14 marzo 2013


Per un nuovo progetto politico, anticapitalista

Le elezioni sono state solo l'epifenomeno di un cambiamento in atto da tempo. Ora non serve ricostruire i vecchi strumenti politici ormai in macerie nè fare astratti "fronti di opposizione". Serve un processo che parli alle nuove forme di politicizzazione, superando le organizzazioni esistenti.

Il terremoto politico creato dalle elezioni dello scorso 24 febbraio ci conferma la giustezza di un'analisi che abbiamo avviato da circa due anni. Una riflessione che muoveva dalla consapevolezza della fine del movimento operaio come lo abbiamo conosciuto nel Novecento e dalla fine dei riti e degli strumenti politici che quella storia ci consegna (partiti e, in gran parte, organizzazioni sindacali burocratiche). Non saranno più quei simboli e quelle tradizioni a parlare e a ricomporre socialmente e politicamente una classe frammentata ma non per questo meno colpita dallo sfruttamento e dall'alienazione; non basta una generica «unità delle opposizioni» per risalire la china.
"Quando affermiamo che il movimento operaio del Novecento non c'è più, naturalmente non intendiamo dire che la classe operaia si è dissolta o che non esistono più un movimento sindacale e l'esigenza di continuare a lavorare in quell'ambito", scrivevano alla scorsa Conferenza nazionale di Sinistra Critica. "Prendiamo solo atto dell'ovvietà che non esiste più l'insieme sinergico che in Europa e nel mondo aveva costretto il capitalismo a cambiare per non morire (…) La fine di quel movimento operaio necessariamente comporta un mutamento di ottica e di pratiche anche di chi ha vissuto all'opposizione al suo interno perché non c'è più la possibilità di investire nella speranza che un soggetto socio-politico forte sia portato dalle proprie lotte oltre l'orizzonte riformista. La ricostruzione ci riguarda direttamente nonostante le forze a disposizione siano esigue e quindi si può solo scegliere una parte del lavoro, una frazione del movimento nel suo insieme".
Il quadro è cambiato, e da tempo. Le elezioni politiche di febbraio rappresentano solo l'epifenomeno, così come accade sempre con i risultati elettorali. Uno smottamento profondo si è verificato nel tempo sia nella natura dei soggetti sociali che nella loro relazione con la politica. Il detonatore di questo smottamento sono state la crisi economica e allo stesso tempo la crisi delle politiche liberiste che ormai viene percepita in modo sempre più crescente. Le elezioni hanno espresso un rifiuto di massa delle politiche degli ultimi vent'anni e il dissenso nei confronti del sistema è stato di una portata senza precedenti (oltre la metà dell'elettorato non ha votato oppure ha votato per il M5S percepito come esterno al «sistema»).

Questo dato potrebbe aprire spazi enormi per i movimenti, che dovrebbero cercare di utilizzare a fondo questa rottura provando a trasferirla sul terreno sociale, giocando sull'instabilità del sistema politico e delle forze politiche che lo hanno sostenuto, e sfidando il Movimento 5 stelle, le sue proposte e le/i attiviste/i e le/i nuove/i parlamentari sul terreno dell'autorganizzazione. Ridefinendo per questa via le "giuste fratture" a cominciare da quella di classe. Il problema principale però non sarà tanto l'interlocuzione con il M5S e le sue espressioni istituzionali, che pure, nella prossima fase, in funzione delle vicende di movimento offrirà una relazione obbligata e in alcuni casi anche utile alle istanze dei movimenti sociali (come annuncia la partecipazione dei deputati M5S alla manifestazione No Tav, partecipazione che potrebbe “oscurare” la manifestazione stessa oppure darle maggiore impatto). La vera sfida sarà invece quella di utilizzare la "breccia" che quel voto e quella spinta hanno aperto in un sistema politico e istituzionale paralizzato, per guadagnare spazi di agibilità, di efficacia e di consolidamento dei movimenti di massa. Quelli che ci interessano e sui quali scommettiamo a fondo per costruire soggettività alternative.
Da questo punto di vista ci interessa poco lavorare sulle contraddizioni delle soggettività politiche della sinistra già «radicale». Quello che ci interessa è invece incontrare, fomentare, sviluppare, dare spazio alle forme di politicizzazione che sviluppino conflitto in questa fase di ingovernabilità istituzionale e politica.
Per questo abbiamo scelto un’altra strada rispetto all’ipotesi di una “ri-costruzione” degli strumenti ormai in macerie: la costruzione di un’area anticapitalista “dal basso”, un processo nel quale pensiamo di superare anche la nostra stessa organizzazione; un’area sociale e politica della quale non pretendiamo di essere perno ne tantomeno proprietari – ma semplicemente autori di una proposta, di un progetto aperto, partecipato, in continua sperimentazione. "Il problema è che occorre pensare alla ricostruzione di un soggetto alternativo, anticapitalista - citiamo ancora quel nostro documento - facendo i conti più direttamente e seriamente con le relazioni politiche e sociali tra i soggetti e con l'intreccio tra la pratica sociale e quella di un nuovo pensiero critico. Per non rimanere effimeri i momenti di unità sociale e politica, le coalizioni, sociali o anche elettorali, hanno bisogno di ricreare un retroterra che manca da decenni. E che non si ricostruirà con qualche colpo a effetto o una mossa tattica congiunturale. Serve un impegno di medio periodo".

