di Tommaso DiFrancesco
Raggiungiamo, ancora per telefono a Istanbul, Angela Lano, giornalista e attivista dei diritti umani, mentre passa i controlli dell'aeroporto prima di partire per Roma.
Che cosa è accaduto e come hai vissuto i momentii dell'arrembaggio?
È accaduto che la notte del 1° di giugno siamo stati circondati, eravamo tutti insieme. Dal giorno precedente tutte le imbarcazioni viaggiavano insieme a distanza per vederci l'un con l'altra molto bene, procedendo in acque internazionali diretti a Gaza. Quando verso l'una e mezza le navi militari israeliane hanno iniziato ad avvicinarsi a noi. Noi nella nostra barca, la «Ottomila» greca, abbiamo iniziato ad organizzarci: gli attivisti con una resistenza non violenta a protezione della cabina di comando, noi giornalisti da un'altra parte, tutti insieme, per cercare di riprendere il più possibile. L'arrembaggio è arrivato verso le 4-4,30. Nel frattempo il capitano ha ricevuto continue chiamate dalle navi da guerra israeliane, minacce, «fate dietrofront altrimenti vi attacchiamo», «siete in acque israeliane». E il capitano, giustamente, continuava a dire: «siamo in acque internazionali, lasciateci andare avanti». Alle 4.30 sono arrivati, sono piombati su tutti noi, eravamo circa a 75 miglia lontano dalla costa di Gaza, quindi totalmente in acque internazionali. Sono arrivati con gli Zodiac, imbarcazioni militari velocissime piene di soldati mascherati, vestiti di nero, che urlavano. Una scena assolutamente inquietante, da film dell'orrore, e hanno dato l'assalto alla nostra barca. Nel frattempo abbiamo visto che anche le altre erano assaltate. Ci siamo precipitati verso la cabina di comando dove gli attivisti si erano messi tutti intorno, legandosi, tenendosi per le braccia. Li hanno colpiti, hanno sparato, hanno buttato bombe al suolo, hanno usato tutta la violenza possibile, per cui hanno rotto questo abbraccio non violento, sono penetrati nella cabina di comando. Mentre alcuni colleghi che riprendevano da vicino con le telecamere si sono ritrovati i mitra puntati contro la faccia, per cui hanno tirato via la telecamera. Il capitano è stato malmenato, preso a pugni, calci, ferito alla testa, anche altri dell'equipaggio. Così hanno preso il comando della barca.
A questo punto che cosa avete fatto e come siete stati trattati?
Siamo stati trattati male. Siamo stati messi tutti insieme sul ponte, messi a sedere con la forza, non abbiamo potuto prendere niente se non medicine e passaporti. Tra l'altro, da quella zona in acque internazionali al porto israeliano di Ashdod ci sono volute 8 ore di viaggio. Otto ore siamo stati lì, prevalentemente sotto il sole, non ci si poteva muovere, andare al gabinetto uno per volta, appena uno si alzava si trovava il mitra puntato: «Siedi». Diciamo che il clima era allegro perché gliene abbiamo dette di tutti i colori. Gli attivisti si sono scatenati dicendo: «Così vi comportate da nazisti, voi che siete le vittime dell'Olocausto». E devo dire che, veramente, sembravano squadracce della morte in stile latino-americano. Violentissimi. E giovanissimi.
Qualcuno spiegava le ragioni della vostra iniziativa?
Sì continuamente. Ma nessuna parlava con noi. Addirittura abbiamo ricordat dell'esperienza dei refusmik nell'esercito: «Rifiutatevi anche voi di fare queste cose». Niente. Muri di gomma.
Arrivati a Ashdod, che è successo?
La nostra nave è arrivata tra le prime e tra le prime a sbarcare, perché quella turca è stata tenuta in mare per delle ore, sotto ostaggio. Fra l'altro abbiamo dovuto lasciare tutto, tutto. Tutte le nostre valigie, le telecamere, macchine fotografiche, le cassette con tutto il girato, i nostri documenti. Io ho perso tutto. Mi hanno rubato un sacco di soldi, carte di credito, occhiali, il cellulare. Ci hanno rubato tutto. All'aeroporto stamattina, a Istanbul, non abbiamo trovato nulla. Comunque, appena arrivati a Ashdot abbiamo trovato un tendone enorme, evidentemente organizzato da giorni, con dentro militari, tipi dei servizi segreti. Siamo passati da un desk all'altro, ci hanno preso le impronte, ci hanno intimidito, fotografato, sbeffeggiato. «Adesso finite in galera, lo sapete?, ci starete anni. Proprio così...Firmate, ammettete di aver violato il diritto israeliano, firmate». Noi abbiamo detto «no». Nessuno di noi ha accettato, tutti abbiamo detto: «no, siete voi che avete violato il diritto internazionale, ci avete rapiti. Non firmiamo». E siamo andati via. «Allora finite in galera», va bene, finiamo in galera. Pace. Così è stato. Voglio aggiungere che stamattina abbiamo saputo che l'Italia ha votato no alla richiesta di una indagine fatta dal Consiglio dei diritti umani dell'Onu. Di questo ci vergognamo. Gli attivisti italiani per portare aiuti umanitari e i giornalisti per coprire la notizia hanno rischiato la vita. E ci ritroviamo un paese, come dire, disumano.
il manifesto 04/06/2010
Raggiungiamo, ancora per telefono a Istanbul, Angela Lano, giornalista e attivista dei diritti umani, mentre passa i controlli dell'aeroporto prima di partire per Roma.
