Una riflessione del Coordinamento migranti di Bologna come contributo al dibattito sullo sciopero precario
Da mesi evocata, richiesta, immaginata, alla fine è arrivata la data dello sciopero generale della CGIL. Non si sa se sarà davvero l’occasione in cui il sociale mostrerà tutta la sua forza di pressione politica. Oppure se le quattro ore di astensione dal lavoro per i diritti e contro la politica del governo saranno un contenitore nel quale ognuno potrà immaginare il proprio avversario per poi dire di averlo colpito duramente. Si vedrà. Noi ci limitiamo a osservare che lo sciopero forse non è più pensabile solo come un’astensione dal lavoro con relativa manifestazione e comizio finale; forse è necessario fare un passo avanti.
Intanto, tra mille difficoltà, e con una partecipazione decisamente inferiore rispetto all’anno precedente, lo scorso primo marzo ha avuto luogo la seconda giornata senza immigrati “24h senza di noi”. Si potrebbe facilmente ironizzare dicendo che la giornata è effettivamente riuscita, perché pochi immigrati vi hanno partecipato e molti forse ne ignoravano persino l’esistenza. In questo clima di difficile visibilità per i migranti c’è chi ha scelto di tornare a pratiche eclatanti e simboliche che nell’assalto al Cie, mentre urlano la giusta rabbia dentro a una situazione intollerabile, rischiano però di rappresentare in forma rovesciata il modello emergenziale con il quale sono costantemente affrontati i movimenti dei migranti. Come non pensiamo che la precarietà sia un dato contingente della presente organizzazione del lavoro, al quale si possa rispondere con qualche aggiustamento giuridico o contrattuale, così non pensiamo che i movimenti dei migranti siano un fatto eccezionale da governare o da sostenere in modo episodico ed esemplare.
Poiché pensiamo che la presenza dei migranti sia un dato strutturale e insopprimibile all’interno delle nostre società, noi abbiamo scelto un’altra strada. Con rabbia non minore abbiamo scelto di organizzare come l’anno scorso lo sciopero con e dei migranti. L’abbiamo fatto attraversando dove possibile gli attivi dei delegati della Fiom, parlando con gli operai migranti e italiani nelle fabbriche e nelle cooperative, incontrando e mettendo in comunicazione il lavoro precario e migrante. Lo sciopero che ne è uscito ha visto a Bologna una partecipazione più ampia di quella dello scorso anno sia per le fabbriche coinvolte sia per il numero di lavoratori che vi hanno partecipato. Un modesto sciopero politico che non ha difeso né richiesto un contratto, ma ha opposto italiani e migranti insieme a una condizione particolare che finisce per coinvolgere tutti. Uno sciopero che ha individuato il suo avversario tanto nelle imprese, che sull’economia della legge Bossi-Fini costruiscono i loro profitti, quanto nelle norme legislative e amministrative che consentono questo specifico regime di accumulazione di profitti.
Noi sosteniamo che i migranti nella loro singolarità mostrano quotidianamente i caratteri universali della condizione precaria: sia per la regolare irregolarità delle loro condizioni lavorative, sia per il dissolvimento dei contenuti materiali della cittadinanza che vivono sulla loro pelle. Ciò significa che ogni riflessione sul nuovo welfare dovrebbe non solo evitare il collegamento al salario come criterio della cittadinanza, ma anche porsi il problema di quali gerarchie sociali implicite potrebbe stabilire l’accesso alle prestazioni sociali. Il welfare forse non può essere solo il risarcimento per il salario mancante, ma anche porsi la questione di quale relazione ogni welfare stabilisce tra le figure lavorative, visto che, per esempio, sul terreno attuale del welfare, già ampiamente monetarizzato, la divisione sessuale del lavoro rinnova e rafforza lo sfruttamento e l’isolamento delle donne migranti. Per queste e altre ragioni di fronte a chi, ogni volta che si parla sciopero del lavoro migrante, dice che si tratta di uno sciopero etnico, c’è ormai solo il fastidio. Lo sciopero del lavoro migrante non è stato, né può essere, solamente lo sciopero dei migranti, ma ha attraversato e coinvolto moltissimi lavoratori, precari e non. Allo stesso tempo non può essere solo uno sciopero nazionale, perché il lavoro migrante mette a nudo la dimensione transnazionale dello sfruttamento del lavoro precarizzato. Forse non è allora un caso che quest’anno, anche a Vienna ci sia stata un’esperienza di sciopero del lavoro migrante, così non dovrebbe stupire che a Bologna si sia registrata la presenza massiccia di studenti e di donne che hanno agito in autonomia, ma anche in continuità con lo sciopero stesso.