Un nuovo inizio
"Un nuovo inizio è quello che dissoda il terreno della lotta di classe, eliminando scorie e tare del passato, ristabilisce coordinate basilari: l'indipendenza dal liberismo anche nella forma "social-liberale", l'individuazione di un campo di classe il più ampio possibile, la ricostruzione di meccanismi favorevoli all'autorganizzazione diretta dei soggetti sociali, la formazione di processi unitari genuini in cui le varie aree e componenti possano esplicitare i propri orientamenti ma senza mettere in pericolo il processo stesso, la democrazia reale, una visione e dei collegamenti internazionali, la possibilità di avere luoghi attraversabili dal 99 per cento che comprende, innanzitutto, i generi, le generazioni oltre che la sociologia dei soggetti sociali". Abbiamo citato ancora quanto avevamo scritto per ribadire che l'orientamento che vogliamo darci non è frutto di improvvisazione, impressionismo o, peggio, opportunismo post-elettorale ma discende da un'analisi approfondita. Nelle mobilitazioni di Occupy, degli Indignados o nelle rivoluzioni arabe avevamo intravisto gli elementi di una "radicalizzazione anomala" che abbiamo definito "liquida" e rappresentativa di una fase di transizione incerta tra il vecchio e il nuovo ma soprattutto in grado di provocare il "corto circuito tra le dinamiche di classe e quelle che dovrebbero esserne le organizzazioni sociali e politiche". La crisi del 25 febbraio non è solo del Pd, o della sinistra radicale, ma anche del sindacato, vecchio e nuovo. E’ dunque necessario "ripensare alla costruzione di un nuovo soggetto anticapitalista a partire dal sociale, assumendo a pieno la consapevolezza che i movimenti sociali degli ultimi anni si connotano sempre più come fabbriche della politica e sempre meno come teatri della rappresentazione".