Che cosa è accaduto e come hai vissuto i momentii dell'arrembaggio?
È accaduto che la notte del 1° di giugno siamo stati circondati, eravamo tutti insieme. Dal giorno precedente tutte le imbarcazioni viaggiavano insieme a distanza per vederci l'un con l'altra molto bene, procedendo in acque internazionali diretti a Gaza. Quando verso l'una e mezza le navi militari israeliane hanno iniziato ad avvicinarsi a noi. Noi nella nostra barca, la «Ottomila» greca, abbiamo iniziato ad organizzarci: gli attivisti con una resistenza non violenta a protezione della cabina di comando, noi giornalisti da un'altra parte, tutti insieme, per cercare di riprendere il più possibile. L'arrembaggio è arrivato verso le 4-4,30. Nel frattempo il capitano ha ricevuto continue chiamate dalle navi da guerra israeliane, minacce, «fate dietrofront altrimenti vi attacchiamo», «siete in acque israeliane». E il capitano, giustamente, continuava a dire: «siamo in acque internazionali, lasciateci andare avanti». Alle 4.30 sono arrivati, sono piombati su tutti noi, eravamo circa a 75 miglia lontano dalla costa di Gaza, quindi totalmente in acque internazionali. Sono arrivati con gli Zodiac, imbarcazioni militari velocissime piene di soldati mascherati, vestiti di nero, che urlavano. Una scena assolutamente inquietante, da film dell'orrore, e hanno dato l'assalto alla nostra barca. Nel frattempo abbiamo visto che anche le altre erano assaltate. Ci siamo precipitati verso la cabina di comando dove gli attivisti si erano messi tutti intorno, legandosi, tenendosi per le braccia. Li hanno colpiti, hanno sparato, hanno buttato bombe al suolo, hanno usato tutta la violenza possibile, per cui hanno rotto questo abbraccio non violento, sono penetrati nella cabina di comando. Mentre alcuni colleghi che riprendevano da vicino con le telecamere si sono ritrovati i mitra puntati contro la faccia, per cui hanno tirato via la telecamera. Il capitano è stato malmenato, preso a pugni, calci, ferito alla testa, anche altri dell'equipaggio. Così hanno preso il comando della barca.
A questo punto che cosa avete fatto e come siete stati trattati?
Siamo stati trattati male. Siamo stati messi tutti insieme sul ponte, messi a sedere con la forza, non abbiamo potuto prendere niente se non medicine e passaporti. Tra l'altro, da quella zona in acque internazionali al porto israeliano di Ashdod ci sono volute 8 ore di viaggio. Otto ore siamo stati lì, prevalentemente sotto il sole, non ci si poteva muovere, andare al gabinetto uno per volta, appena uno si alzava si trovava il mitra puntato: «Siedi». Diciamo che il clima era allegro perché gliene abbiamo dette di tutti i colori. Gli attivisti si sono scatenati dicendo: «Così vi comportate da nazisti, voi che siete le vittime dell'Olocausto». E devo dire che, veramente, sembravano squadracce della morte in stile latino-americano. Violentissimi. E giovanissimi.
Qualcuno spiegava le ragioni della vostra iniziativa?
Sì continuamente. Ma nessuna parlava con noi. Addirittura abbiamo ricordat dell'esperienza dei refusmik nell'esercito: «Rifiutatevi anche voi di fare queste cose». Niente. Muri di gomma.
Arrivati a Ashdod, che è successo?
La nostra nave è arrivata tra le prime e tra le prime a sbarcare, perché quella turca è stata tenuta in mare per delle ore, sotto ostaggio. Fra l'altro abbiamo dovuto lasciare tutto, tutto. Tutte le nostre valigie, le telecamere, macchine fotografiche, le cassette con tutto il girato, i nostri documenti. Io ho perso tutto. Mi hanno rubato un sacco di soldi, carte di credito, occhiali, il cellulare. Ci hanno rubato tutto. All'aeroporto stamattina, a Istanbul, non abbiamo trovato nulla. Comunque, appena arrivati a Ashdot abbiamo trovato un tendone enorme, evidentemente organizzato da giorni, con dentro militari, tipi dei servizi segreti. Siamo passati da un desk all'altro, ci hanno preso le impronte, ci hanno intimidito, fotografato, sbeffeggiato. «Adesso finite in galera, lo sapete?, ci starete anni. Proprio così...Firmate, ammettete di aver violato il diritto israeliano, firmate». Noi abbiamo detto «no». Nessuno di noi ha accettato, tutti abbiamo detto: «no, siete voi che avete violato il diritto internazionale, ci avete rapiti. Non firmiamo». E siamo andati via. «Allora finite in galera», va bene, finiamo in galera. Pace. Così è stato. Voglio aggiungere che stamattina abbiamo saputo che l'Italia ha votato no alla richiesta di una indagine fatta dal Consiglio dei diritti umani dell'Onu. Di questo ci vergognamo. Gli attivisti italiani per portare aiuti umanitari e i giornalisti per coprire la notizia hanno rischiato la vita. E ci ritroviamo un paese, come dire, disumano.
il manifesto 04/06/2010