di organizzazioni di riferimento ha comportato la necessità di una ridefinizione anche della comunicazione e della diffusione di pensiero critico. Perdono peso tanto gli strumenti classici (il giornale di partito, ma anche la radio “libera”) quanto i linguaggi classici. La ridefinizione comunicativa tende a cercare altre pratiche e altri linguaggi, ben rappresentati dallo slogan utilizzato da Indymedia. Che mostra da una parte la sfiducia, dall’altra la volontà a rendersi parte attiva. Ma se Indymedia avrebbe voluto rappresentare questa tendenza sul piano dell’attivismo di movimento, possiamo notare che anche forme di comunicazione più generale (dal blog al social network) si siano dirette su binari quantomeno confrontabili. Si pensi anche soltanto alla possibilità di commentare gli articoli pubblicati in rete, oggi elemento imprescindibile di qualsiasi grande quotidiano. Lungi da questa relazione volerne esaltare ogni aspetto.
Senza arrivare a valutazioni sulla funzione di controllo esercitata da strumenti quali i social network che ci porterebbero fuori strada, sappiamo bene che la stessa esperienza mediattivista di movimento dello scorso decennio è stata caratterizzata da moltissime contraddizioni e limiti. Ma senza dubbio portava con sé alcune caratteristiche da tenere in considerazione e preservare.
Uno dei principali compiti di cui dovrebbe dotarsi l’Area è esattamente la capacità di diffusione di un nuovo pensiero forte, di produzione di dibattito attorno a grandi temi, all’elaborazione teorica. Per farlo deve sperimentare anche in questo campo. E questo non vuol dire semplicemente applicare le vecchie forme comunicative su strumenti nuovi (es. Web 2.0), ma ripensare quelle forme stesse. Con la consapevolezza dei suoi limiti, sapendo che questi non possono essere il surrogato di un’organizzazione, ma strumenti necessari alla sua capacità propositiva.
Da questo punto di vista la priorità è evitare il proliferare poco utile di strumenti solo parzialmente efficaci e puntare alla nascita, attraverso step intermedi, di una rivista/sito che riesca ad essere punto di riferimento sul piano della produzione culturale, dell’elaborazione teorica, della discussione di fondo, anche attraverso contributi “esterni” che ne arricchiscano il contenuto. Ma dobbiamo aver chiaro che questo progetto non può essere delegato al lavoro straordinario di pochi compagni. Occorre costruire una redazione vera e propria che organizzi e si divida il lavoro, occorre individuare alcuni “blogger” che prendano l’impegno di gestire singole sezioni e pubblicare periodicamente articoli tematici.
 
3) Non ci rappresenta nessuno;
Lo slogan del movimento studentesco dell’Onda ben rappresenta non solo una difficoltà a ritrovarsi nelle parole d’ordine delle soggettività politiche classiche, ma anche nelle loro forme organizzative. 
Se come abbiamo scritto su Erre “ la rivendicazione e la pratica di una democrazia radicale, le assemblee interminabili degli indignados spagnoli, il rifiuto delle burocrazie, la voglia di sperimentarsi con forme atipiche di organizzazione sono forse il portato più importante e più ricco di potenzialità che attraversa una generazione e forse di più, che pone al centro una nuova pratica collettiva”, allora l’area anticapitalista deve provare a sperimentare forme atipiche che provino ad essere in sintonia con queste tendenze.
Sicuramente la cosa più immediata è dare centralità ai momenti assembleari, larghi, di discussione generale dell’area rispetto a quelli ristretti, di direzione. Ma se vogliamo evitare di incorrere nelle problematiche classiche della democrazia assembleare, dobbiamo aver ben chiaro anche i problemi che porta con sé: chi decide? Come? Qual’è la formula con cui si riconosce in modo condiviso l’adesione? L’informalità dell’assemblea risolve i problemi o ne pone di ulteriori (rispetto, ad esempio, alla formazione dei gruppi dirigenti). E’ chiaro che non possiamo (e nemmeno abbiamo l’esigenza di) avere la risposta a tutte queste domande. Però è necessario che iniziamo a porcele.
La forma classica di adesione, la tessera, mostra oggi tutti i propri limiti. Da una parte è percepita con diffidenza dal corpo largo degli attivisti sociali, anche laddove convinca il progetto politico proposto. Dall’altra non è scevro di problemi anche all’interno dell’organizzazione, dove consegna lo stesso peso a tutti, anche a chi si limita al suo semplice rinnovo, riducendo il peso decisionale di chi invece è impegnato tutti i giorni nella sua costruzione effettiva. Allo stesso tempo non è semplicissimo “misurare” la militanza. Perché questa è influenzata dai tempi e dalle condizioni di lavoro e di vita, oltre che da un ritmo che può essere determinatosoggettivamente solo fino ad un certo punto. L’area anticapitalista deve tener conto di questo problema e riuscire a trovare i meccanismi che da una parte valorizzano la militanza, dall’altra la rendono possibile. Perché l’altro problema essenziale è proprio l’impossibilità ad oggi di una militanza che possa darsi come totale, se non per ambiti davvero ristretti e che oramai non coincidono nemmeno più con il periodo di studi universitari.
Per quanto non sia possibile teorizzare una liberazione del tempo in modo compiuto all’interno di questa società, è possibile ragionare su meccanismi parziali e temporanei che permettano la coesistenza tra militanza e tempi di vita.
 
L’Area anticapitalista resta a nostro avviso non un modo per aggirare i problemi dell’oggi, ma esattamente il modo per affrontarli, soprattutto in merito alla costruzione di un soggetto politico utile alla trasformazione di questa società. Per questo lo riteniamo un progetto utile per tutta Sinistra Critica, che deve sapersi trasformare per non cadere nella logica del partitino con la sua linea definita da spendere nel confronto con altre identità simili, Il progetto di costruzione di un’area anticapitalista ha bisogno invece di strumenti diversi, nei quali le/i compagne/i di Sinistra Critica possono mettersi in gioco e portare esperienze, passioni, intelligenza.
Perché in questa fase una nuova soggettività politica può emergere solo attraverso la sperimentazione, e questa soggettività non può essere affidata alla semplice spontaneità delle dinamiche sociali, ma necessita della scelta consapevole e quindi della regia di un collettivo politico. Un collettivo politico che sappia coniugare l’apertura verso il nuovo alla ricchezza teorica del vecchio e che sappia trarne spunto senza sentirsene orfano. Il percorso è appena iniziato e c’è la consapevolezza che la sua articolazione non sarà per niente facile. Ma a guardare il teatrino degli “altri”, tra le solite promesse del Cavaliere – addirittura 4 i milioni di posti di lavoro promessi stavolta! – le stucchevoli metafore di Bersani e le improbabili ipotesi di maggioranza “tecnica” di Ingroia, viene immediato un sospiro di sollievo ed ogni passo, anche il più difficile, sembra davvero più leggero.
 
La storia del principio e della fine – Sub comandante Marcos
Non stancarti domandando quando finirà il tuo cammino. Lì, dove domani e ieri si uniscono, lì finirà… Mi è costato molto iniziare a camminare, sapevo che sarei scivolato nel fango più avanti, però, pur sapendolo, dovevo camminare verso questa caduta. Questa e le altre che seguiranno. Perché camminare è anche inciampare e cadere. E questo non me lo ha insegnato il Vecchio Antonio, me lo insegnò la montagna e, credetemi, l’esame non è stato per niente facile.