16 giugno 2010

Cuba, l'ora più critica. Conciliare la rivoluzione con i cambi necessari


di Roberto Livi
L'isola importa l'80% degli alimenti che consuma. Una spesa impossibile. Ferve, come mostrano le pagine del Granma, il dibattito interno su come rendere sostenibile il vecchio modello ugualitario fidelista con le riforme strutturali che inevitabilmente creano disparità sociali, di genere e di razza

Sostituzione delle importazioni, diversificazione e maggiore efficienza della produzione, maggiore agilità nel sistema di commercializzazione e lotta alla burocrazia per «risolvere le necessità crescenti della popolazione». Nel corso del X congresso dell'Associazione nazionale dei piccoli agricoltori (Anap, 362.400 agricoltori privati e membri delle 3.635 cooperative: controllano il 41% della terra arabile, però assicurano il 70% della produzione agricola dell'isola) a metà maggio, gli interventi hanno ripetuto questi refrain. Alla sessione plenaria era presente anche il presidente Raúl. La questione della produzione agricola e più in generale alimentaria è considerata «materia di sicurezza nazionale», visto che Cuba importa quasi l'80% di quello che consuma, impegnando in tali acquisti quasi un 1.5 miliardi di euro. Una «bolletta» che, data la forte crisi di liquidità, diventa quasi insostenibile per il governo.
Il nodo che Cuba deve affrontare oggi è questo: assicurare la sostenibilità economica del socialismo, anche - e soprattutto, almeno così sembra esprimersi la maggioranza dei cubani - mediante cambiamenti strutturali. La crisi economica, infatti, rischia di mettere in pericolo le conquiste sociali (dunque politiche) della rivoluzione.
Il dibattito in corso è strategico e investe le fondamenta del modello socialista cubano come lo ha disegnato Fidel, soprattutto la questione della proprietà dei mezzi di produzione e distribuzione. Egualitarismo, Stato proprietario e gestore (al 95%), come pure la doppia moneta (guadagni in pesos, spese in valuta, Cuc) sono al centro di un dibattito interno al partito comunista ma che si riflette nella società (come si vede dalle lettere pubblicate il venerdì nel quotidiano del Pc, Granma). Lo stesso Raúl si era espresso in favore di cambiamenti. Ma le resistenze interne devono essere forti: nella sessione dell'Assemblea nazionale del potere popolare lo scorso dicembre il presidente ha avvertito che nella riforma del modello economico cubano «non si possono correre i rischi dell'improvvisazione e della fretta». Anche la decisione di rimandare la convocazione del VI congresso del Pc (previsto per l'inizio 2009) è un segnale che le riforme economiche e strutturali non sono ancora all'ordine del giorno.
Non per questo, però, la crisi congela le sue conseguenze pericolose. In un intervento organizzato qualche settimana fa dal «Gruppo di riflessione e solidarietà Oscar Romero», Mayda Espina, del Centro di ricerche psicologiche e sociologiche (Cips), ha tracciato un quadro per molti versi preoccupante di tali effetti.
Nella seconda metà degli anni '80 del '900, quando si vedevano i risultati della politica di Fidel volta a promuovere l'egualitarismo come una delle basi (insieme a un forte nazionalismo e al socialismo) del cosiddetto «fidelismo», la maggioranza della popolazione disponeva di poco denaro (lo stipendio medio era di 72 pesos, al cambio attuale circa 3 euro) ma godeva di una forte «copertura sociale», ovvero le «gratuità di massa»: cibo praticamente a costo zero (libreta e comedores obreros), scuola e sanità gratuiti, vacanze nel campismo popular, premi per feste e ricorrenze. In termini occidentali, i cubani vivevano in una dignitosa povertà materiale, ma in una società fortemente egualitaria (e politicamente motivata). L'indice Gini (che esprime il grado di diseguaglianza e quindi quanto più è basso è migliore), era del 0.24, il più basso e di molto dell'America latina; la povertà urbana al 6.3%; la forbice sociale minima: i più «ricchi» guadagnavano 4.5 volte il salario minimo.
Nel '99, l'indice della povertà urbana (che in sostanza segnala l'insufficiente rapporto tra i livelli di necessità di vita e il reddito), secondo fonti ufficiali marcava già un impressionante aumento (al 20%), e pur non disponendo di dati ufficiali i ricercatori ritengono che oggi sia ancora più alto: uno su 4 si ritiene povero. Anche perché il sostegno dello Stato è diminuito (la libreta assicura le necessità alimentari al massimo per un paio di settimane al mese, i comedores obreros - mense aziendali - stanno chiudendo, sostituite da un ticket di circa 14 pesos, più o meno 50 centesimi di euro, rispetto a uno stipendio medio di 400 pesos circa.