Lo slogan di Occupy Wall Street, che contrappone il 99 all'1 per cento della popolazione, si conferma, quindi, profetico. Indica una linea divisoria oggi attuale tra il “noi” e il “loro” nel possesso di ricchezze, riproponendo in modo nuovo la griglia di lettura della classe. Aiuta anche a porre in termini nuovi l'altra questione decisiva in tempi di crisi e di frattura degli attuali assetti di potere: quella democratica. La breccia che il Movimento Cinque Stelle apre ha anche un connotato politico e istituzionale, nel senso di istituzioni altre e più rispondenti alla logica del 99%. Quando si dice che "la democrazia dei partiti" è finita ci si può limitare a un'operazione "anti-casta" o finalizzata ad aumentare i consensi elettorali. Ma dal nostro punto di vista può anche significare che occorre aprire una riflessione di massa su un'altra qualità della democrazia in cui l'espressione diretta e di base acquista nuova credibilità. La contestazione dell'articolo 67 e quindi del "mandato" parlamentare richiama il "mandato imperativo" della Comune che, però, era associato alla revocabilità. Ma tutto questo ha poco senso e risulta avere un impatto limitato se non viene posta la questione degli assetti sociali e di proprietà e quindi un altro livello di cultura e di orientamento politico. E' questo il nostro livello.
C'è dunque molto da costruire e molto da fare. Ci sono riferimenti del passato che possono essere utilmente conservati ma solo nella loro messa a disposizione di un progetto nuovo. Occorre, infatti, aggiungere nuove pagine al libro della rivoluzione, in parte già ampiamente logorato. Sapendo che, per i giovani quelle pagine saranno le prime.
Un nuovo progetto politico oggi deve parlare il linguaggio della rivolta e del rivolgimento sociale, della trasformazione radicale, della speranza e della costruzione di un orizzonte migliore. I suoi protagonisti dovranno essere coloro che vogliono cambiare questo sistema: studenti medi e universitari ai quali viene sottratto il diritto e la qualità dello studio; lavoratrici e lavoratori che resistono allo sfruttamento e a quelle/i che sperimentano vie nuove di costruzione di reddito attraverso l’autogestione (come Ri-Maflow); a precari/e sempre più al centro dei processi di valorizzazione del capitale e sempre più sfruttate/i ed espropriati del loro lavoro e del loro sapere; alle donne che combattono un patriarcato mai scomparso; ai soggetti lgbt che rivendicano diritti; alle/agli attiviste/i ambientaliste/i e per la difesa del territorio e dei beni comuni. Esiste una pluralità di soggetti che soggiacciono alla logica perversa di un capitalismo in crisi e che sono uniti, sia pure inconsapevolmente, da comuni condizioni di sfruttamento ed espropriazione del proprio futuro. Questi soggetti possono essere collegati da progetti unitari, da “idee forti” vincenti, da ipotesi credibili di società alternative a partire dai modelli e dai modi di produzione, dagli ambiti di proprietà pubblica, dalla democrazia di base. I nostri interlocutori non saranno, quindi, i ceti politici dispersi o le aree disgregate di quella che è stata la sinistra radicale, ma le nuove forme di politicizzazione e partecipazione con cui discuteremo alla pari. Con un obiettivo per noi esplicito: costruire uno spazio di iniziativa sociale e politica, un’area anticapitalista capace di porre nuovamente il tema della trasformazione sociale radicale, della rivoluzione.

Abbiamo già approntato strumenti aperti e inclusivi di lavoro politico che vanno in questa direzione, a cominciare da rivoltaildebito.org, che partendo dalla contestazione della necessità del pagamento del debito pone la questione di una nuova finanza pubblica, di una riappropriazione degli strumenti della politica economica e della politica tout court.
Vogliamo proseguire, sperimentare, in forma aperta, orizzontale, senza primati "politici" e senza complessi. In questo senso proporremo un sito-rivista aperto a tutti e tutte coloro vogliano cimentarsi con i temi qui sommariamente accennati: la qualità della crisi, la forma attuale dei soggetti che vi si oppongono, la natura dell'alternativa, i modi per arrivarci, le intersezioni culturali, l'immaginario. Vogliamo produrre inchiesta sovrapponendola al lavoro politico, sperimentare per imparare e poi sperimentare meglio. Vogliamo dare, forse per la prima volta nella storia sociale e politica di questo paese, la giusta centralità all'autorganizzazione e autodeterminazione dei soggetti in lotta, storicamente espropriati da burocrazie politiche, sindacali e/o istituzionali oppure da avanguardismi autistici. L'anticapitalismo è oggi soprattutto un metodo e una pratica di lotta, prima ancora che un'identità politica precostituita. Vorremmo costruire, poi, un appuntamento nazionale, un"Festival" anticapitalista" per provare a ragionare insieme e a mettere in rete tutto quello che vuole sintonizzarsi con questa riflessione.