L’opposizione alla condizione migrante mette infatti in gioco tanto la possibilità di accedere alla formazione quanto la lotta contro il patriarcato. La lotta contro una condizione composta di particolarità non sopporta una facile sintesi generale. Gli studenti figli di migranti non tollerano più l’etichetta di seconda generazione, seguendo la saggia idea di non voler essere secondi a nessuno. Non vogliono accomodarsi insieme ai loro compagni degli istituti tecnici e professionali nella sala d’attesa della cittadinanza nella paziente attesa di un lavoro precario e sottopagato. Le donne italiane e migranti sanno perfettamente che il patriarcato non è un residuo del passato e tanto meno il portato esotico che proviene da terre lontane, ma una modalità concreta e attuale di organizzare i rapporti tra gli uomini e le donne e, non da ultimo, il lavoro riproduttivo, salariato o meno. Una condizione che necessariamente si oppone ai modelli di trasmissione del sapere e alle logiche più intime di divisione del lavoro produttivo e riproduttivo non può che essere una condizione universale. Uno sciopero contro questa condizione non può che essere uno sciopero politico, che non ricompone tutti i protagonisti in un’unica figura, ma li fa comunicare e agire insieme contro avversari riconosciuti come comuni.
Quest’anno abbiamo propagato la parola d’ordine dello sciopero con lo slogan: L'abbiamo fatto e lo rifaremo... Anche dentro il dibattito e la pratica dello sciopero precario porteremo l’esperienza di quello che abbiamo fatto, senza la pretesa di indicare un altro modello generalizzabile, ma segnalando un metodo che può contribuire a fare dello sciopero precario qualcosa se non nuovo almeno politicamente originale.
Da mesi evocata, richiesta, immaginata, alla fine è arrivata la data dello sciopero generale della CGIL. Non si sa se sarà davvero l’occasione in cui il sociale mostrerà tutta la sua forza di pressione politica. Oppure se le quattro ore di astensione dal lavoro per i diritti e contro la politica del governo saranno un contenitore nel quale ognuno potrà immaginare il proprio avversario per poi dire di averlo colpito duramente. Si vedrà. Noi ci limitiamo a osservare che lo sciopero forse non è più pensabile solo come un’astensione dal lavoro con relativa manifestazione e comizio finale; forse è necessario fare un passo avanti.
Intanto, tra mille difficoltà, e con una partecipazione decisamente inferiore rispetto all’anno precedente, lo scorso primo marzo ha avuto luogo la seconda giornata senza immigrati “24h senza di noi”. Si potrebbe facilmente ironizzare dicendo che la giornata è effettivamente riuscita, perché pochi immigrati vi hanno partecipato e molti forse ne ignoravano persino l’esistenza. In questo clima di difficile visibilità per i migranti c’è chi ha scelto di tornare a pratiche eclatanti e simboliche che nell’assalto al Cie, mentre urlano la giusta rabbia dentro a una situazione intollerabile, rischiano però di rappresentare in forma rovesciata il modello emergenziale con il quale sono costantemente affrontati i movimenti dei migranti. Come non pensiamo che la precarietà sia un dato contingente della presente organizzazione del lavoro, al quale si possa rispondere con qualche aggiustamento giuridico o contrattuale, così non pensiamo che i movimenti dei migranti siano un fatto eccezionale da governare o da sostenere in modo episodico ed esemplare.