Questa situazione ha comportato - in un processo che ormai si auto-alimenta - cambiamenti nella situazione sociale cubana. Con la moltiplicazione delle forme di proprietà (cooperative e private) è avvenuta una ricomposizione della piccola borghesia, una segmentazione dell'accesso al consumo (indice Gini allo 0.38 nel 2002), sono riemerse situazioni povertà e marginalità urbana assieme alla «moltiplicazione delle strategie famigliari» per aumentare i redditi o addirittura per assicurarsi la sopravvivenza e, soprattutto, un aumento in quella che viene definita la «frattura» tra generi, territorio e settori razziali. Ovvero un progressivo impoverimento delle donne, di coloro che vivono fuori città e della popolazione nera. Nella condizione di povertà urbana sono le famiglie numerose e quelle mono-parentali (la maggioranza sostenute da donne senza qualifica o senza lavoro stabile), anziani soli, ma anche i lavoratori di settori statali tradizionali con bassi salari. Dunque, nella categoria dei poveri urbani sono in aumento gli operai e sono super-rappresentati i neri e le donne.
Questa situazione di deterioramento economico provoca un aumento dell'abbandono scolare e dell'utilizzazione di minori per la produzione di reddito e produce i meccanismi di «riproduzione generazionale degli svantaggi» (operai, lavoratori con bassi salari, donne e neri, giovani). Dunque si accelera una dinamica di divisioni per classi, generi e colore di pelle, che era il nemico principale del «fidelismo».
In sostanza, la crisi produce una dinamica sociale con gli stessi meccanismi che in Italia o in Occidente, ma che si sommano a specificità cubane (economia poco sviluppata, società con canoni patriarcali, differenziazioni razziali ereditate dal passato e ovviamente ancora irrisolte).
La ricetta per affrontare questa situazione però è ben differente da quelle berlusconiana, visto che il governo punta a razionalizzare la politica di copertura sociale mantenendo però le conquiste della rivoluzione, sanità e scuola gratuite, forte assistenza anche se più selettiva. In particolare con interventi sul territorio invece che a pioggia («gratuità di massa»), con la possibilità dunque di selezionare chi più necessità di sostegno statale e in generale accoppiando l'assistenza con forme di autorganizzazione (economiche e sociali). Oltre che intervenire nella sovrastruttura con pratiche di «destrutturazione del modello maschile cubano (machismo)», aiuto alle donne (flessibilità orario di lavoro), ecc.
Tutte misure che richiedono una sostenibilità economica. E dunque riforme che hanno un forte componente politica. Coloro che scrivono al Granma per insistere sulla creazione di cooperative nel commercio, nei servizi e nel settore della gastronomia, o per proporre che si allarghi la possibilità di lavoro privato in settori come caffetterie, pizzerie, oltre che in vari mestieri, idraulico, meccanico, muratore, ecc. «non stanno affrontando un tema che riguarda gli effetti dell'embargo Usa, le conseguenze del periodo speciale o la mancanza di risorse economiche», afferma Orlando Freire Santana, nell'ultimo numero della rivista Palabra Nueva edita dall'arcivescovado dell'Avana. «Queste opinioni e interventi - continua - anche senza rendersene conto, riflettono sulle cause della cosidetta Offensiva rivoluzionaria che nel 1968 mise fine alle piccole attività private che sussistevano a Cuba».
Il dibattito è fortemente politicizzato, contraddicendo chi afferma che a Cuba trionfano repressione e totale mancanza di parola politica (e di società civile). Nelle opinioni che appaiono sulla stampa (di partito e governo), per usare le parole del cardinale Ortega, «molti parlano di socialismo e dei suoi limiti, alcuni propongono un socialismo riformato, altri si riferiscono a cambi concreti che devono essere attuati, a mettere in cantina il vecchio stato burocratico di tipo stalinista, altri parlano dell'indolenza dei lavoratori, della scarsa produttività ... Ma tutti hanno un denominatore comune che si facciano, e presto, i cambiamenti necessari» per rimediare all'attuale situazione di crisi. E, insiste il cardinale, vi è «un consenso nazionale», sul fatto che questi cambiamenti devono essere decisi a Cuba, tra cubani, non con le «campagne destabilizzanti» che partono, usando strumentalmente la questione dei diritti umani, da Usa, Spagna e altri paesi europei.

il manifesto 11/06/2010