26 giugno 2010

Afghanistan, la rivincita dei falchi


di Enrico Piovesana
Lo scorso dicembre Obama aveva annunciato l'inizio del ritiro dall'Afghanistan nel luglio 2011.
Ora però le cose sembrano cambiate.

''Sul ritiro non è stato deciso assolutamente nulla'', ha dichiarato domenica a Fox News il segretario alla Difesa, Robert Gates.
''Quella data si riferiva solo alle 30 mila truppe di rinforzo'', ha precisato il capo di gabinetto della Casa Bianca, Rahm Emmanuel, intervistato dalla Abc.
Il generale David Petreus, responsabile delle operazioni militari Usa, ha spiegato durante una recente audizione al Senato che sarà suo dovere ''raccomandare un rinvio del ritiro se lo riterrà necessario''.
Nella stessa occasione, il sottosegretario alla Difesa, Michelle Flournoy, ha aggiunto che tutto dipenderà dall'evoluzione della situazione sul terreno, la quale sarà valutata esclusivamente dal comandante delle forze sul campo, generale David McChrystal, in base a quante province saranno pronte per essere trasferite alle autorità afgane e alla capacità di combattimento raggiunta dalle forze militari afgane.
Un eventualità assai remota visti l'esito fallimentare dell'offensiva di Marja, i dubbi sull'operazione a Kandahar (continuamente rinviata e rimodulata al ribasso), l'esasperante lentezza con cui procede l'addestramento delle truppe afgane e la velocità con cui invece i talebani avanzano. ''La verità incontrovertibile è che i talebani stanno avanzando e che il conflitto è in metastasi'', ha dichiarato nei giorni scorsi il presidente della Commissione intelligence del Senato Usa, Diane Feinstein.

In vista del prolungamento della campagna militare afgana, il Pentagono deve però affrontare un problema non da poco: quello di vincere le crescenti perplessità dell'opinione pubblica e dei governi alleati sulla continuazione della guerra. Il 54 per cento degli americani è contrario al proseguimento della missione, il 70 per cento dei tedeschi chiede il ritiro, canadesi e olandesi se ne andranno entro la fine del prossimo anno, spagnoli e polacchi hanno annunciato di voler fare lo stesso, e anche i governi britannico e turco mostrano segnali di insofferenza.
Da qui l'esigenza di rafforzare la macchina della propaganda bellica, o, come dicono gli esperti di comunicazione militare Usa, di ''riprendere il controllo della narrativa della guerra''.
Durante il summit dei ministri della Difesa della Nato a Bruxelles, Gates si era detto ''insofferente'' su come i media coprono il conflitto afgano. Giovedì scorso l'addetto stampa del Pentagono, Geoff Morrel, si è lamentato di come la stampa americana e occidentale in generale stiano dando ''un'immagine negativa'' della missione afgana, fornendo resoconti che evidenziano le difficoltà ''mettendo in ombra'' i progressi. ''Non si può dire che le cose vanno male solo perché l'unità militare che il giornalista segue ha avuto una brutta giornata. Come non si può affermare che l'offensiva di Marjah è stata un fallimento, perché prima lì c'erano i talebani e ora ci siamo noi''.
Un primo assaggio di come il Pentagono vuole ricreare consenso ed entusiasmo attorno all'Afghanistan lo si è potuto avere con la campagna stampa sulla 'scoperta' di risorse minerarie afgane (in realtà note da decenni) che ''rischiano di cadere in mano ai cinesi se gli Stati Uniti e la Nato si ritireranno dall'Afghanistan''.

22/06/2010

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