Poiché pensiamo che la presenza dei migranti sia un dato strutturale e insopprimibile all’interno delle nostre società, noi abbiamo scelto un’altra strada. Con rabbia non minore abbiamo scelto di organizzare come l’anno scorso lo sciopero con e dei migranti. L’abbiamo fatto attraversando dove possibile gli attivi dei delegati della Fiom, parlando con gli operai migranti e italiani nelle fabbriche e nelle cooperative, incontrando e mettendo in comunicazione il lavoro precario e migrante. Lo sciopero che ne è uscito ha visto a Bologna una partecipazione più ampia di quella dello scorso anno sia per le fabbriche coinvolte sia per il numero di lavoratori che vi hanno partecipato. Un modesto sciopero politico che non ha difeso né richiesto un contratto, ma ha opposto italiani e migranti insieme a una condizione particolare che finisce per coinvolgere tutti. Uno sciopero che ha individuato il suo avversario tanto nelle imprese, che sull’economia della legge Bossi-Fini costruiscono i loro profitti, quanto nelle norme legislative e amministrative che consentono questo specifico regime di accumulazione di profitti.
Noi sosteniamo che i migranti nella loro singolarità mostrano quotidianamente i caratteri universali della condizione precaria: sia per la regolare irregolarità delle loro condizioni lavorative, sia per il dissolvimento dei contenuti materiali della cittadinanza che vivono sulla loro pelle. Ciò significa che ogni riflessione sul nuovo welfare dovrebbe non solo evitare il collegamento al salario come criterio della cittadinanza, ma anche porsi il problema di quali gerarchie sociali implicite potrebbe stabilire l’accesso alle prestazioni sociali. Il welfare forse non può essere solo il risarcimento per il salario mancante, ma anche porsi la questione di quale relazione ogni welfare stabilisce tra le figure lavorative, visto che, per esempio, sul terreno attuale del welfare, già ampiamente monetarizzato, la divisione sessuale del lavoro rinnova e rafforza lo sfruttamento e l’isolamento delle donne migranti. Per queste e altre ragioni di fronte a chi, ogni volta che si parla sciopero del lavoro migrante, dice che si tratta di uno sciopero etnico, c’è ormai solo il fastidio. Lo sciopero del lavoro migrante non è stato, né può essere, solamente lo sciopero dei migranti, ma ha attraversato e coinvolto moltissimi lavoratori, precari e non. Allo stesso tempo non può essere solo uno sciopero nazionale, perché il lavoro migrante mette a nudo la dimensione transnazionale dello sfruttamento del lavoro precarizzato. Forse non è allora un caso che quest’anno, anche a Vienna ci sia stata un’esperienza di sciopero del lavoro migrante, così non dovrebbe stupire che a Bologna si sia registrata la presenza massiccia di studenti e di donne che hanno agito in autonomia, ma anche in continuità con lo sciopero stesso.
L’opposizione alla condizione migrante mette infatti in gioco tanto la possibilità di accedere alla formazione quanto la lotta contro il patriarcato. La lotta contro una condizione composta di particolarità non sopporta una facile sintesi generale. Gli studenti figli di migranti non tollerano più l’etichetta di seconda generazione, seguendo la saggia idea di non voler essere secondi a nessuno. Non vogliono accomodarsi insieme ai loro compagni degli istituti tecnici e professionali nella sala d’attesa della cittadinanza nella paziente attesa di un lavoro precario e sottopagato. Le donne italiane e migranti sanno perfettamente che il patriarcato non è un residuo del passato e tanto meno il portato esotico che proviene da terre lontane, ma una modalità concreta e attuale di organizzare i rapporti tra gli uomini e le donne e, non da ultimo, il lavoro riproduttivo, salariato o meno. Una condizione che necessariamente si oppone ai modelli di trasmissione del sapere e alle logiche più intime di divisione del lavoro produttivo e riproduttivo non può che essere una condizione universale. Uno sciopero contro questa condizione non può che essere uno sciopero politico, che non ricompone tutti i protagonisti in un’unica figura, ma li fa comunicare e agire insieme contro avversari riconosciuti come comuni.
Quest’anno abbiamo propagato la parola d’ordine dello sciopero con lo slogan: L'abbiamo fatto e lo rifaremo... Anche dentro il dibattito e la pratica dello sciopero precario porteremo l’esperienza di quello che abbiamo fatto, senza la pretesa di indicare un altro modello generalizzabile, ma segnalando un metodo che può contribuire a fare dello sciopero precario qualcosa se non nuovo almeno politicamente originale.