Nell'immediato, poi, guardando la fase politica, in Italia e in Europa, non sfugge a nessuno la necessità di forti movimenti sociali. Non basta la rappresentanza parlamentare, per quanto quello che è accaduto in Italia possa prefigurare ipotesi o speranze di cambiamento. Occorre costruire movimenti dal basso, come quello che si è imposto in Val di Susa, come quello degli studenti degli ultimi anni, come le rivolte ambientaliste che costellano gran parte del Paese (e che, ad esempio, spiegano i picchi del voto al M5S), come le resistenze operaie che ancora esistono: non è infatti vero, come qualcuno sostiene, che non esista conflitto sociale in Italia, che si esprime anche se in forme frammentate e disperse. In questa direzione non serve un astratto "fronte" dei soggetti di opposizione, troppo spesso limitati ai ceti dirigenti di quei soggetti, ma operazioni mirate, coalizioni multiple, "forum" tematici, esperienze esemplari, sapendo che il collegamento, la "rete" e l'unità d'azione rimangono comunque beni preziosi. Puntiamo a “forum”, come quello per una Nuova finanza pubblica, che impropriamente sono definiti “tematici” e che invece permettono di costruire "coalizioni" multiple lavorando su contenuti e programmi condivisi, campagne, conflitto, vertenze.
Già nelle prossime settimane saremo in campo con le nostre proposte insieme ad altre/i: il 16 marzo a Milano (c/o Occupy Maflow) per un seminario nazionale del comitato “per una nuova finanza pubblica e sociale” sugli audit e le esperienze di autogestione di lavoratrici e lavoratori; il 23 marzo in Val di Susa contro il TAV; il 13 aprile a Firenze per la seconda assemblea nazionale “per una nuova finanza pubblica e sociale”.
E naturalmente nelle tante iniziative locali che cominciano a sperimentare questo progetto.

Serve anche pensare a una dimensione sovranazionale, per lo meno europea. Non ci convince l'ipotesi dell'uscita dall'euro ma cogliamo con nettezza la pericolosità delle politiche decise dalla Bce, dalla Commissione europea o da Fmi, la "troika". Il tema del debito e del suo annullamento, resta centrale (e per questo partecipiamo alla rete ICAN), così come il contrasto, deciso, all'austerità imposta dall'Europa. Per questo, però, non bastano i proclami ma progetti più concreti come quelli avviati a Francoforte o a Madrid e di cui avvertiamo tutta l'urgenza. Lo stesso vale per l'area mediterranea dove il tempo delle rivoluzioni arabe non è finito e dove la solidarietà effettiva tra movimenti di trasformazione è essa stessa un processo in corso. Ci sembra in questo senso molto importante l’invito del Fronte popolare tunisino alle sinistre anticapitaliste del Mediterraneo a Tunisi il 23/24 marzo per un meeting contro il debito e le politiche capitaliste nell’area – meeting a cui parteciperemo per discutere con queste sinistre anticapitaliste una possibile campagna comune contro il debito, a nord e a sud del mediterraneo.
Puntiamo, dunque, a un nuovo progetto politico e ad una nuova soggettività politica che si nutrirà dei percorsi necessari e che di volta in volta si renderanno utili. Non ci serve, e non serve a questa nuova soggettività, la proclamazione di nuove organizzazioni o la ri-proposizione di vecchi e nuovi “partitini”: Questo non significa “scioglierci nel movimento”, quanto usare il nostro collettivo politico per un progetto aperto e per trovare nuove strade di costruzione della soggettività anticapitalista.
Non abbiamo fretta anche se non abbiamo molto tempo. Ma è il tempo della lenta impazienza, che non significa rinuncia alla trasformazione sociale, alla rivoluzione, ma esattamente l’opposto.

Su questo progetto, su questa proposta, avvieremo nelle prossime settimane incontri, riunioni, assemblee sui territori; incontri aperti a chiunque voglia discutere con noi, non rivolti solamente a chi già condivide ed è coinvolto nel progetto.
*Piero Maestri, Tatiana Montella, Dario Di Nepi, Daniele D'Ambra, Giulio Calella, Salvatore Cannavò, Lidia Cirillo, Danilo Corradi, Flavia D'Angeli, Roberto Firenze, Luciano Governali, Gianni De Giglio, Gigi Malabarba, Felice Mometti, Michela Puritani, Giorgio Sestili, Emiliano Viti.